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Carlo Piano: “Mio padre Renzo misurava anche i castelli di sabbia a Genova sulla spiaggia di Pegli”
di Bettina Bush – Da la Repubblica online del 1° aprile 2024
«Ogni estate da bambino andavo un mese in barca a vela insieme alla famiglia, ai fratelli Matteo e Lia, a mia madre Magda, a mio padre Renzo. Lui preferiva stare in rada e quando ci portava in spiaggia, era per costruire insieme i castelli di sabbia. Ha costruito grattacieli, musei in tutto il mondo eppure questi sono gli edifici a cui è più affezionato, li faceva a Genova Pegli da bambino».
Carlo Piano non ha nessuna esitazione, ripercorre volentieri oltre mezzo secolo di ricordi che lo legano al padre, Renzo Piano, a partire da quei castelli di sabbia.
«Erano sempre il frutto di una lunga osservazione — racconta — misurava ogni cosa, la distanza dall’acqua, perché quando arrivava l’onda, doveva entrare bene nei canali, poi c’era l’inclinazione dei muri, perché tutto doveva funzionare».
Sicuramente un perfezionista, ma suo padre era autoritario nei suoi insegnamenti?
«No assolutamente, piuttosto era molto preciso. Il costruire è sempre una magia per i ragazzi, Se se penso al presente, mentre quasi tutti i giochi sono elettronici, il Lego è l’unico diverso, c’è qualcosa di ancestrale nel costruire che resiste nel tempo».
Lei è nato a Genova, ci è rimasto poco. I suoi primi ricordi dove la portano?
«Quando sono nato, mio padre aveva solo 28 anni, era appena laureato e siamo andati a vivere a Lambrate, ero piccolo, mi tornano in mente solo i racconti di mia madre che si lamentava della nebbia e del fumo. Ma lì siamo stati poco; c’è stata l’Inghilterra, la Francia. Erano i tempi dell’asilo, delle scazzottate con i compagni, e poi ci sono gli anni del Beaubourg. Andavamo a Parigi con il treno che partiva di sera da Genova, viaggiavamo tutta la notte e arrivavamo di mattina».
È stato inaugurato quando aveva 12 anni, e suo padre era già un famoso architetto.
«Quando sono nato, lui era un ragazzo, è diventato famoso mentre crescevo, è stato un processo graduale, se penso al Beaubourg, alla sua inaugurazione, era pieno di gente, c’era anche Giscard d’Estaing, ma l’ho vissuto come qualcosa di molto naturale».
È stato condizionato dal suo successo?
«Io ho scelto una strada completamente diversa dalla sua, il confronto è stato decisamente più sfumato, mi ha dato la possibilità di conoscere molte persone, più che altro mi collegavano sempre a lui, ma non mi ha dato fastidio, ci sono abituato da sempre».
Si è mai sentito un raccomandato?
«Raccomandare noi figli è l’ultima cosa che una persona come mio padre avrebbe fatto, e se fosse successo, credo che avrei fatto una carriera ben diversa. Sicuramente ho avuto la possibilità di conoscere molte persone grazie a lui, ma la raccomandazione è qualcosa legata al potere e lui non è un uomo di potere; un architetto come uno scrittore, o un musicista, è un artista, non ha quel potere di muovere le pedine».
Perché prima giornalista e poi scrittore?
«Facevo lettere e avevo già scribacchiato per il Secolo, nel frattempo avevo fatto i testi per i filmati di mio padre; in seguito ho passato tanti anni al Giornale, dopo sono stato a Panorama, al Sole. Non molto tempo fa è nata l’idea di fare un libro insieme a mio padre, Atlantide, un viaggio alla ricerca della bellezza.
È stato un ritrovarsi, averlo a disposizione, per frugare nei suoi cassetti, anche un fare e disfare, tornare indietro, una bellissima esperienza, ma non la rifarei; l’architetto ha una prospettiva temporale molto diversa dallo scrittore, molto più lunga».
In una famiglia di costruttori, questa scelta diversa com’è stata accolta?
«Mio padre ha appoggiato i miei desideri e le mie inclinazioni, se poi la strada sia stata quella giusta, questo non lo so. Mi ha insegnato che nella vita bisogna convivere sempre con un senso di inadeguatezza per quanto cerchiamo di avvicinarci alla perfezione, è impossibile da raggiungere, sia per un edificio che per un articolo. Devi avere la consapevolezza del dubbio, ma senza esagerare».
L’architetto disegna con le forme, lo scrittore con le parole. Ci sono analogie tra questi due modi di fare?
«C’è un rapporto strano, si attraggono e si respingono, ricordo che Italo Calvino andava a curiosare nel Beaubourg in costruzione, poi è nata Armilla, una delle Città Invisibili che racconta la magia del cantiere. Sicuramente l’architetto invidia lo scrittore perché ha a che fare con una materia leggera, le parole, mentre l’architetto deve affrontare la pesantezza del cemento».
Nel 2023 si è dedicato a un libro diverso dagli altri, al Torto, un noir che racconta la vicenda di Donato Bilancia.
«Quando è morto nel 2020 nel carcere di Padova, pensavo di averlo dimenticato, invece è tornato su, forse volevo esorcizzarlo. Mentre il mio libro il Cantiere di Berto racconta la speranza di Genova, questo invece tira fuori il suo lato oscuro, i caruggi dove il sole non arriva mai, la città di De André. La cosa che mi ha colpito che fino a 46 anni quest’uomo non ha mai fatto male a nessuno, poi in 6 mesi ha ucciso 17 persone. Era cresciuto in Piazza Martinez, amico di Beppe Grillo, di De Scalzi. Uno è diventato una rockstar, l’altro un serial killer. La distanza che divide una persona normale da un serial killer, alla fine, è molto più sottile».
Immagine di copertina. Carlo Piano con il padre Renzo Piano (foto da la Repubblica)
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