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IL REPORTAGE
Perché sono andata ad Auschwitz
di Benedetta Tobagi
A sei mesi dal 7 ottobre e a due anni dalla guerra ucraina la scrittrice ha visitato i luoghi della Shoah. Per capire
La nuda potenza del posto spazza via le partigianerie ottuse, l’eco delle polemiche ideologiche si spegne in fretta
Il campo non si visita, si attraversa, mi spiega Michele, che lavora come guida da dodici anni dopo una severa formazione
In tempo di guerra, la memoria spesso si riduce a un’arma. Anche quella della Shoah. Cosa significa visitare i campi di sterminio a due anni dall’invasione dell’Ucraina e sei mesi dopo il 7 ottobre, mentre l’epiteto “nazista” e l’accusa di antisemitismo sono agitati come armi tattiche per stroncare qualunque dibattito, mentre si riaffacciano i più odiosi attacchi agli ebrei e le sensibilità “a corrente alternata”, chi ignora le vittime del massacro di Hamas, chi si mostra cieco alla carneficina consumata da mesi a Gaza? Possiamo coltivare una memoria che alimenti la cultura dei diritti umani e l’empatia per il dolore dell’altro, anziché ridursi a monumento retorico oppure, peggio ancora, a un credito irrisarcibile da brandire a giustificazione di nuovi orrori?
Per scoprirlo, mi sono unita a uno dei tanti viaggi della memoria organizzati da oltre un decennio dall’Associazione Deina che, partendo dalla Cracovia della fabbrica di Oskar Schindler, conduce centinaia di ragazzi dai 17 ai 25 anni (ma per fortuna sono ammessi anche un po’ di adulti) in un percorsodi conoscenza che termina nell’anus mundi del Novecento, i campi di Auschwitz e Birkenau.
L’esperienza è forte, intensamente spiazzante. La nuda potenza dei luoghi spazza via le partigianerie ottuse, l’eco delle polemiche ideologiche si spegne in fretta. Nel silenzio germogliano i dubbi, le domande senza risposta. Camminando nel ghetto della città polacca, a un tiro di schioppo dal confine ucraino, quando la guida racconta i mesi terribili del 1939 che precedettero l’aggressione nazista, i dilemmi circa le prospettive del riarmo europeo e il sostegno militare a Kiev assumono proporzioni ancora più angosciose. Deina lavora proprio in questa direzione, perché dall’incontro con l’abisso scaturisca un nuovo senso di responsabilità rispetto al presente e al futuro: Auschwitz è il momento terminale di un piano inclinato che comincia molto prima, con piccoli atti di chiusura e discriminazione, quando si smette di vedere nell’altro da noi un essere umano.
La preparazione storica si costruisce in un percorso di incontri nei mesi precedenti al viaggio; giunti sul posto si lavora sul vissuto, soprattutto sul tema della scelta. «Cerchiamo di portare l’attenzione su tutto ciò che accade prima della valanga», mi spiega Francesco Filippi, storico e scrittore, vicepresidente di Deina, «senza dimenticare che, in questa storia, noi saremmo i carnefici ». Tra i testi-base dei laboratori con cui si prepara la tappa più importante del viaggio c’è infatti lo splendido saggio Uomini comuni , in cui Christopher Browning ha ricostruito le storie dei componenti di un battaglione di polizia tedesco a cui il comandante offrì la possibilità di sottrarsi al compito di assassinare tutti gli ebrei del villaggio di Józefóv, per interrogarsi a fondo su cosa muove chi spara e chi si rifiuta, oltre gli stereotipi e i luoghi comuni. Per ricordare sempre che noi umani siamo insieme meravigliosi e terribili, deinós, in greco antico, che il nome dell’associazione declina al plurale: la scelta sta a noi.
«Auschwitz non si visita, si attraversa», mi spiega Michele, che lavora come guida ai campi da una dozzina d’anni, scaldandosi le mani con un bicchierino di caffè nella breve pausa tra la visita al grande campo di lavoro di Auschwitz 1 e l’ex macchina di sterminio di Birkenau. Per diventarlo ha studiato più di un anno, c’è un esame, la Fondazione richiede una preparazione rigorosa e continui corsi di aggiornamento. «Ma la vera difficoltà è quando esci», aggiunge, vivere in coerenza col senso profondo di ciò che siamo qui a trasmettere, in un mondo sempre più disumano.
All’ingresso di Birkenau, una delle tutor di Deina legge da Se questo è un uomo la pagina in cui Primo Levi racconta la sequenza da incubo del proprio arrivo nella notte del 26 febbraio di ottant’anni prima, su quella stessa banchina dove un gruppo di ragazzi si stringe in silenzio. Michele ci ricorda che, per coincidenza, proprio il 26 febbraio è anche l’anniversario della strage dei migranti naufragati a Cutro, nel 2023. Nell’assemblea conclusiva con i ragazzi, Deina rievoca l’odissea della nave St. Louis, con oltre 900 ebrei che la Germania lasciò partire nel maggio ’39 da Amburgo, a cui Cuba, Usa e Canada rifiutarono l’approdo. Invita a vedere altre storie e nuovi volti, insieme a quelli degli ebrei che, insieme a rom, omosessuali e prigionieri politici, furono assassinati in quello scampolo di campagna circondato di betulle, oggi sospeso in una pace irreale.
Così, mentre lo attraversi, Auschwitz ti attraversa, ti scava dentro in modi che, prima di entrarci, non avresti immaginato, anziché ridursi a un feticcio memoriale accuratamente sterilizzato, come nella sorprendente “fuga in avanti” del finale del film premio Oscar La zona d’interesse (non faccio spoiler, ma gela il sangue – sul sito, leggi qui).
Senza togliere nulla a nessuno, senza forzare o violentare la storia, semplicemente riflettendo sulla radice umana di quel male fatto d’indifferenza, egoismo, avidità, de-umanizzazione e mostruosa efficienza burocratica, Deina invita i giovani a riconoscerlo e affrontarlo, dentro e intorno a sé, in tutte le sue forme. Così la Shoah si fa memoria viva, umana e pulsante, senza perdere un briciolo della sua tragica unicità.
Proprio in questo spirito, in fin dei conti, due grandi giuristi, Hersch Lauterpacht e Raphael Lemkin, trassero spunto da quell’orrore per plasmare le due categorie più importanti del diritto internazionale post-bellico, quelle di crimini contro l’umanità e di genocidio (come racconta Philippe Sands nel bellissimo volume La strada verso est) e, lo scorso 29 gennaio, la Corte internazionale dell’Aja ha ordinato a Israele di «prevenire atti di genocidio » a Gaza, sottolineando che il tribunale «ha la giurisdizione per pronunciarsi in merito», a fronte di tutto ciò che il Paese sta facendo e farà.
[Di Benedetta Tobagi, da la Repubblica del 21 marzo 2024]
Immagine di copertina. Polonia Auschwitz, nella città di Oświęcim ( foto luiginarici/AGF)