Personaggi ed Eventi

Fenomenologia di Vasco Rossi (1)

di Sandro Russo

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Il punto di partenza di questo scritto è la bonaria polemica che ha contrapposto – in una delle ultime Canzoni per la domenicaIole, strenua estimatrice di Vasco Rossi e Sandro che non l’ha mai potuto sopportare (leggi qui).
E fin qui si è trattato di una banale questione di gusti personali. Ma poi, parlandone tra amici, ho trovato sostenitori dell’una e dell’altra fazione; sono venute fuori cose interessanti, da approfondire… e a questo punto ne parliamo più a fondo.
È accaduto appunto di scoprire che nel mio giro prossimo, Alessandro Alfieri (1), non l’ultimo arrivato nel campo dell’analisi  dei fenomeni musicali sotto il profilo sociale e mass-mediologico abbia scritto, insieme a Paolo Talanca (2) un libro (per Mimesis Edizioni, 2012) con una tesi piuttosto critica e controcorrente sul fenomeno Vasco Rossi, che ho ricevuto dall’autore e non ho mancato di sfogliare qua e là.

Senza alcuna animosità ma con un sincero interesse a capire il motivo di un’istintiva avversione per un cantante, ho scorso i capitoli del libro di cui Alessandro Alfieri è co-autore.
E di motivazioni ne ho trovate d’avanzo. Niente di personale – dire “avversione ” è anche eccessivo – ma abbastanza da giustificare perché non habbia mai avuto voglia di starlo ad ascoltare o conoscerlo meglio, Vasco Rossi. Non è la prima volta che l’approfondimento di una antipatia mi si rivela solidamente fondata.

Già la presentazione del libro – nella nota proposta dalla Casa Editrice  – fornisce la chiave di lettura:

“Vasco è Vasco, Vasco è un mito e un’icona, impossibile negarlo. Che cosa può fare emergere una trattazione rigorosa e seria rivolta al fenomeno dominante della cultura popolare italiana da oltre 30 anni e alla sua musica? Senza voler fare un attacco sconclusionato e fazioso, “Vasco, il Male” vuole colmare un vuoto negli studi critico-filosofici, che troppo spesso trascurano l’importanza che fenomeni di tale portata hanno per l’orizzonte sociale nel quale viviamo. Quella di Vasco è stata la voce più seguita, più amata, più idolatrata e imitata degli ultimi decenni, e nessuno come lui può vantare una così sterminata platea di accaniti fan e autentici adoratori di tutte le età; per questa ragione non può essere esente da responsabilità sulla situazione odierna. Consegnandosi alla logica dell’identità perpetuata, ed avendo esaurito il valore artistico di una ponderata corrispondenza tra icona visiva e composizione musicale, Vasco si fa espressione del Male contemporaneo reiterando a prescindere da tutto il suo indiscutibile successo”.

Detto con parole meno circospette:
“un inedito romanticismo della trasandatezza, della volgarità, della marginalizzazione sociale e dell’ignoranza” – è sempre uguale a sé stesso, ai sogni degli anni ’80, e per questo viene mitizzato da una combriccola di fan tenuta insieme solo dal culto del “maestro”…

Molto in sintesi, la tesi del saggio è che il rocker di Zocca sia un «cattivo maestro» – Il peccato strutturale del vaschismo, secondo gli Autori, consiste nell’avere abbracciato, la «logica dell’identico», dopo essersi presentato ai suoi esordi come un momento di rottura. Proponendo l’eterna ripetizione di se stesso secondo uno schema, alquanto banale, per cui la rivolta contro il «mondo borghese» passava per lo sbandieramento di una supposta idea di trasgressione (a partire dal consumo di droghe) rivelando alfine la sua vera natura: l’ennesima manifestazione di anti-intellettualismo e di rigetto della cultura.
In sostanza Blasco come altra faccia della stessa sottocultura pop di cui si è nutrito il berlusconismo, ed entrambe espressioni idealtipiche dello spirito dei tempi degli Anni ’80[Ibidem, da una recensione del libro (3)].
I cori che accompagnano canzoni come Senza parole o Vivere non possiedono più la natura innovativa della scrittura per slogan degli esordi, convertendosi in mero borbottio e gargarismi sovreccitati. Rossi, insomma, si iconizza, ben sapendo che il significato e la forza dell’icona stanno proprio nella sua riproposizione pura e semplice. E, difatti, il Blasco è, a furor di popolo rock e giovanile, un «mito», che abolisce ogni distinzione tra la propria vita reale e l’ «opera d’arte» sul palco (persino più di figure come Andy Warhol, David Bowie (sul sito leggi qui e qui) e Alice Cooper).

Stralciati qua e là dal libro, alcuni passi:

97-98 e segg.
Abbiamo sostenuto come ogni civiltà o gruppo sociale, per orientare il proprio comportamento e pensiero, deve fare affidamento a un codice morale istituito da eventi, date fondative, valori condivisi, eroi riconosciuti; il mito compensa questa esigenza attraverso una costruzione di senso che, per quanto storicamente determinata e legata alla contingenza, assurge a universale al punto di confondersi e confluire nella natura stessa. Ovviamente, istituire il codice significa non solo identificare le categorie “positive”, quali libertà, pace, felicità, tutte inquadrabili nell’idea di Bene, ma secondo una necessità dialettica, corrispondente a ciò v’è anche l’orizzonte dell’idea del Male (…)

È evidente che il Male assoluto non esiste, ma è altrettanto evidente la necessità di “assolutizzare” fenomeni contingenti della storia per poterci orientare nell’ambito spirituale. In altri termini, l’idea del Male non è un’idea ontologica: essa “perviene” alla trascendenza attraverso un processo di ipostatizzazione, ma affonda le sue radici nella storia e nella cultura, nei fatti e nei prodotti che caratterizzano la memoria e la vita quotidiana di un popolo e che lo segnano nel profondo [J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina, Milano 2002],

(…) Infatti il pericolo per un’identità nazionale e civile é quando al suo interno coesistono sistemi mitologici tra loro però antitetici e contrastanti, anche perché nell’immaginario giovanile ad aver maggior successo sono spesso (potremmo dire da sempre ma con insistenza e caratteristiche specifiche dagli anni Settanta a oggi) quegli ordini simbolici e quelle mitologie che promuovono la frattura nei confronti delle mitologie “ufficiali”, ovvero quelle istituzionali riconosciute dalle generazioni precedenti. Questa oppo- sizione intergenerazionale è una cifra distintiva soprattutto della modernità, da quando cioè esiste la categoria dei “giovani”.

Nei nostri giorni, ad aver dato voce a tali “mitologie del dissenso”, a tali “mitologie de-mitoligizzanti” è stata in particolar modo la popular music, ma ancora più precisamente il rock’n’roll.
Vasco, in Italia, è stato negli ultimi decenni il mito costante e definitivo, più efficace e longevo di numerosi altri suoi colleghi altrettanti importanti in questo senso (come Luciano Ligabue) ma che sono rimasti lontani dal “potere” e dal ruolo del collega di Zocca.
Una delle strategie e dei segreti del trionfo pluridecennale di Vasco è stato il suo promuoversi da subito come outsider, anzi come l’avversario numero uno del perbenismo borghese, spesso intellettualoide e fintamente libertario, facendosi demolitore di alcuni fondamenti della cultura e della morale nella loro tradizionale concezione. Un mito negativo perciò, tipico delle culture popolari (pensiamo alle maschere, ai carnevali e alla tradizione satirica) e soprattutto della cultura postmoderna; questa dialettica si riflette perciò nel rapporto tra mito e società: “Se la nostra società è obiettivamente il campo privilegiato delle significazioni mitiche, questo avviene perché il mito è formalmente lo strumento più appropriato al rovesciamento ideologico che la definisce”.

107 e segg
Voglio vivere il momento.
Ho delle scadenza diverse.
Non parlatemi di redenzione, di salvezza.
Lasciatemi divertire.

[V. Rossi, Il vangelo di Vasco, op.cit.]

Gioia, divertimento, godimento, contro tristezza, grigiume, serietà: questa la formula, confermata ancora ai giorni nostri, che ha portato Vasco a diventare capo indiscusso del costume e della cultura italiana, e uno dei maggiori responsabili della situazione odierna. Vasco è musica in quanto divertimento, rimozione e velamento della coscienza tragica della propria finitezza e delle proprie sofferenze, subordinata alla vita che invece lui promuove, una vita che si sovrappone e si è sovrapposta a quella preesistente spacciandosi per unica realtà. Per questo Vasco “parla di me”, perché mi ha inventato, ha celato e obliato completamente la vita per promuoverne una fittizia, che mi conduce a vivere sempre come fossi in una fiction.
(…)
Questo divertimento è il Male dell’oggi, perché rimuove completamente l’ambito della precarietà dell’esistenza umana, la coscienza tragica della propria condizione, in cui la grande arte e la grande musica affondano le radici (e che non a caso appaiono alla maggioranza in- credibilmente noiosi, deprimenti e stancanti); questa è l’operazione tipica dell’industria culturale così come veniva definita da Theodor W. Adorno, per il quale un’arte “disartizzata”, ovvero una pseudo-arte che ha rinunciato alla sua funzione critica e rivelatrice, si riduce a prodotto di consumo o prodotto culinario creato per occultare la realtà del mondo e sostituirla con una dimensione di assoluta autonomia da essa nella quale perdermi e consegnare la mia coscienza [cfr. Th. W. Adorno, È serena l’arte?, in: Note per la letteratura (1961-1968), Einaudi, Torino 1979].

Uno splendido film del 2008 di Darren Aronofsky, dal titolo The Wrestler, è una delle opere più significative dedicate agli anni Ottanta, pur essendo ambientato nel presente. Nel film, i segni della logica culturale di quel decennio, tra parossismo e culto dell’immagine, sono ancora ben visibili sul corpo martoriato dell’ex culturista e lottatore di wrestling, Randy (Mickey Rourke), e cosa ancora più grave non solo sul suo corpo ma sulla sua vita. Mentre ascoltano il brano dei Ratt, Round and Round, lui e la sua fedele amica si scambiano il seguente dialogo, particolarmente esaustivo:

Cazzo! Non ne fanno più di canzoni così!
Mitici anni Ottanta… Imbattibili!
Eh… Ci puoi giurare… I Guns ‘n’ Roses sono i più forti!
I Crue!
Si…
Def Lep!
Poi Cobain… Quel finocchio! È arrivato a rovinare tutto, fine. Volevamo divertirci. Che c’è di male?

Questo dialogo, nell’economia generale del film, assume a mio avviso un significato essenziale, perché è evidente come quel “voler solo divertirsi” non fosse esente da onerosi e dolorosi prezzi da pagare.
Kurt Cobain, leader della band dei Nirvana, segnerà il passaggio agli anni Novanta e una nuova transizione rispetto all’orizzonte spensierato degli anni Ottanta, per tornare a una dimensione esistenziale più vicina alla consapevolezza del dolore; cosa che invece, nel decennio precedente, era stata occultata, messa da parte, accantonata dal culto del piacere e del divertimento.
Quel “volevamo divertirci” è la quintessenza del nostro presente, è il Male, e nel film è ciò che ha decretato il definitivo allontanamento del protagonista dalla figlia, i suoi terribili problemi di salute, la sua solitudine. La catastrofe odierna appare evidentemente come una conseguenza di comportamenti impulsivi e irrazionali adottati nei passati decenni, che all’epoca apparivano come esaltanti e che oggi invece assumono l’aspetto di una disgrazia. The Wrestler perciò, senza alcun flashback, è un film sulla catastrofe, sul presente fossilizzato nell’identità, condannato da un passato che non lascia altra via di uscita che il gesto estremo che il pubblico richiede.
Vasco Rossi è molto simile a Randy, ma in fondo lui è un trionfatore, non è un relitto di un tempo passato. La sua difficoltà di rinunciare alle scene in via definitiva (con annunci che, fatti attraverso i media, sono un’ulteriore conferma della propria presenza) dimostrano che l’Italia di oggi è ancora legata a Vasco.

[Tornando a Vasco]
(…) Un intreccio inestricabile tra vita e show, dunque, che, non a caso, si afferma nel decennio dell’ascesa inarrestabile della società dello spettacolo e dell’edonismo, presentandosi, per generazioni di giovani rapiti dal suo incantesimo – e oggi estremamente precari non soltanto da un punto di vista esistenziale, ma anche lavorativo – come l’alfiere dell’eterna (e confusa) rivolta anti-borghese. Ma, guardato dall’età della «dittatura dello spread», rimane, giustappunto, un pifferaio magico intento a riproporre gli stessi (stanchi, artefatti e piuttosto anacronistici) sogni di quegli anni Ottanta.

pp 115-116 e segg.
Avere responsabilità, sentirsi responsabili, è un problema di sofisticata complessità filosofica e morale: la responsabilità è indubbiamente legata alla consapevolezza della propria funzione e dell’effetto che le proprie azioni o gesti possono avere, o magari hanno già avuto. Questo è un punto cruciale su cui ritengo sia necessario soffermarmi, perché il rischio di travisare il mio pensiero è forte: il mio non è un tentativo di de-responsabilizzare tutti gli appartenenti al presente e le nuove generazioni, in quanto tento di attribuire la responsabilità della catastrofe e del Male odierno ad alcuni grandi rappresentanti “decennali” della cultura e dell’immaginario nazionale (e nel nostro particolare contesto, questo grande rappresentante è forse il più grande di tutti).

Metto in evidenza per quale ragione la mia riflessione non rischi di precipitare in un radicale assolvimento di chi, suo malgrado, si è trovato “gettato” nel mondo definito spiritualmente e simbolicamente dalla logica di Vasco; la caratteristica specifica di tale logica, infatti, è sì la de-responsabilizzazione, ma questa diventa la peggiore delle responsabilità su quanto assistiamo e viviamo oggi. Il culto del presente assoluto, tipicamente postmoderno, imperniato sull’ora del godimento, ci conduce a Il principio responsabilità di Hans Jonas, dove il filosofo sostiene come il rischio peggiore che sta correndo l’uomo è escludere la possibilità di un “dover-essere”, sfruttando il presente e avendo come unico principio regolatore il soddisfacimento delle proprie esigenze, più o meno nobili, col rischio sempre più forte di una catastrofe capace persino di annientare la specie umana (pensiamo alla crisi ecologica e al nucleare). La condizione della morale e della responsabilità è “poter rendere conto di ciò che accade”, o, meglio, che “ciò che accade possa legittimamente chiedere conto a me”. Ciò che accade attorno a noi rivendica una qualche risposta da chi ha assunto un ruolo di primo piano in questa stagione della storia.

“Che il Blasco allora fosse poco plausibile non c’è dubbio, si presentava come un dilettante disastrato. Solo che è simpaticamente squinternato anche adesso, al culmine del successo. Perché non crede in niente, e va bene, ma ci sono le masse che credono in lui, affollano gli stadi, lo adorano come se aspettassero da lui un vangelo. Mentre lui tace, al massimo bofonchia. E il messaggio, eh, il messaggio dov’è? Siamo solo noooooi! Noi chi? Boh! [U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 2005]

Dagli anni Sessanta ai Novanta compresi, si è diffuso tenacemente, in particolare tra le varie generazioni di giovani che si sono susseguite nel tempo, il sogno dell’emancipazione completa dall’asfissiante visione borghese legata a uno stile di vita statico e anestetizzante. Trattasi dell’eredità della rivoluzione culturale del Sessantotto, del miraggio per un mondo nuovo capace di scrollarsi di dosso gli ideali e i valori alla base del benessere capitalistico, correndo il rischio di apparire, specie agli occhi dei padri e delle madri, immorali, irrispettosi, inconcludenti, infantili. I giovani, prima di vedere i propri sogni rivoluzionari infranti dalla maturità e dall’ingresso nell’età adulta delle responsabilità, intendevano la casa, la famiglia, i doveri, i figli, i legami stabili, il lavoro fisso, come i nemici giurati, emblemi di quel sistema omologante.
Vasco si inserisce in questa era con delle specificità tutte proprie, rappresentando l’acmé di quella repulsione, urlandola piuttosto che teorizzarla o trasfigurarla artisticamente. Poi c’è l’oggi, dove la catastrofe è prossima al suo definitivo compimento, dove quell’immaginario rivoluzionario si è ribaltato e dove i giovani sognano di avere una famiglia con dei figli, sognano di avere una casa di proprietà e un contratto di lavoro a tempo indeterminato, una macchina e una vita serena con le persone che amano senza avere la necessità di fuggire all’estero (di contro al mito del viaggio alla Easy Rider). Loro hanno demolito i loro avversari, peccato che a pagarne le conseguenze sono i condannati alla precarietà del presente, che rimpiangono quella logica del benessere che ancora oggi, anacronisticamente, Vasco continua a combattere, senza accorgersi di assalire solo dei mulini a vento. Perché in fondo, ciò che conta al di là di tutto, è godersi lo spettacolo [H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2009].

 

Note

(1) – Alessandro Alfieri è dottore di ricerca in Scienze Sociali e Filosofiche presso l’Università di Roma “Tor Vergata”, e cultore della materia presso la cattedra di Estetica all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha collaborato e collabora con numerose testate (tra cui Cinecritica, Fucine.com, Guide.Supereva.it, Terra), occupandosi prevalentemente di cinema, arte e fenomeni sociali. Docente della Università Popolare di Roma (UPTER) e dell’Accademia delle Belle Arti di Roma e Palermo.  Tra le sue pubblicazioni, Dogville. Della mancata redenzione (2008) e Vita e tensione dell’immagine. Saggio su Warburg, il cinema e l’arte contemporanea (2011). Musica dei tempi bui. Nuove band italiane dinanzi alla catastrofe (2015). Lady Gaga. La seduzione del mostro. Arte, estetica e fashion nell’immaginario videomusicale pop (2018). Il cinismo dei media. Desiderio, destino e religione dalla pubblicità alle serie tv (2017). Rocksofia. Filosofia dell’hard rock nel passaggio di millennio (2019). Che cos’è la video-estetica (Carocci, Roma 2019). Video Web Armi. Dall’immaginario della violenza alla violenza del potere (2021).

(2) – Paolo Talanca è critico musicale e saggista. È nella giuria che assegna le targhe al Premio Tenco e direttore di redazione del Premio Lunezia. Collabora stabilmente con “L’ISOLA”, portale di musica italiana, in cui gestisce una rubrica dal titolo “Cantautori novissimi”. Ha all’attivo la pubblicazione di diversi volumi sulla canzone d’autore e sui generi della canzone, tra i quali Cantautori novissimi (2008) e Nudi di canzone (2010). Assieme a Alfieri, è fondatore e condirettore di Ipercritica dove scrive di letteratura, musica e cinema.

(3) – Dalla recensione al libro di Alfieri & Talanca, di Massimiliano Panarari per la Stampa dell’11 giugno 2012: No Vasco, io non ci casco. Un estetologo e un critico musicale distruggono il mito di Vasco Rossi.

 

[Fenomenologia di Vasco Rossi (1)Continua con una seconda puntata… (a presto, già domani)]

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