a cura della Redazione
.
Questo articolo, come altri che stiamo pubblicando, è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste per denunciare la violenza di genere e nominarla L’iniziativa parte da un appello di Giulia Caminito e Annalisa Camilli. Molte di loro hanno presentato i loro scritti in una serata al teatro Manzoni lo scorso 4 marzo.
Violenza di genere, mia madre invisibile agli occhi
di Laura Imai Messina – Da la Repubblica del 25 gennaio 2024
Non è solo quella di botte e lividi. È anche quella di chi ti nega di essere quello che vorresti
Quando le ero accanto, mia madre era sola. Anche se io le ero vicina, sull’autobus, a tavola, nella sala d’attesa d’una clinica, mia madre era sola. Lo era in tinello, in cucina, lo era quando camminavamo tornando da scuola e sapevo che l’essere a fianco a me o a mia sorella per lei non significava nulla. Era una donna in apnea, perché non si sentiva amata dall’unica persona da cui volesse essere amata. Spesso piangeva, più spesso commentava con voce piccola e ansiosa la violenza subìta, fatta non di corpo ma di assenza, incuria, frasi sgarbate, svilimento della sua persona, isolamento forzato dalla famiglia d’origine, allontanamento dalle amicizie, esclusione dal lavoro che aveva sperato di riprendere un giorno ma che, con la nascita delle figlie, le era stato interdetto per sempre.
Mi è sembrato per anni di tenere per mano mia madre, di dirle «Mamma, ci sono io, anche se lui non ti ama, ci sono qua io». Ricordo quando minacciava di andarsene e io, terrorizzata, accorrevo al lato sinistro di quel letto matrimoniale che mi pareva una zattera enorme, in balia d’una tempesta da cui non sarebbe uscito vivo nessuno, «Mamma, se te ne vai, portami con te. Davvero, non lasciarmi da sola».
Mia madre me la immagino della giusta altezza solo da ragazza: occhi verdi, bionda, un metro e sessantadue. Poi, sposandosi con il primo e l’unico uomo della sua vita, la vedo rimpicciolirsi. Di anno in anno, di minimizzazione in svilimento, mia madre si è ristretta, un decimetro, un centimetro, un millimetro alla volta, proprio alla stessa maniera in cui si cresce o si invecchia, con quella velocità irregolare che fa sì non accada nulla per mesi o per anni e poi, d’un tratto, ci si sveglia cresciuti, le maniche corte, le guance cascanti. A diciott’anni mi arrivava alla caviglia.
La storia di mia madre e della violenza di genere, per come da bambina l’ho intesa — prima di sperimentarne una tutta diversa, in prima persona, fatta di mani sconosciute tra le parti intime in autobus, di commenti al liceo sul sesso con un compagno (rivolti solo a me, a lui nulla), di pressioni da un capo perché concedessi altro oltre alle mie competenze, di allusioni sul fatto che l’essere diventata madre sottintendesse io potessi fare a meno di realizzarmi nel campo del lavoro — è una storia di violenza ereditata. Nel tempo ho capito che i lasciti non sono solo le case, gli abiti o le cianfrusaglie: si ereditano anche gesti involontari, frasi automatiche, pensieri violenti.
Secondo Emil Cioran, la vendetta è «un bisogno, il più intenso e profondo che esista, qualcosa che ognuno deve soddisfare, non fosse che a parole». Se differita, si fa malattia. Perché parlo di vendetta? Perché la storia della violenza di genere non è solo il racconto di un uomo contro una donna, è anche di una donna contro un’altra donna, in una battaglia tra vittime, costrette a combattere le une contro le altre come cani addestrati alla guerra. Così fu mia nonna paterna contro mia madre, la suocera contro la nuora. Ricordo mia madre accucciata all’angolo dell’ingresso di una casa oggi sparita, mentre porgeva a me e a mia sorella la cornetta del telefono a disco, «Ascoltate — diceva — ascoltate cosa mi dice vostra nonna». Non volevamo ascoltare ma ci era richiesta una fedeltà assoluta, di stare dalla parte giusta. Il suo unico risarcimento era l’odio condiviso verso quell’altra donna, il disprezzo per mio padre. Adesso so di non essere riuscita ad amarlo con pienezza perché volere bene a lui significava tradirla.
Eppure, serve scavare, un poco soltanto, per scoprire come anche mia nonna avesse subìto a sua volta una violenza, vittima dell’essere semplicemente nata donna. La nonna era andata in sposa appena diciottenne perché resa zoppa dalla poliomielite, ceduta in tutta fretta come prodotto scadente a un uomo molto più grande. Il marito era mite ma l’odio originato da una violenza subìta finisce ovunque. Si tirano pietre contro i fantasmi e, fatalmente, si finisce per colpire i presenti, anche quelli che erano lì per caso, i vivi.
La violenza di genere è infida e tanto più è invisibile, senza lividi in faccia o ossa spezzate, figlia non di una singola persona ma di un assetto sociale, quanto più è insidiosa. C’è, eppure è possibile anche negarla, si può dire che non è vera, che te la sei inventata: e tutto questo solo perché l’occhio non è abituato a vederla. Ho scoperto l’artista peruviana Cecilia Paredes anni fa, la stupefacente serie fotografica Paisajes in cui, tramite la giustapposizione del corpo, decorato al millimetro con le stesse fantasie dello sfondo selezionato, crea un effetto di mimesi: la silhouette della donna sparisce e riemerge, a seconda dell’angolazione dello sguardo.
Sono arazzi di estrema bellezza eppure, nella mia mente, non riesco a disgiungervi l’immagine di tutte le donne della mia vita che, al di là del colore della pelle e degli abiti che avrebbero amato indossare, hanno speso buona parte della loro esistenza a cercare d’essere donne nell’unico modo che era loro possibile, lavorando per divenire parte dello sfondo su cui era toccato loro nascere, chi rimanendo in un matrimonio triste, chi vendicandosi su altre donne. Rendere visibile quella donna che pure si mimetizza, chiara la violenza subìta, mi pare oggi la meta.
[Donne contro la violenza di genere (4). Laura Imai Messina – Continua]
Immagine di copertina. Una foto della serie Paisajes di Cecilia Paredes, allegata all’articolo di Repubblica (cliccare sulle immagini per ingrandirle)
Per la serie “Le donne contro la violenza di genere” abbiamo pubblicato:
La presentazione della serata al Teatro Manzoni
Benedetta Tobagi
Tea Ranno
Donatella Di Pietrantonio