Scrittori

La voce delle donne contro la violenza, al Teatro Manzoni (3). Donatella Di Pietrantonio

proposto dalla Redazione

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Ancora sul progetto “Unite”  e dalla manifestazione al teatro Manzoni di Roma, di cui già abbiamo riportato i contributi di Benedetta Tobagi e Tea Ranno, lo scritto di Donatella Di Pietrantonio [l’autrice di L’arminuta, che (quasi) tutti avranno letto], presentato all’incontro di lunedì scorso, 4 marzo.

L’articolo – in questa occasione ripreso da la Repubblica -, insieme ad altri che pubblicheremo nei prossimi giorni, è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste per denunciare la violenza di genere e nominarla. L’iniziativa parte da un appello di Giulia Caminito e Annalisa Camilli

Violenza sulle donne, quelle parole che feriscono più di un pugno
di Donatella Di Pietrantonio – Da la Repubblica del 10 gennaio 2024

Certe frasi ci accompagnano da quando siamo nate, evitano di lasciare tracce visibili ma non fanno meno male. Basta assistere a certi interrogatori nei processi per stupro

Certe violenze, e certe altre. Una varietà infinita. Quelle fisiche, muscolari, di pugni che diventano lividi, occhi pesti, labbra spaccate. Concitazione di botte che ti arrivano addosso. Quelle a mano armata, premeditate, che mirano a uccidere. E nello stupro, il corpo ridotto a una cavità in cui svuotare lo scroto.

Poi c’è la violenza delle parole. Ci accompagna da quando siamo nate, evita di lasciare tracce visibili, non fa meno male. E dietro, ancora, c’è un pensiero pervasivo, ereditato da padri e patriarchi, che si salda però con gli strumenti mediatici della contemporaneità e sempre, sempre finisce sul corpo.

Il corpo delle donne è un parafulmine su cui si scaricano tensioni dirette e oblique. È corpo sovraesposto, bruciato dalle scosse, ferito. Il corpo delle donne non è solo una proprietà pretesa dai maschi più retrivi, è proprietà pubblica. La violenza che subisce non è mai individuale, è di sistema. È sommerso di richieste: essere un modello di bellezza, di perfezione che mai può sfiorire, di salute e splendore. Quando si finge di accettarne il diverso, il difforme, l’eccentrico che sfora i canoni socialmente approvati, lo si fa restando nel solco rassicurante dello straordinario, dell’eccezione. Le donne anziane non corrette chirurgicamente compaiono di rado in pubblicità, ancor meno le obese, le basse, le storte. Le cicatrici? Solo se sei una campionessa.

Il corpo delle donne deve comunque confrontarsi con l’imperativo biologico di assicurare la sopravvivenza della specie: si può danneggiare il pianeta con azioni il cui potenziale distruttivo è arcinoto da decenni, ma le donne sono sempre chiamate alla riproduzione. Se si sottraggono devono giustificarsi, dichiarare una sterilità o motivare la propria scelta contraria. In entrambi i casi un sospetto, una disapprovazione più o meno esplicita cade sulle renitenti: è davvero possibile fidarsi di una donna che non può o non vuole generare figli? E se invece vuole ma non può, subirà l’intrusione di leggi occhiute che andranno a definire un perimetro ben preciso entro cui muoversi nel tentativo di procurarsi una gravidanza. Oltrepassarlo ricorrendo per esempio a pratiche consentite in Paesi esteri è una violazione punibile, e la punizione ricade non solo sulle coppie di aspiranti genitori ma anche sui figli eventuali, il cui riconoscimento da parte dello Stato italiano è a dir poco ostacolato, soprattutto oggi.

Ciò non significa che auspichiamo una totale deregolamentazione delle pratiche di fecondazione assistita, tutt’altro, significa soltanto ribadire che la proprietà del corpo di donna è anche pretesa dello Stato, ciò che non avviene per il corpo del maschio. L’apparato genitale maschile è lasciato in pace, quello femminile sempre dibattuto, toccato, giudicato. Nel dibattito pubblico, negli ospedali, nei tribunali. Eri bagnata mentre ti violentavano? Se sì, la tua vagina aveva dato il consenso che ti affanni a negare. Processo per stupro, il documentario di Loredana Rotondo del 1979, è ridiventato drammaticamente attuale poche settimane fa, in un’aula del tribunale di Tempio Pausania.

Profilattico a parte, la contraccezione è a totale carico della donna, che può prendere la pillola per molti anni, inserire la spirale, legare le tube se opportuno. Non si parla mai di vasectomia, una pratica che l’uomo fatica ad accettare confondendola magari con una riduzione della potenza, della virilità. Evoca forse il fantasma dell’evirazione. Comunque una manipolazione chirurgica sull’organo copulatore non è ben accetta, mentre la donna è più “abituata”. Ma se richiede un’interruzione di gravidanza, allora tutto cambia. Allora sì che le cose diventano difficili.

Esiste una legge a tutela, certo, la 194, punto di arrivo nel lontano 1978 di lunghe e faticose battaglie. Da allora il numero di aborti è drasticamente diminuito, eppure questa legge è ormai scritta solo sulla carta. Viene svuotata dall’interno, mentre si ripete che non verrà messa in discussione. Depotenziati i consultori, dove mancano medici non obiettori che possano rilasciare il famoso certificato alle donne che richiedano di abortire. Ce ne vuole per ottenerlo e se infine ci riesci pagando magari un libero professionista, poi aspetti obbligatoriamente sette giorni, il tempo dell’eventuale ripensamento. In questi sette giorni sei del tutto ferma, non puoi nemmeno prendere l’appuntamento. Intanto la tua gravidanza va avanti e prima di abortire verrai forse messa davanti a un ecografo e ti verrà mostrato “un cuoricino che batte”. E tu davvero vorrai fermarlo quel cuoricino, davvero vorrai uccidere tuo figlio? Quanta violenza. Non la tua, no. Quella su di te, sul tuo corpo, sul tuo dolore.

Nella mia regione, l’Abruzzo, una donna di San Salvo per esempio deve arrivare all’ospedale di Penne per interrompere una gravidanza. Sono 113,27 chilometri. Tutti gli ospedali che ci sono in mezzo – Vasto, Lanciano, Chieti – non erogano questo servizio.

E l’aborto farmacologico? Sarebbe infinitamente meno invasivo per la donna, sarebbe più “leggero”. Non si fa mai in tempo per quello, figuriamoci se si può ottenerlo entro gli 11/12 giorni di gestazione prescritti. Come mai non si riesce a organizzarlo sulla maggior parte del nostro territorio? Forse è proprio lì, il problema, nella “leggerezza”. Troppo comodo con la RU 486. Una pillola e via. Quel “cuoricino che batte” non avrebbe nemmeno il tempo di formarsi, e tu, donna, non soffriresti abbastanza, non saresti abbastanza punita per la tua colpa. Abortirai con dolore, almeno. Ricovero, forse sguardi di riprovazione intorno a te, forse ti metteranno in una stanza con le mamme che allattano, sentirai gli stessi vagiti che avrebbe potuto gettare tuo figlio.

Ma qual è la tua colpa, poi? Oggi direi soprattutto la povertà. Chi abortisce raramente è benestante. Spesso sono donne immigrate, che parlano poco l’italiano. Su di loro la violenza di sistema è più facile e perciò più vigliacca. Sono fragili.

Ed è tra loro che dobbiamo arrivare con la sorellanza, proprio lì, dove nessuna leggerà questa pagina. Dove un corpo di donna vale davvero troppo poco.

[LA SERIE: Il corpo delle donne/3 – Continua]

***

L’intervista di Concetto Vecchio alla scrittrice Donatella Di Pietrantonio è ripreso da la Repubblica del  07.03.2024

“Malasanità e migrazioni hanno ferito la mia terra Questo voto sarà decisivo”
Di Concetto Vecchio – inviato di Repubblica

Le attese per un esame sono di oltre 12 mesi. Ci si rivolge ai privati. E chi non può permetterselo rinuncia a curarsi
In cinque anni non ho visto problemi risolti
Io sceglierò D’Amico È competente radicato sul territorio ed è uno di noi

Pescara – Donatella Di Pietrantonio, 62 anni, la scrittrice abruzzese più celebrata, tradotta in trenta Paesi, ora in libreria con L’età fragile.

Lei vive nell’interno?
«Sì, a Penne, undicimila abitanti, a trenta chilometri da Pescara. Per andare al cinema, a teatro o a una visita specialistica bisogna prendere la macchina».

E come voterà l’Abruzzo interno?
«Non so. Ma avverto, tra la gente, come un fastidio per questa processione di leader nazionali, perché si sa che dopo il voto nessuno li vedrà più».

Vi sentite abbandonati?
«Rifanno le strade solo perché vi deve passare il Giro d’Italia. Sono cose che acuiscono il malcontento».

A Penne c’è l’ospedale?
«Sì, nessuno ha il coraggio di chiuderlo. Ma è stato progressivamente svuotato. C’è una mancanza di personale che lo rende di fatto inefficiente. Un disagio comune a molti altri centri».

Ha avuto problemi con la sanità?
«Come tutti. Spesso le attese per un esame sono superiori ai dodici mesi, e così si è costretti a rivolgersi ai privati. E chi non se lo può permettere rinuncia a curarsi».

Qual è la conseguenza?
«Semplicemente la compromissione del diritto alla salute ha un riflesso diretto sullo spopolamento».

La gente se ne va?
«Avere un infarto a Farindola aumenta di tantissimo le possibilità di morte, perché lì vicino non c’è un ospedale da raggiungere in tempo utile. Ci sono tante Farindola in Abruzzo».

Cosa ne consegue?
«La fuga dall’interno si riflette sul benessere delle città, perché se i contadini abbandonano le campagne poi non ci si deve stupire che i cinghiali e i lupi scorrazzino a ridosso del centro di Pescara».

Che cos’altro è cambiato?
«Hanno accorpato le caserme dei carabinieri, ci sono caserme che servono più paesi. Risultato: i furti sono aumentati».

E le scuole?
«O chiudono, o funzionano con le pluriclassi, come per me dabambina negli anni Sessanta. Io ero l’unica di quarta e il maestro mi dedicava al massimo mezz’ora al giorno. Ma abitavo nelle campagne di Arsita. Ora le pluriclassi sono nei paesi. Nessuno vuole che i figli le frequentino, così le giovani coppie si trasferiscono in città».

I giovani quindi scappano?
«Non solo loro, anche i vecchi. Traslocano dai figli, perché lì ci sono i servizi, c’è l’ospedale aportata di mano».

Che fare per invertire la rotta?
«La politica dovrebbe riflettere sull’opportunità di investire sulle aree interne anche se possono sembrare interventi in perdita. Ma la perdita è solo apparente: a ben vedere poi converrebbe a tutti».

A Roma come si va?
«In autobus, da Pescara, col treno ci vogliono più di cinque ore».

Perché l’interno dell’Abruzzo si è consegnato a Fratelli d’Italia?
«Forse perché ha creduto alle promesse? E perché il centrosinistra non sempre ha brillato».

Come voterà?
«Io andrò a votare per D’Amico. Ma non le nascondo che vengo anch’io da anni di delusioni. Ultimamente, alle amministrative, ho fatto fatica a scegliere».

Stavolta sente che è diverso?
«Sono elezioni decisive. Spero in un soprassalto di senso civico, mi auguro una partecipazione la più ampia possibile».

Pensa che D’Amico possa farcela?
«Ho buone sensazioni».

Le sembra diverso?
«Non lo conosco personalmente, ma l’ho seguito con crescente fiducia: è competente, ed è radicato sul territorio. Ci conosce».

Marsilio invece è accusato di non essere uno di voi.
«L’Aquila ha sempre sofferto degli sversamenti da Roma. Il Teatro Stabile, l’università sono state poltrone appetite dal mondo politico romano».

Non è quindi un fatto nuovo?
«Ma no, è sempre stato così. Quando frequentavo l’università all’Aquila noi studenti fummo chiamati a testimoniare in tribunale perché uno dei nostri docenti, romano, non si era mai visto a lezione: mandava l’assistente».

Che giudizio dà di questi cinque anni di destra?
«Non ho visto problemi risolti. E registro un attacco a quella che è la vocazione verde dell’Abruzzo, anche per accontentare la potente lobby dei cacciatori. L’ultimo sfregio è la drastica riduzione della Riserva del Borsacchio».

Perché ha deciso direstare a Penne?
«Vede, il patriarcato che ho tanto combattuto ha lasciato su di me tracce importanti».

Cosa intende dire?«Vengo da una generazione per cui le figlie femmine venivano messe al mondo per essere poi i bastoni della vecchiaia dei genitori. Nella mia stanza segreta è rimasto questo richiamo all’ubbidienza».

Ha ubbidito ai suoi?
«Sono rimasta accanto a loro. Ma ha inciso anche l’amore per il territorio. Le relazioni umane restano profonde. La mia vicina, quando fa la polenta, prevede sempre una porzione per me».

[Da la Repubblica del 7 marzo 2023]

L’autrice. Donatella Di Pietrantonio, 62 anni: le sue opere sono tradotte in trenta Paesi
FOTO/Concetto Vecchio

 

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