proposto da Sandro Russo
Cultura
La vera storia delle poesie d’amore
di Michele Mari – Da la Repubblica del 9 febbraio 2024
Beatrice, Laura, Silvia: donne che non esistono hanno ispirato indimenticabili versi. E ai tormenti di Eros è dedicato anche il nuovo Robinson e un’antologia di 100 liriche sui sentimenti che tra gli autori ha anche chi scrive questo articolo in edicola con Repubblica.
Dante e Beatrice a Firenze di Henry Holiday (1882-4)
Teresa Fattorini muore di tisi a ventun anni il 30 settembre 1818: Giacomo Leopardi ha vent’anni, e aspetterà un decennio per dedicarle una delle sue poesie più celebri, A Silvia. Considerata d’ufficio come una poesia d’amore, la lirica in realtà non contiene un solo verso che possa propriamente dirsi amoroso, essendo la dedicataria soltanto una metafora o una facies della perduta giovinezza del poeta, una giovinezza per definizione non vissuta. Teresa non solo è morta ma lo è da dieci anni: è quindi doppiamente lontana ed assente, e in questo senso è una perfetta donna poetica.
Nel 1823, cinque anni prima di A Silvia, Leopardi scrive Alla sua donna, una poesia che ci interessa, più che per il testo, per un paratesto dello stesso autore: «La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una qualche alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova». La poesia d’amore, dunque, non esiste, o meglio non può esistere se non in una dimensione fantasmatica, nel programmatico divorzio dalla vita e dalla biografia. Come denunciò la più severa critica romantica, Beatrice non è una persona: è un’allegoria, è la scienza, la teologia, la salvezza spirituale; finalmente, è la poesia stessa.
Quando Dante le dedica la Vita nuova Beatrice è morta da pochi anni, e se nella prima parte del prosimetro confluiscono liriche composte in vita, è anche vero che il poeta ricicla per lei testi originariamente ispirati da altre donne: in ogni caso, a prescindere dal valore dei singoli componimenti, è palese che fin dall’inizio la Vita nuova tenda alla sua seconda parte, quella in morte, quando il poeta può misurare in tutta la sua estensione la terribile potenza del dio Amore.
La situazione si ripete con Petrarca: Laura muore nel 1348, quando il Canzoniere esiste solo in embrione e in potenza; da quel lutto, precedentemente surrogato dalla lontananza e dall’impossibilità (Laura era sposata a un antenato del marchese de Sade), prende avvio, attraverso un incessante lavorio, il Canzoniere che conosciamo, bipartito in rime in vita e in morte secondo un disegno di progressiva spiritualizzazione: non è un caso che dopo le ultime poesie per Laura, o meglio per il ricordo di Laura, la raccolta si chiuda con una canzone alla Vergine.
Beatrice, Laura, Silvia: donne che non ci sono, invenzioni mentali, figure retoriche potenziate dall’inesistenza, come la Dulcinea del Toboso vagheggiata da Don Chisciotte (e difatti Cervantes fa propri molti versi amorosi della tradizione italiana, dallo stesso Petrarca a Serafino Aquilano a Sannazaro).
«Quale delle due cose stimi che sia più dolce: vedere la donna amata, o pensarne?» «Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea»: questo scambio di battute si legge in una delle più belle Operette morali di Leopardi, il Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, e potrebbe essere messo in esergo al novanta per cento della poesia d’amore di ogni tempo e Paese (dico il novanta tenendo conto di quanto di amoroso sia implicito nella poesia erotica e, pensando a Catullo, in quella invettiva).
Certo anche gli affetti coniugali hanno un loro diritto poetico, ma difficilmente e solo con riluttanza ammetteremo nell’universo in questione una lirica come A mia moglie di Umberto Saba, che ritrova la sua Lina «in tutte / le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio»: riluttanza che discende dalla tradizione platonica di cui l’Occidente è figlio, e poco importa che l’amore poetico sia una forma di misticismo o di cortesia o di galanteria, importa invece che i valori in gioco siano assoluti e possibilmente scevri da ogni corporeità: Luigia Pallavicini e Antonietta Fagnani Arese entrano in letteratura come Diana e Venere, e non potrebbe essere diversamente.
Rispetto alla donna-angelo o alla donna-dea il romanticismo sembra portare grosse novità, ma è solo un’illusione: le Berenice e le Ligeia di Poe, le donne-vampiro di Baudelaire, i cadaveri della Scapigliatura sono sempre donne ideali, discontinue non solo alla quotidianità ma anche allo stesso eros degli autori. Così non ci dobbiamo stupire se alcune delle più belle poesie d’amore del Novecento siano state scritte da chi, come Guido Gozzano, nella sua breve vita si attenne al paradigma leopardiano della più desolante inesperienza d’amore: «Non amo che le rose / che non colsi», scrisse; «non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state».
Ma soprattutto, se già l’innamoramento è in se stesso un processo di «cristallizzazione» (Stendhal, De l’amour), la poesia che ne consegue sarà un’astrazione al quadrato, come quella che stilizza una sostanza mentale già sublimata. Del resto, quale modo migliore di godere di questo rischioso innamoramento che scriverne, possibilmente in versi? Perché se ha ragione Roland Barthes nell’affermare che ci si innamora non di qualcuno ma dell’amore stesso (Frammenti di un discorso amoroso), il senso ultimo della poesia d’amore sarà l’amore per la poesia.
Note (a cura della Redazione)
L’articolo di Michele Mari è stato ripreso da la Repubblica del 9 febbraio. Costituiva la presentazione del Robinson in uscita la domenica successiva, l’11 febbraio, cui era allegato un piccolo libro con 100 poesie d’amore
Da non confondere con un libro di poesie dello stesso Michele Mari (Torino, 1955), che si intitola Cento poesie d’amore a Ladyhawke, Collezione di poesia, Einaudi, 2007.
Perché Lady Hawke? Un film del 1985 diretto da Richard Donner, con i due mitici ‘belli’, Michelle Pfeiffer e Rutger Hauer è stata il mito di una generazione: leggi qui.