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Da amici comuni ho avuto una recensione del libro di Tea Ranno che però in versione ritaglio immagine mi era arrivata incompleta.
Ho chiesto a Tea se poteva procurarmi l’originale; me l’ha mandato e posso così completarla.
Era uscita su la Repubblica edizioni locali (Palermo) a firma Salvatore Ferlita. La riporto in chiaro e in formato .pdf (2 pagine, in fondo).
Scrivevo ieri in presentazione – leggi qui – che è molto difficile per un artista proporre/rappresentare la propria malattia/dolore. Ho trovato la recensione molto buona per l’analogia (mai confronto) che fa con altri dolori d’artista… Cita Hilary Mantel, Virginia Woolf e (genialmente) Frida Kahlo nell’immagine riportata a corredo dell’articolo.
Su Frida Kahlo, che i lettori del sito conoscono, soprattutto per merito di Silveria Aroma – leggi qui – riporto qualche notizia a commento della sua opera, L’Ospedale Henry Ford, conosciuta anche come Letto volante (1932) – mostrata nell’articolo di Repubblica -Palermo.
Biografia di un dolore e stavolta l’autrice racconta sé stessa
di Salvatore Ferlita
Raccontare una malattia per Tea Ranno «significa tornare lì, al punto esatto del dolore, al punto esatto dei denti che ti lacerano, in quel dolore che diventa eterno perché, per raccontarlo, deve eternarsi in ogni attimo su cui ti soffermi, in ogni parola che scegli, perché le parole sono spesso sbagliate, non rendono, non sono abbastanza evocative, e tu stai lì, nel dolore, per raccontare il dolore, per dirlo con una parola che non è mai quella giusta, si avvicina, ma non è quella giusta».
Ed è proprio quello che ha fatto la scrittrice di Melilli nel memoir intitolato “Avevo un fuoco dentro. Storia di un dolore che non si può dire” (Mondadori, 276 pagine, 19 euro). Un racconto della propria patologia, ossia l’endometriosi, che cronicamente colpisce molte donne e che, prima di adesso, era già stata narrata dalla scrittrice britannica Hilary Mantel nel suo “I fantasmi di una vita” (Fazi). Ma lì rappresentava uno dei capitoli della biografia della Mantel, mentre nelle pagine della Ranno l’endometriosi torreggia imperiosa anche quando non se ne parla direttamente, ora quale protagonista indiscussa, che incrudelisce su chi dice io, ora quale sfiancante antagonista, contro la quale l’autrice ostinatamente disputa.
I fantasmi di una vita (Giving Up the Ghost, 2003), Einaudi, 2006; Fazi, 2021
Dunque, questa volta le eroine di carta che la Ranno di volta in volta nei suoi romanzi ha rivestito di carne, nervi, sogni, vertigini e tormenti, fanno spazio all’autrice stessa, somma di un io fenomenico che soffre, spasima, subisce, si tormenta, e di un io estetico impegnato in una specie di corpo a corpo col dolore per stanare la pronuncia giusta.
Sarà un’amica a spronarla in questo senso, quasi a scuoterla: «Io e le altre, quando ne parliamo, usiamo termini talmente abusati che lasciano indifferenti. Tu parli del cane dai denti aguzzi, del magma nelle viscere, delle bocche di fuoco, e sei credibile… Aspetta, non mi interrompere! Quello che voglio dire è che tu hai lo strumento, capisci? Lo strumento per comunicare adeguatamente, anzi, lo strumento per far sentire come questa malattia ti tormenta la vita e la fa indegna. Devi solo scegliere se essere egoista o generosa».
Alla fine la Ranno decide di essere generosa (nei confronti di se stessa e poi delle altre): generosa e, soprattutto, sincera. L’aveva notato da par suo la grande Virginia Woolf: «C’è negli infermi una puerile sincerità; dicono certe cose, lasciano scappare certe verità che la cauta rispettabilità dei tempi normali non permetterebbe mai di svelare». Ne viene fuori un affondo autobiografico che sovente fa a meno della «cauta rispettabilità» appunto, anche perché chi è messo alle strette dalla malattia sa che non si è mai compresi fino in fondo, a cominciare dalle prime tappe dell’esistenza (la storia di questo dolore prende l’abbrivio da lontano, da quando l’autrice era una ragazzina che sapeva poco delle cose del corpo: «Tanto brava mia madre a nutrire la mia mente, tanto riservata nel parlare di ciò che riguardava la sfera intima».
«I capricci, le disubbidienze, le repliche rabbiose o disperate» si possono inghiottire, ma fino a un certo punto. Perché uno può farsi andar bene tutto, poi però qualcosa si incrina definitivamente: da quel punto di non ritorno prende l’abbrivio il racconto della Ranno, che inanella ricoveri, interventi chirurgici, sofferenze soprattutto: «E se ha dolori a ogni ciclo, che c’è di strano? E se ha qualche sanguinamento fuori dal ciclo, che c’è di strano? Sono cose normali»: affermazioni che le donne da troppo tempo si sentono rivolgere. Accompagnate da frasi altrettanto imbarazzanti: «Hai la soglia del dolore troppo bassa», «È un problema psicologico!)».
In forza di ciò il memoir diventa, inevitabilmente, racconto appassionato del lacerante e spesso ignorato dolore femminile. Viene da sospettare, alla fine, che se non fosse stata affetta dall’endometriosi, la Ranno non sarebbe diventata l’autrice che è, capace di catalizzare storie da travasare nelle pagine.
L’articolo originale in formato .pdf (2 pagine): La Repubblica Palermo 25.02.24.pdf
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Note su Frida Kahlo (dal web, sintetizzate e raccolte da Sandro Russo)
L’esistenza di Frida Kahlo (Città del Messico, 1907-1954) è stata segnata dalla sofferenza fisica, iniziata con la spina bifida, malformazione congenita peggiorata dall’evento dominante della sua vita: un incidente in tram che le provocò gravi lesioni al corpo a causa di un palo che la trafisse dallo stomaco al bacino. La medicina del suo tempo torturò il suo corpo con interventi chirurgici (32 in tutta la sua vita), diversi corsetti e vari sistemi meccanici di “stiramento”. Avere un handicap fisico dopo l’incidente non impedì a Frida di dipingere, ma al contrario, i dolori della sua vita furono la fonte principale della sua ispirazione. Molte delle sue opere furono dipinte a letto. Attingendo alle esperienze personali, ai suoi aborti e alle sue numerose operazioni, le opere di Kahlo sono spesso autoritratti in cui descrive la sua sofferenza interiore, sia fisica che emotiva. L’arte di Frida è stata rivoluzionaria perché ha osato esprimere esplicitamente e pubblicamente le sue emozioni e gli eventi della sua vita (fonte: https://www.farmaciaclinica.it/archivio/3288/articoli/32607/).
L’Ospedale Henry Ford (Letto volante). Di Frida-Kahlo (1932)
I danni subiti dalla Kahlo nell’incidente furono tremendi: tre fratture alla spina dorsale, la rottura dell’osso pelvico e della gamba destra, ma i danni principali si concentrarono nella zona uterina ed addominale, che fu perforata dal palo.
Da quella giornata la vita di Frida Kahlo cambiò per sempre. Oltre al lungo e complesso periodo di riabilitazione, la donna dovette convivere per sempre con acuti dolori cronici e difficoltà deambulatorie.
Tra le ripercussioni più gravi che dovette affrontare la Kahlo ci fu sicuramente l’impossibilità di partorire. Sul finire degli anni ’20, la giovane pittrice iniziò a frequentare il celebre artista Diego Rivera: i due divennero una delle coppie più celebri della storia dell’arte. Durante la lunga e tormentata relazione, la Kahlo rimase incinta più volte, la seconda delle quali durante un soggiorno a Detroit, dove era stato commissionato a Rivera un murale per il Detroit Institute of Arts.
Detroit Industry, North Wall, 1932-33, fresco by Diego Rivera. Detroit Institute of Arts (Da Wikipedia)
Una volta entrati a conoscenza della storia personale di Frida Kahlo, il suo quadro L’Ospedale Henry Ford risulta più chiaro: il titolo deriva infatti dall’istituto in cui la pittrice fu ricoverata e la composizione narra, in chiave simbolica e personale le sofferenze dell’autrice.
La parte più enigmatica dell’opera è senza dubbio rappresentata dalle sei figure che circondano la Kahlo, sdraiata sul lettino di ospedale, evidentemente dopo aver subito la grave perdita di sangue a seguito dell’aborto spontaneo.
La metà esatta delle immagini sono disegnate sopra il lettino, mentre la seconda sotto di esso: nella prima parte si può notare, al centro, il feto tenuto in grembo dalla Kahlo prima di essere abortito. A sinistra del figlioletto mai nato della Kahlo e di Diego Rivera è collocato un disegno raffigurante la spina dorsale fratturata dell’autrice, emblema delle sue sofferenze, mentre a destra è posta una lumaca. Quest’ultima figura è senza dubbio la parte del quadro che si presta a più interpretazioni possibili: essa può infatti rappresentare la lentezza dell’operazione, il lento e lancinante dolore provato dalla Kahlo, tuttavia, il guscio della lumaca potrebbe essere anche un rimando al parto ed al concepimento in sé.
Al di sotto del lettino si trovano, invece, altri rimandi allegorici all’intenso dramma della gravidanza bruscamente interrotta. In basso a destra vengono raffigurate le ossa del bacino dell’autrice, anch’esse, come la spina dorsale, ricordo dell’incidente subito e causa principale dell’aborto; al centro è posta, invece, un’orchidea, rimando floreale all’utero della pittrice. La figura in basso a sinistra è la più particolare del sestetto: Frida Kahlo sceglie di dipingere, infatti, un oggetto metallico, precisamente una parte di un’attrezzatura medica molto presente negli ospedali dell’epoca. Non si conoscono precisamente le intenzioni dell’autrice in questo caso; probabilmente la Kahlo ha voluto tessere un paragone tra la macchinosità dell’attrezzatura ed il malfunzionamento del suo corpo (fonte: https://www.elledecor.com/it/arte/a42004415/ospedale-henry-ford-frida-kahlo/)
La Redazione
2 Marzo 2024 at 11:41
Da http://www.ilcielodiparma.it una bella recensione al libro di Tea Ranno
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Endometriosi: nel libro di Tea Ranno il racconto di un cane che morde dentro. E della vita che non si arrende
di Gabriele Balestrazzi
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Ho richiuso il libro, ammutolito. E ammirato. E grato.
Storia di un dolore che non si può dire: è il sottotitolo di un racconto che dovrebbe circolare il più possibile fra le ragazze, le famiglie, i medici… Un libro che parlerà a tante donne ma che può insegnare a tanti uomini, perché “Avevo un fuoco dentro”, di Tea Ranno (ed. Mondadori), parla di endometriosi, e di molto altro che ci riguarda: tutte e tutti.
Conosco, leggo, ammiro da anni Tea Ranno. Soltanto poche settimane fa ero a parlare con lei a Parma, dove aveva incantato come sempre le ragazze e i ragazzi del Liceo Sanvitale con l’incredibile storia di Emanuele, bambino ebreo che sfuggì al rastrellamento nazifascista rifugiandosi per alcuni giorni in “Un tram per la vita”, che grazie a Tea è diventato libro di tragedia e di solidarietà: il peggio e il meglio degli uomini.
Prima ancora Tea ha saputo raccogliere e ricreare storie della sua Sicilia trasformandole in romanzi avvincenti e fecondi di riflessioni sulla violenza uomo-donna. Poi da quei racconti ha saputo fare favola, inventandosi Agata, tabaccaia di coraggio e di Amurusanza, e plasmando con la musica delle sue parole un altro doppio apologo di femmine forti e di uomini al loro fianco contro la prepotenza di altri. E a Parma mi aveva detto del lavoro che stava nascendo sulla sua esperienza e su questa malattia subdola e spesso poco capìta o sottovalutata da chi circonda chi ne soffre, a volte compresi i medici.
Sapevo. Ma non immaginavo che tutto quello che avevo fin qui letto di Tea potesse avere convissuto con quel “cane che morde dentro”, che la sua gioia di scrivere (e per noi di leggerla) avesse alle spalle una storia così lunga di sofferenze, dubbi, incomprensioni… Fin quasi a sfiorare la morte, letteralmente.
Leggetele, leggetele al più presto quelle 269 pagine, perché contengono una importantissima testimonianza di vita, di caparbietà, e comunque anche di gioia, perché una delle cose più belle del libro (e questa però non mi ha stupito, per come conosco Tea Ranno) è che neppure nei momenti bui è mai mancata all’autrice – stavolta anche protagonista, suo malgrado – la forza o la voglia di guardare avanti, di progettare, perfino di sorridere e sognare. E se tante volte le sue storie mi hanno fatto amaramente riflettere sull’ottusità e sugli egoismi di noi uomini, questa volta si può dire che sullo sfondo – ma sempre presente – c’è anche un uomo di grande spessore, che per i casi della vita ha lo stesso nome di battesimo del bambino del tram: Emanuele, che per coincidenza è appunto lo stesso nome del marito di Tea.
E’ curioso: mentre scrivo questa recensione, ad ogni riga mi pare di vedersi allontanare le pagine della sofferenza e vedo emergere la forza della vita di Tea, di Emanuele, delle loro figlie nate dopo mille dubbi sulla possibilità di avere figli (e chi leggerà vedrà, magari traendone forza per la propria storia, quanta caparbietà e fiducia è occorsa anche per questo lieto fine, doppio perché gemellare). Ma non voglio dimenticare di riferirvi anche di quelle tante pagine buie, che Tea è ancora una volta bravissima a mettere insieme in un racconto a flash back che consente ancor meglio di capire gli intrecci che può avere una vita. E leggendo mi sono chiesto più volte quanto le debba essere costato questo scrivere, a lei che ama tanto scrivere ma che stavolta lo ha fatto sulla sua stessa carne.
Ma Tea ha fatto ancora di più. Ha inserito fra le pieghe di questo racconto anche altre storie nella storia: ha descritto tante insensibilità o cattiverie, e ha condiviso con noi lettori quanto impegni e quanti sacrifici le è costata la passione di scrivere, prima di essere trasformata in meravigliosa realtà, per sé e per noi che ci gustiamo la sua prosa.
Da uomo, non sono neppure sicuro di aver potuto capire tutto di un racconto che è inevitabilmente molto femminile. Ma anche questo è un regalo importante, nel nostro rapportarci uomo-donna: sapere di non riuscire sempre a capire, ma sapere anche quanto possa essere importante sorreggersi a vicenda, come l’autrice ha potuto fare con Emanuele.
E allora, torno a dire a Tea ciò che poche settimane fa (pur senza ancora conoscere l’importanza e lo spessore di queste pagine) avevo risposto ai suoi dubbi su questo auto-racconto. Eravamo nel silenzio della nostra Cattedrale, fra la quieta vertigine del Correggio e l’emozionante pietra dell’Antelami: qui Tea mi ha anticipato lo spirito del suo libro e qualche suo dubbio, e qui – ascoltandola – le ho detto che sicuramente aveva fatto benissimo a svuotarsi di quei ricordi e a condividerli con noi. Ora ho capito quanto le deve essere costato: oggi più che mai, più ancora che nelle sue deliziose favole femminili che presto potranno tornare, la ringrazio e l’ammiro per come ha saputo raccontarci quel doloroso fuoco di dentro e quel cane nella pancia che la “rosicava viva”. Ma soprattutto la ringrazio e l’ammiro per averne saputo trarre, per poi condividerla con noi, un’altra lezione di quella Vita che alla fine – comunque – mai potrebbe “non ridere e non cantare”. Tea, ti aspettiamo a Parma per parlarne e per abbracciarti.
ILCIELODIPARMA.IT
https://www.ilcielodiparma.it/2024/03/01/endometriosi-un-cane-che-morde-dentro-nel-libro-di-tea-ranno/?fbclid=IwAR28ykm-xINMLA0LGlVXAYKWzlL1Zoq8NcV-d2Jc_Bd8eNXLUC4aagBRJcU