di Sandro Russo
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Per anni ho ascoltato Bruce Springsteen, più o meno distrattamente, perché non è mai stato tra i miei preferiti. E neanche ho seguito Tano e Paola nel 2016, quando, tutti infervorati, sono andati a sentirlo nel suo concerto romano allo stadio Flaminio.
Certo, lo conoscevo come un personaggio importante della scena musicale americana, apprezzavo le sue performance, molto muscolari, pura energia… ma mi è mancata la curiosità in più, quella di procurarmi e tradurre i suoi testi; cosa che avevo fatto a suo tempo con i Beatles, con Donovan… per dire (vabbè erano inglesi e pronunciavano perfettamente); ma anche con Bob Dylan che impasta le parole tanto che è difficile riconoscerle, anche col testo sotto gli occhi; e sicuramente con Leonard Cohen che è (era) un vate e un poeta.
Ma cosa è successo poi, con Bruce Springsteen, che ha stimolato questa canzone per la domenica?
Galeotta è stata la presentazione che ne ha fatto Alessandro Alfieri, nell’ambito del suo ciclo al teatro Manzoni intitolato “Gli immortali”, dopo David Bowie del mese scorso e i Pink Floyd ad aprile.
Ed è stato lì che mi sono reso conto che di Springsteen non sapevo niente (e fin qui poco male), non solo, ma mi ero fatto un’idea tutta distorta dei suoi temi.
Man mano che Alessandro parlava, mi rendevo conto di quanto mi ero perso del personaggio, delle sue radici… che affondano nelle ballate a tema sociale di Woody Guthrie (1912-1967) prima e di Pete Seeger (1919-2014) poi, nell’America profonda della grande depressione (durante la presentazione c’è stata una parentesi per citare il gran romanzo di John Steinbeck Furore – The grapes of wrath, (letteralmente ‘i grappoli dell’ira), il titolo originale -, pubblicato del 1939). Un album di Bruce Springsteen (l’undicesimo, del 1995, si intitola: The Ghost of Tom Joad [Tom Joad è il capofamiglia di Furore].
Di quanto Springsteen, 1949, americano del New Jersey, figlio di un operaio, di ben chiaro nella vita aveva che non avrebbe fatto l’operaio e propone una coniugazione tutta sua del famoso “sogno americano”, il più falso di tutti i miti, che ha cominciato a morire fin da quando è nato, con il mito della frontiera, della corsa all’oro, poi al petrolio, poi all’arricchimento con ogni mezzo e a qualunque costo; sempre frustrato eppure perennemente riproposto spostandolo in avanti.
«La mia musica ha sempre voluto misurare la distanza tra la realtà e il sogno americano»
(Bruce Springsteen, Wrecking Ball (album del 2012 – NdA), a conversation with Bruce Springsteen)
Una canzone per tutte, forse la sua più famosa, che (erroneamente) lo connotava ai miei occhi come un entusiasta dell’America… All American Boys! …Mentre fin dalle prime parole dice e significa tutt’altro: Nato in una città di morti. Il primo calcio che ho preso è stato quando ho toccato terra. (…).
Naturalmente non è l’unica dimensione di Bruce Springsteen e ne parleremo ancora trascrivendo l’intera presentazione della serata quando sarà pronta la versione Youtube preparata a cura del teatro Manzoni.
Intanto questa anticipazione.
Born in the USA è una celebre canzone rock scritta da Bruce Springsteen e pubblicata come singolo nell’ottobre del 1984, tratta dall’omonimo album. Sotto i testi inglese e italiano a fronte.
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