segnalato da Sandro Russo
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Dal momento che scriviamo spesso su queste pagine di ricordi legati al cibo e ai sapori di una volta – anche di come cucinare possa essere un modo di prendersi cura degli altri – mi sono ricordato di un breve articolo di Concita De Gregorio, dalla sua rubrica giornaliera su la Repubblica di qualche settimana fa.
Lo propongo ai lettori di Ponzaracconta.
Invece Concita
Quanto sapere, in una torta di riso
di Concita De Gregorio – Da la Repubblica del 7 novembre 2023
Un pomeriggio con mia nonna, di ricreazione in ricreazione, siamo tornati alla sua infanzia: quando, nella Spagna della dittatura, lei e tutti avevano come merenda un pezzo di composta di cotogne.
Abbiamo parlato di ricette, a casa, qualche giorno fa. A tavola, quando si mangia si parla di cibo. A casa mia succede poco, tutti corrono hanno sempre da fare, il mangiare è relativo: una necessità vitale, ci si arrangia. Quel giorno però era venuta in visita, da molto lontano, la nonna.
Era rimasta sola tutto il giorno e aveva cucinato per i sei successivi, con la cura che si trasferisce nell’idea di nutrire chi si ama, lasciando le vaschette in frigo e in freezer con le etichette scritte a mano.
Per la sera, tra molte pietanze, aveva preparato la torta di riso.
Erano anni che non la mangiavo, era il dolce-poco-dolce preferito da mio padre, così coi nipoti si è messa a parlare: come si fa? È facilissimo. Il riso il latte lo zucchero, una scorza di limone, le uova. Quante? Dipende dalla teglia.
Mi sono ricordata che era la mia merenda per la ricreazione. Una fetta triangolare di torta di riso avvolta in un pezzetto di carta lucida.
E così, di ricreazione in ricreazione, siamo tornati alla sua infanzia: quando, nella Spagna della dittatura, lei e tutti avevano come merenda un pezzo di composta di cotogne. Quella specie di bacchetta translucida meno dolce della marmellata, una barretta al sapore di mela. Oppure un pezzo di cioccolata col pane “ma la cioccolata non era buona, sapeva di terra” – ha detto.
I nipoti hanno chiesto del dittatore, che tipo fosse, lei ha raccontato un po’ – la guerra civile le alleanze, le strane neutralità, i morti nelle fosse comuni che ancora oggi chissà dove sono – poi anche loro hanno ricordato che avevano pane e cioccolata a scuola da piccoli ma in quel caso era una risposta “sana” alle merendine chimiche già allora in uso: meglio pane e cioccolata, una scelta responsabile, diciamo una scelta politica. Di politica alimentare.
Io, di mio, ho chiesto conferma a mia madre di quel che mi dava a colazione mia nonna: la papas del pueblo, ricordi? Certo. Las papas. Era pane raffermo cotto nel latte. Con un poco di zucchero e di cacao soffiato sopra: si faceva freddare (la nonna si svegliava prestissimo, dunque all’ora di vestirsi e andare a scuola las papas erano già fredde, per l’esattezza tiepide) e si mangiava nel piatto della minestra, col cucchiaio. Bontà assoluta. Il cacao e lo zucchero formavano una pellicola semisolida sulla superficie, molto scura, ma dentro il pane era morbido e ancora caldo, marrone chiaro. Al confronto le barrette di mela cotogna che ci davano a ricreazione erano cattivissime, e difatti sovente le riportavamo a casa intatte.
La nonna, la madre di mia madre, ci faceva la sera una torta di pane ubriaco alle mele: lo stesso pane di prima, quello avanzato nei giorni, con un goccio di qualche liquore e le merende che noi bimbi riportavamo da scuola.
Era tanto che non parlavo di cibo. Non parlo mai di cibo, in verità. Ma quella sera, l’altra sera, in una rara occasione di nonna e nipoti riuniti tutto il sapere, la storia, le vite di famiglia, la politica e gli amori sono passati da lì. Ti ricordi, com’erano buone, las papas del pueblo. Le pappe del popolo. Si fa con quel che c’è.
Non è questione di nostalgia. È storia, lezione, memoria.
Domani provo, non dev’essere difficile.
Immagine di copertina, da la Repubblica