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Ogni epicrisi è diversa, così come ogni settimana è diversa, diversi sono gli articoli che l’hanno scandita e i pensieri che l’hanno accompagnata… E questa è abbastanza un’ovvietà.
Ma certe settimane – se ti tocca fare l’epicrisi -, in un giorno qualunque di essa, ti accompagna un pensiero dominante e ogni pezzo nuovo che inserisci ti conferma che sì… è quella l’idea giusta e la sospensione – la suspence? – rimane fino alla fine, al sabato sera. Perché qualche volta succede anche che arriva un articolo che scompagina tutto e… reset: devi rivedere tutto e risistemarlo sotto un’altra luce.
Questa è stata una settimana “buona la prima”. Mi è venuto in mente un film, un titolo – anzi due, per lo stesso film! – e non l’ho dovuto più cambiare.
Presento subito il film: In un mondo migliore (titolo originale Hævnen), di Susanne Bier, una delle registe scandinave più note, premio Oscar 2011 per il miglior film straniero (quell’anno ha vinto anche il Golden Globe). La Bier è particolarmente conosciuta per la sua focalizzazione sul dolore; lo analizza, di film in film, da diverse angolazioni e pone lo spettatore davanti a scelte etiche estreme.
Il film è ambientato tra la Danimarca e l’Africa e delinea i rapporti familiari (soprattutto padre-figlio) di un chirurgo che lavora per la maggior arte del tempo in Sudan, in un’organizzazione umanitaria, a contatto stretto con l’arretratezza, la povertà e spesso la crudeltà del luogo e delle persone.
Mentre la trama, il trailer e il film stesso si possono recuperare dalle comuni fonti, a me interessava la strana vicenda del titolo. Perché In a better world – In un mondo migliore, il titolo con cui il film è stato distribuito in tutto il mondo – tendenzialmente positivo, “buonista” – confligge acutamente col significato del titolo danese Hævnen che malgrado la somiglianza con la parola inglese heaven (paradiso), significa invece “vendetta”.
In parte si comprende, questa perplessità dei distributori del film (opposta alla decisione della regista, che ha titolato nel modo più crudo). Nelle scene del film, al presidio medico dove il medico opera, spesso vengono portate donne incinte, ferite da un ‘signore della guerra’ locale. Per noia, brutalità e sadismo egli scommette sul sesso del nascituro e non esita ad aprirle, nel modo più cruento, per vedere se ha vinto.
Quando poi lo stesso mostro viene colpito da una gangrena a una gamba e si dibatte tra atroci dolori, il medico dovrà curarlo o no? E nella civilissima Danimarca il medico, anche padre di un ragazzino problematico, dovrà rispondere o no al pestaggio da parte di un altro genitore, per dimostrare al figlio che la violenza non è la soluzione?
In entrambe le realtà gli episodi di violenza nascono in modo istintivo, illogico e senza valido motivo, per una scommessa oppure per una banale lite tra bambini. L’aggressività è universale e la tragedia che ne segue può portare a svolte forse irreparabili. “In un mondo migliore” il riscatto sta nella forza morale (del perdono, se possibile) e nel respingere l’idiozia della violenza.
Questa dicotomia interna del film, – quasi le due soluzioni possibili di un problema, la relativa scelta “etica” – mi ha accompagnato, dicevo, per tutta la settimana; in molti degli articoli che il sito ha proposto.
Sicuramente, tra gli argomenti extra-isolani, nei tre articoli che hanno rappresentato una ripresa dell’interesse (del sito) per le problematiche dei conflitti, in questo caso quello israeliano- palestinese:
– Riprendiamo le fila del problema israeliano-palestinese;
– Liliana Segre alla manifestazione al “Binario 21” della Stazione di Milano;
– Conoscere l’Associazione “Pace in Medio Oriente”.
Ma questa settimana, perfino l’innocente (di solito) canzone della domenica è stata divisiva e ci ha chiesto di schierarci.
Altre decisioni ci attendono riguardo la contrapposizione uomo civilizzato / natura selvatica. Sull’argomento siamo molto preparati, ne abbiamo affrontato i vari aspetti: naturalistici, antropologici, e letterari, fino agli Abissi marini nella apprezzata serie Into the wild 1-12, da rispolverare in “Cerca nel sito”.
Questa settimana l’argomento è venuto fuori con questo articolo:
– La difficile convivenza con il selvatico intorno a noi.
Per il versante isolano registriamo una serie di articoli sulla contrapposizione tra le opposte “visioni” del porto fantasma di Cala dell’Acqua: la posizione dell’Amministrazione di cui non abbiamo notizie dirette, solo segnali di fumo, vaticinii vaghi, dai fondi del caffè o forse da qualche orazione fatta al calare delle tenebre all’uso ponzese -, come in queste storie che hanno raccontato Martina, tempo fa; e il compianto Franco Schiano ancor prima (leggi qui e qui).
All’altro estremo, la versione del titolare di “Marina di Cala dell’Acqua srl”, che abbonda in primizie, notizie e cataloghi ed ha avuto nuova spinta dalla sentenza del Tar sul famoso contenzioso dell’editto comunale de 23 gennaio 2023.
Chiederei ai lettori, sempre relativamente alle vicende di Cala dell’Acqua, porto a Le Forna e Comparto 13: come dovrebbe muoversi il sito? Osservare un rigoroso silenzio (famoso bavaglio, come va di moda di questi tempi)? …o pubblicare quel che c’è per dare comunque un’informazione, ben sapendo che è di parte? Perché dal versante dell’amministrazione nulla trapela di quanto hanno intenzione di fare. Hanno qualcosa da nascondere o è il vecchio vizio di tutte le amministrazioni (anche quelle che partono più amichevoli) che appena arrivano “lassù” blindano tutte le porte del “palazzo”? Perché i ponzesi non devono sapere?
Sul tema, questo passa il convento (e il sito): prevalentemente notizie dalla stampa cartacea e on line con qualche raro intervento diretto di Guido Del Gizzo:
– Dichiarazioni riportate dalla stampa: Del Gizzo, dopo la vittoria al Tar;
– Dalla stampa on line e cartacea (trasporti marittimi e sicurezza zona ex Samip);
– Comunità energetiche, impariamo a conoscerle;
– La protesta dei trattori e l’isola di Ponza;
– Articoli odierni dalla stampa cartacea e on-line (Istituto tecnico isolano e Del Gizzo).
Dove andiamo sul sicuro e potremmo essere tutti d’accordo è nel settore “Nostalgia e Ricordi”, ben rappresentato questa settimana nel sito:
– La vecchia casa (di Bixio)
– Benedetta ‘a mano ‘i Ddio (di Francesco De Luca)
– La mia Zannone (di Biagio Vitiello)
– Dimenticavo il cognome (di Franco De Luca)
– Gli uomini rimasti soli (di Gabriele Romagnoli, proposto da Sandro Russo).
Le persone scomparse. Per quanto i più saggi latini (e greci prima di loro) avessero asserito che dei morti si deve parlare solo bene – De mortuis nihil nisi bonum (dicendum est) –, la nostra perversa società degli (a)social, che per fortuna seguiamo poco o nulla, ha trovato modo di dividersi anche sul recente decesso di una persona dello spettacolo:
– Addio a Sandra Milo.
L’altra persona (di Ponza) di cui abbiamo sofferto la perdita è ricordata qui:
– La scomparsa di Gino ‘i Sigaretta.
E la poesia, può essere divisiva? Certo! Esattamente come la prosa, ma nei temi di questa settimana, solo buoni sentimenti…
– Compagni… amici… (di Tano Pirrone)
– Dolcezza (di Francesco De Luca): “Dolce è questo cimitero di volontà”.
Ho lasciato per ultimo un mio pezzo – Una vecchia lezione di tossicologia, “Burundanga” e la gente comune – che pur nelle diversità delle persone e degli interessi va a ricercare l’essenza di un sentire comune: “Chiamiamo questa sensazione di contatto, empatia. A volte, amore”.
Buona domenica
***
Commento del 5 febbr. 2024, di Carlo Secondino (cfr)
Ho letto, di Sandro Russo, l’epicrisi 462 di domenica 4 gennaio. Ha catturato la mia attenzione il film “In un mondo migliore”, della regista danese Susanne Bier che Sandro utilizza come filo conduttore del suo scritto, in relazione alla necessità, a volte ineludibile, di schierarsi.
Dopo essersi soffermato sulla dicotomia in cui pare siano caduti i responsabili della distribuzione del film, a livello mondiale (il titolo danese Haevnen somiglia al termine inglese Heaven – Paradiso, ma significa tutt’altro, cioè “vendetta”). Accennando alla storia che si svolge in Africa, Sandro esprime la propria convinzione che la violenza venga perpetrata a qualsiasi latitudine perché l’aggressività umana è un male universale.
Per esprimere con intensità quanto io concordi su una tale convinzione riporto una mia testimonianza, da un mio scritto di genere memorialistico, risalente al 2013, in un momento della mia lunga permanenza in Kenya. Si tratta di un mio saluto ideale a un giovane di nome Japhet, mototassista, bruciato vivo da un gruppo di altri giovani motociclisti, senza processo, senza essersi potuto difendere, con l’accusa di aver rubato.
Japhet
Ho, pianto per te, Japhet. Oh, non solo perché è giunta la notizia della tua possibile innocenza. Avrei pianto anche se fosse stata provata la tua colpevolezza, in quanto uomo barbaramente ucciso da altri uomini. In un Paese repubblicana qual è il tuo, in cui il tribunale è ovunque, anche in città non grandissime, come Malindi.
Avrei pianto comunque, perché la tua crudele fine sta lì, con imponenza statuaria, a testimoniare come non bastino le leggi democratiche e progressiste ad affermare i diritti umani, e la vera giustizia. Come sia arduo, per un gran numero di esseri umani, affrancarsi dalla zavorra costituita dall’ignoranza e dai pregiudizi. Come, in molte parti del mondo, restino pressoché immutati, rispetto agli albori della comparsa dell’uomo sulla Terra, la sete di sangue e, in generale, il belluino istinto della violenza. E come questa, la violenza, imperversi ovunque, Japhet, anche nel mio Paese: che è compreso tra quelli dell’Occidente, mondo cosiddetto ‘progredito’. Mutano solo le forme in cui essa si manifesta, rispetto a quanto accade ancora nelle tribù della tua diletta terra. Sono paesi più evoluti, caro Japhet. La convenienza e gli agi rendono l’esercizio della violenza più accorto, spoglio della terribile ma sincera ‘rozzezza’ dei modi, propria della tua amata Africa. È una violenza compiuta all’insegna dell’astuzia e della prudenza, dettate da motivazioni radicate nella eccessiva ambizione e nel profitto smodato, o nel desiderio di sopraffazione. E non di rado essa trova alimento nella indifferenza, nella nevrosi; persino nella noia.
Non credo che siano davvero diverse, la violenza perpetrata tra la tua gente e quella diffusa nei paesi del mondo ‘progredito’, se considerate in assoluto e spoglie degli aspetti e delle apparenze contingenti. No, Japhet, non sono diverse.
[Lo scritto si trova a pag. 205 del mio libro “Piccoli sentieri d’Africa”, che sul sito è stato presentato (leggi qui, qui e e qui)]
Sandro Russo risponde
Sì Carlo, l’Africa che abbiamo conosciuto noi è dolce ma può anche essere crudelissima, feroce senza motivo.
La storia raccontata dal film non ho dubbi che sia vera, anche se ai tempi dell’uscita il governo del Sudan protestò ufficialmente con la casa di produzione, con la Danimarca e anche con il governo degli Stati Uniti (dove si svolgevano gli Oscar) perché mettevano in cattiva luce il paese.
D’altra parte l’antecedente letterario più famoso è Cuore di tenebra di Joseph Konrad dove la tenebra non dimora solo nel cuore di Kurtz, ma in tutta l’Africa e in tutti gli uomini. Ci sono luoghi e condizioni in cui la belva sanguinaria viene tenuta a bada; altre volte non accade. In questi tempi, nel mondo, non sta accadendo.
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Tano Pirrone
4 Febbraio 2024 at 17:53
E’ una delle più belle e partecipate epìcrisi di cui abbia memoria: in mia assenza il livello si è alzato, mai a scapito della comprensione e dell’interesse dello specifico. L’alternanza dei temi locali e di quelli di spettro più ampio è sapiente ed ha un effetto moltiplicatore. Buona domenica a tutti.
Carlo Secondino
6 Febbraio 2024 at 20:06
Ho letto, di Sandro Russo, l’epicrisi 462 di domenica 4 gennaio. Ha catturato la mia attenzione il film “In un mondo migliore”, della regista danese Susanne Bier che Sandro utilizza come filo conduttore del suo scritto, in relazione alla necessità, a volte ineludibile, di schierarsi.
Dopo essersi soffermato sulla dicotomia in cui pare siano caduti i responsabili della distribuzione del film, a livello mondiale (il titolo danese Haevnen somiglia al termine inglese Heaven – Paradiso, ma significa tutt’altro, cioè “vendetta”). Accennando alla storia che si svolge in Africa, Sandro esprime la propria convinzione che la violenza venga perpetrata a qualsiasi latitudine perché l’aggressività umana è un male universale.
Per esprimere con intensità quanto io concordi su una tale convinzione riporto una mia testimonianza, da un mio scritto di genere memorialistico, risalente al 2013, in un momento della mia lunga permanenza in Kenya.
Si tratta di un mio saluto ideale a un giovane di nome Japhet, mototassista, bruciato vivo da un gruppo di altri giovani motociclisti, senza processo, senza essersi potuto difendere, con l’accusa di aver rubato.
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La pagina è allegata all’articolo di base
Sandro Russo
6 Febbraio 2024 at 20:27
Sì Carlo, l’Africa che abbiamo conosciuto noi è dolce ma può anche essere crudelissima, feroce senza motivo.
La storia raccontata dal film non ho dubbi che sia vera, anche se ai tempi dell’uscita il governo del Sudan protestò ufficialmente con la casa di produzione, con la Danimarca e anche con il governo degli Stati Uniti (dove si svolgevano gli Oscar) perché mettevano in cattiva luce il paese.
D’altra parte l’antecedente letterario più famoso è Cuore di tenebra di Joseph Konrad dove la tenebra non dimora solo nel cuore di Kurtz, ma in tutta l’Africa e in tutti gli uomini. Ci sono luoghi e condizioni in cui la belva sanguinaria viene tenuta a bada; altre volte non accade. In questi tempi, nel mondo, non sta accadendo.