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Bella la riscoperta del dialetto! È stata da poco – lo scorso 17 gennaio – solennizzata la Giornata Nazionale del dialetto e delle lingue locali e siamo qui a parlarne…
Già alcuni anni fa spingevo i ragazzi a farsi dire dai nonni frasi dialettali e a riconoscere la loro immediatezza e freschezza… per esempio: “schizzechéa!”.
Tra l’altro, nei momenti opportuni, chiedevo se conoscessero il dialetto: quasi tutti mi rispondevano affermativamente.
Allora io citavo delle frasi in dialetto (stretto) come ad esempio: Pìgliem’ ’u maccaturo dint’ ’u teratùr’ (in formiano tiratùr’) oppure “iamm ’ncoppa all’asteche”.
Chiedevo: Cosa avete capito?
Quelli, ovviamente, “traducevano” soltanto qualche parola di uso comune.
Io integravo con quelle oramai desuete. Diveniva una simpatica lezione: leggera ma anche “nutriente”.
Al di là, infatti, dell’aspetto “folkloristico” non mancava l’aspetto didattico. Là dove era possibile e quando si aveva tempo (perché il tempo nella scuola, per me, era sempre” tiranno”), si risaliva alle “origini” così: Addó’ amm’ i? o iamm’.
Facevo notare che quelle “i’” o “ iamm” erano e sono, letteralmente, un verbo latino (eo, is, itum ire). Così ’a buàtt’ è letteralmente… francese (la boite) e ’a suer è …inglese (sweater).
Quindi un po’ di storia romana e, immancabile, delle varie dominazioni straniere nel nostro Paese e di ciò che ci hanno lasciato!
Fin da bambino mi sono sempre chiesto quale fosse l’origine delle parole soprattutto quelle di uso comune e cercavo di darmi una risposta perché in quel tempo era impossibile, o quasi, chiederlo agli insegnanti molti dei quali, come “treni direttissimi”, proseguivano sui loro binari senza deviare. Almeno questa è stata la mia esperienza.
E inoltre “ai miei tempi”, così come i giornaletti, il dialetto era aborrito, bandito.
Ricordo bene, nei temi o nei riassunti, la “sbarra” laterale dell’insegnante con matita rossa o blu e a fianco scritto: dialetto! o forma dialettale!
D’altronde, comunque lei/lui la pensasse, rimaneva il fatto che l’arancia era ’u purtuàll’ oppure, se proprio lo voleva scritto in italiano, “il portogallo”!
I portogalli di Pasquale! 5 — (cinque meno meno!)
Sandro Russo
25 Gennaio 2024 at 09:19
Che poi… La ricerca della derivazione di una parola dialettale è un divertimento in sé.
Ci sono almeno quattro ipotesi, e con quella che suggerisce Biagio, cinque!
Quella che conoscevo io è che il frutto (originario del sud-est asiatico) fosse commercializzato inizialmente dai portoghesi al tempo del loro grande impero coloniale.
L’altra ipotesi, altrettanto attendibile, è la derivazione greca, perché sia in greco antico che in greco moderno l’arancia si chiama “πορτοκάλι” (pronuncia: portokáli).
Due altre ipotesi sono più fantasiose (e anche un po’ da ridere). La prima prevede che siccome le arance arrivavano a Napoli tramite le imbarcazioni che attraccavano al porto, deriverebbero dall’italiano “portuale”; per questo in dialetto si chiamano purtualli.
Infine l’origine francese del nome, perché durante il periodo della dominazione francese a Napoli i soldati francesi distribuivano arance gratuitamente alla popolazione, esclamando (in francese) “pour toi!”, e i napoletani accorrevano in massa a prendere “‘e purtuà”.
Infine Biagio Vitiello, pure lui incuriosito dal nome, che stamattina mi ha scritto di ricordare suo padre che gli diceva la parola derivare dall’arabo “purtuqua”. Sono andato a controllare su Wikipedia: effettivamente “oggi in arabo la parola usata per parlare delle arance è برتقال, burtuqāl, che ha soppiantato del tutto la parola persiana نارنج, nāranğ – letteralmente “(frutto) favorito degli elefanti” – da cui deriva “arancia” (e “naranja”, in spagnolo). Però in arabo il burtuqāl indica l’arancia dolce, mentre nāranğ (d’origine persiana) indica l’arancia amara“.
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Insomma, ‘ncopp’ i purtuall’ e ‘ncopp’ ‘u dialètt’ c’è ancora tanto da giocare…
Vai Pasquale! Insisti sull’argomento!