proposto da Sandro Russo: “Com’è stato che natura e uomo ‘civilizzato’ hanno preso strade diverse”.
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Il Manifesto. Cultura. Into the wild/8
Il caso dell’orsa JJ4 e il suo contrastato rapporto con l’altra specie – quella umana – ha dato l’avvio a questa serie di pagine culturali che indagano la relazione con il selvatico da diverse prospettive. C’è quella «reale» (che comunque sconfina nell’immaginario), e quella della finzione letteraria, come il puma di Hollywood, o storie dai tratti leggendari: dalle fiabe alla scoperta (spesso non veritiera) dei «bambini delle foreste», per l’intima familiarità con la selva dello scrittore uruguayano Quiroga, passando per le simbologie risvegliate dai lupi alle porte della città, E poi ci sono le orse di Artemide, i meravigliosi incontri sottomarini, il desiderio di tornare «indigeni», l’empatia con animali e le fantasie equine di Turgenev a Tolstoj. Senza dimenticare le commistioni di uomini e maiali irlandesi e l’utopia vegetale di riunire diversi mondi in un unico giardino assai «indisciplinato».
Il Manifesto Cultura. Into the wild/8
L’Irlanda letteraria e le virtù dei maiali
di Enrico Terrinoni – Da il Manifesto del 23 agosto 2023
Fra i protagonisti dei racconti anche cavalli, tori, usignoli e gabbiani. Flann O’Brien è in buona compagnia nell’usare la metafora della commistione tra le diverse specie. Bobby Sands vide negli animali un afflato di libertà, Wilde li innalzò a esempi di virtù, Orwell ne scorse anche i vizi, per Swift erano l’imperfezione di tutti gli esseri viventi.
Un’installazione di Wim Delvoye
Un noto aneddoto riportato in molte varianti vuole che il dublinese Flann O’Brien, grande scrittore comico, abbia fornito il seguente quadretto degli inquilini di un tipico cottage dell’Irlanda rurale: padre, madre, nonni, otto figli, tre maiali e un linguista tedesco col compito di studiare la lingua che colà si parlava: l’irlandese.
Una sua opera dal destino strano, in Italia nota come La miseria in bocca, gioca moltissimo su questa promiscuità, soprattutto in merito alla comprovata presenza di animali in casa, nelle tipiche famiglie irlandesi del periodo post carestia. E punta molto anche sulla figura del linguista tedesco, che dall’alto della sua scienza arriva a scambiare il grugnito dei porci per irlandese.
È un’opera dal destino strano perché venne scritta in irlandese e fu tradotta in inglese solo molti anni dopo. Nel mondo, la gran parte delle traduzioni di questa piccola perla di comicità sono state fatte a partire dalla traduzione, e non dall’originale. Certo, per mancanza di esperti e traduttori dall’irlandese, ma la circostanza si abbatte ironicamente anche sul ruolo dei linguisti, non solo tedeschi. Pur col nobile intento di far sopravvivere una lingua, nel passaggio dalla vitalità orale alla fissità dello scritto, hanno contribuito a darle quasi il colpo di grazia.
O’Brien è in buona compagnia nell’usare la metafora della commistione tra umani e maiali (o porci, a dir si voglia). Il suo An Béal Bocht (letteralmente «La bocca povera») predata di quattro anni un altro libro molto più noto, La fattoria degli animali (1) dell’inglese Orwell, scrittore che nella sua anarchia ha molto in comune con tanti irlandesi (e non siamo forse tutti irlandesi agli occhi di Dio, dice il proverbio?)
La Fattoria è un testo che oggi leggiamo come allegoria politica dei totalitarismi, ma quando uscì aveva quale sottotitolo la dicitura Una fiaba. Appartiene agli intenti distopici di Orwell, si dirà, il voler raccontare in toni fiabeschi una storia di grandi soprusi. Oppure è un modo di riallacciarsi a una antica tradizione di racconti per bambini non scevra da violenze di ogni tipo. Basti pensare alla favola su Cappuccetto rosso in cui la fusione di mondo animale e umano arriva a toccare persino la sfera dell’apparato digerente, se è vero che la povera nonna viene prima inghiottita dal lupo cattivo, e poi tratta in salvo squarciando brutalmente il pancione dell’animale.
Come in questo caso, possiamo ipotizzare che anche Orwell, coi suoi politici-porci, abbia voluto in parte tentare di educare un popolo nel suo farsi: una popolazione bambina che da subito doveva essere esposta alla retorica nefasta del potere, per poterlo semmai, da grandi, sovvertire. Il tutto con intenti anche satirici; e infatti, nella fiaba non mancano accenni ironici e anche francamente divertenti.
Cosa che non ritroviamo sempre nei casi in cui il mondo degli animali viene a contatto con quello di noi umani, in opere d’immaginazione. Prendiamo The Banshee of Inisherin, il noto film irlandese di Martin McDonagh (2022) uscito in Italia col titolo assai più innocuo Gli spiriti dell’isola (2). Dico innocuo perché il termine banshee identifica non già un generico spirito, ma uno spettro che col suo lamento annuncia una morte imminente all’interno della casata presso cui si presenta.
In quella pellicola vediamo animali che frequentano ambienti casalinghi dell’Irlanda rurale, e siamo esposti a una speciale amicizia tra uomo e animale che finisce in tragedia allorché un altro uomo assai poco umano non comprende la grande virtù dell’umiltà che lui scambia per noia.
Una noia forse figlia dei famosi cavalli sapienti de I viaggi di Gulliver dell’altro irlandese Jonathan Swift, gli Houyhnhnm, che si contrappongono ai rozzi e istintuali nostri simili, gli Yahoo. Gli equini nel libro, opera considerata a torto, ma anche a ragione, destinata a un pubblico di giovani, sono una sorta di perfezionamento dell’umano, ma proprio per questo risultano non umani. Sono perfetti come nessun uomo o donna può esserlo, e dunque freddi, legati alla logica delle connessioni e alle connessioni della logica più che all’intuito – tratto bestiale che a volte si sublima nel rendere la nostra intelligenza meno artificiosa e artificiale.
Il libro ci presenta esseri viventi non umani che possiamo e dobbiamo ammirare, ma non adorare, come avviene invece per il «bove dei bovi», il bos bovum dell’Ulisse di Joyce, grande inseminatore e simbolo della fertilità. È una parodia pseudoreligiosa che esalta un tipo mascolinità taurina e per questo cieca ai veri bisogni delle sue adoratrici. Non soltanto gli istinti fanno gli umani, infatti; né la sola sapienza, ma una combinazione di raziocinio e impulsività, di intuizione subitanea e capacità di trarre il prezioso filo rosso che esiste, nella vita, tra causa ed effetto.
Un filo rosso che non coglie, forse per ingenuità, o magari per eccesso d’amore, l’uccellino del noto racconto per bambini di Oscar Wilde dal titolo L’usignolo e la rosa (3). Vede un giovane struggersi per una ragazza. Questa pretende una rosa rossa, ma in giardino non ce ne sono e il giovane si dispera. Allora l’usignolo spinge sempre più forte il suo corpicino contro la spina di una pianta di rose ormai secca, e cantando al chiaro di luna forgia una rosa e la tinge di rosso sangue. Poi muore. Al che il ragazzo porterà alla fanciulla il magnifico fiore, ma questa lo scarterà, avendo ricevuto, da un altro pretendente, regali considerati ben più preziosi.
Sappiamo che Wilde scriveva i suoi racconti per i figli, per educarli alla bellezza e al dolore, sapendo forse di doverli lasciare di lì a poco. Con questo racconto ci consegna un’eredità importante: morire per amore, per l’amore altrui, è nobile quanto futile. E alla fine della storia restiamo increduli per l’insipienza degli umani di fronte al sacrificio appassionato degli animali.
Un sacrificio che incarnò nel vero senso della parola l’ultimo irlandese di questa rassegna, un ragazzo che a ventisette anni scelse di morire di fame in un carcere britannico in Irlanda del Nord, Bobby Sands. Prima aveva scritto, e molto. Poesie, articoli, racconti. In questi il mondo animale è spesso protagonista. L’usignolo (nightingale) e il suo canto sono per lui un potente simbolo di libertà, come anche l’allodola (lark).
In giorni in cui il livello di violenza e di repressione nei Blocchi H aveva già raggiunto livelli parossistici, ricorda Gerry Adams, Bobby, dal chiuso della sua cella fredda e maleodorante si affacciava e osservava gli uccelli giocare nel cortile del braccio: «a dominare il regno del mio piccolo mondo esterno di una ventina di metri è il gabbiano (seagull). Regna incontrastato, ruba, becca e nega agli uccelli più piccoli la loro porzione. Il gabbiano prende tutto per sé. Di fatto il suo appetito sembra insaziabile e fa qualunque cosa per rimpinzarsi». Un commento ironico, visto che di lì a breve, Bobby e i suoi compagni avrebbero iniziato un fatale sciopero della fame divenuto storico.
L’esempio degli animali è spesso, nella vita, un’indicazione preziosa per noi, e questo la letteratura ha saputo coglierlo in innumerevoli occasioni. Bobby Sands vide in loro un afflato di libertà, Wilde li innalzò a esempi di virtù, Orwell ne scorse anche i vizi, mentre Swift li rese metafore dell’imperfezione di tutti gli esseri viventi. Eppure, come forse direbbe Flann O’Brien, nonostante questo, o magari in virtù di tutto ciò, restano sul campo ancora tante, tante domande da porci.
[Into the wild/8 – Continua]
Immagine di copertina: Tutto il verde d’Irlanda. Ring-of-Beara-lato-nord
Note (a cura della Redazione)
(1) – George Orwell, Animal farm. La fattoria degli animali (1945) è un apologo sul potere, un superclassico di riferimento per qualunque rappresentazione di vizi e virtù umane rappresentate attraverso gli animali (il porco Napoleon, il cavallo Bonafede…). Non si è mai scritto precisamente del libro, ma è citato spesso, per esempio da Franco De Luca in “Rivisitazione frivola di vicende isolane“.
(2) – Del film Gli spiriti dell’isola (The Banshee of Inisherin) abbiamo scritto sul sito a proposito di Stupidità e per la suggestiva location isolana.
(3) – L’Usignolo e la rosa -La novella di Oscar Wilde è stata centrale, in due articoli del sito sulla ricerca della bellezza: Due link:
https://www.ponzaracconta.it/2021/03/04/la-ricerca-della-bellezza-1-usignoli-farfalle-angeli/
https://www.ponzaracconta.it/2021/03/06/la-ricerca-della-bellezza-2-seguendo-un-usignolo-o-una-rosa/