proposto da Sandro Russo: “Com’è stato che natura e uomo ‘civilizzato’ hanno preso strade diverse”.
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Il Manifesto. Cultura. Into the wild /5
Il caso dell’orsa JJ4 e il suo contrastato rapporto con l’altra specie – quella umana – ha dato l’avvio a questa serie di pagine culturali che indagano la relazione con il selvatico da diverse prospettive. C’è quella «reale» (che comunque sconfina nell’immaginario), e quella della finzione letteraria, come il puma di Hollywood, o storie dai tratti leggendari: dalle fiabe alla scoperta (spesso non veritiera) dei «bambini delle foreste», per l’intima familiarità con la selva dello scrittore uruguayano Quiroga, passando per le simbologie risvegliate dai lupi alle porte della città, E poi ci sono le orse di Artemide, i meravigliosi incontri sottomarini, il desiderio di tornare «indigeni», l’empatia con animali e le fantasie equine di Turgenev a Tolstoj. Senza dimenticare le commistioni di uomini e maiali irlandesi e l’utopia vegetale di riunire diversi mondi in un unico giardino assai «indisciplinato».
Il Manifesto. Cultura – Into the wild / 5
Un immaginario da addomesticare
di Fabrizio Scrivano – Da il Manifesto del
Forme narrative per evitare rischi e perdita di controllo alla specie umana. L’attrazione per un mondo animale fantastico, orrifico e meraviglioso, da sfidare con prudenza
Dimnah in prigione per aver ingannato il Leone, Kalilah wa-Dimnah, manoscritto arabo, ca. 1310 (World Digital Library)
Uno dei modi più antichi con cui l’umanità s’è sottratta ai rischi del selvatico è stata la favola, nel senso specifico di quelle narrazioni in cui gli animali si comportano come umani, parlando, pensando e agendo secondo volontà. Anche l’opposto, cioè il luogo comune degli umani che si comportano come bestie, fa parte d’una retorica che sottrae l’animalità dal concetto di umano (dando per ovvio l’assenza nell’animale di qualsiasi possibilità di rappresentarsi), come se questa creatura bipede e implume fosse tutta etica e pensiero. Dato il suo maxi istinto alla colonizzazione ambientale non si capisce bene il perché abbia dovuto crearsi una figura capace di sottrarre anche alle bestie la natura selvaggia, se non come una dissimulazione strategicamente orientata a limitare alcuni competitori naturali.
I caratteri degli animali delle favole saranno certamente stati costruiti in base a un’attenta osservazione del loro comportamento (la destrezza, la velocità, il coraggio, l’ingordigia, l’astuzia, la prudenza, la laboriosità, etc.), sia pure nei limiti di nomi e classi costruite secondo il paragone con le attitudini umane, dato che proprio agli umani vanno attribuiti i caratteri stranianti e buffi dell’animale parlante. Ma certo nel moltiplicarsi delle narrazioni favolistiche sistematiche o occasionali, didattiche o satiriche, i modelli e le dinamiche di interazione tra animali provenienti da Esopo, Fedro, dal Bestiario moralizzato o dalle diverse versioni europee del Pañcatantra, da Del Tuppo e Firenzuola e poi La Fontaine (ma la lista sarebbe infinita) presero il sopravvento nell’attribuzione dei caratteri, divenuti luoghi comuni certissimi, e alla fine non furono poi tante le narrazioni che reinventarono e arricchirono il repertorio.
Cominciarono magari a fare eccezione Leon Battista Alberti e Leonardo Da Vinci, che senza troppo insistere sui paragoni espliciti, si divertivano a costruire apologhi leggeri sulla contraddittorietà dei fenomeni naturali: come quello albertiano del verme che si mangia la noce in cui è nato e, tacciato di ingratitudine, esclama: «Sarebbe ingiusto se m’avessi generato per farmi morire di fame!»; o quello leonardiano del torrente che «portò tanto di terra e pietre nel suo letto, che fu po’ constretto a mutar sito». Dove al centro pare esserci la trasgressione della regola che la ragione (morale) si aspetterebbe di poter applicare: segno di un latente sospetto che la natura sia qualcosa di più complicato e indipendente dal modo con cui l’umano se la immagina e desidera.
Bisognerà aspettare alcuni secoli perché questo approccio appena più aperto all’indipendenza del selvaggio dalle trame umane si presenti come un terreno da praticare e indagare attraverso il racconto.
L’immaginario medievale aveva costruito le prassi di domesticazione del ‘diverso animale’ su polarità opposte (che non ci sono per nulla estranee).
Da una parte il gusto e l’attrazione per un mondo animale fantastico, orrifico e meraviglioso insieme, misterioso e inaccessibile, da sfidare con prudenza e non domabile, residuo di una volontà divina non orientata al solo destino antropomorfo, parallela e profondamente estranea ai percorsi umani, alle terre e agli spazi conosciuti e dominati, in fondo limite immaginifico degli spazi civilizzati e ammonimento terrifico a intraprendere cammini divergenti dall’identità morale umana. Dall’altra, l’avventura di addomesticamento del mondo animale, la sua contiguità con quello antropico, come testimoniano le leggende di alcuni santi eremiti o fondatori di comunità in regioni estreme e disabitate. Quella di San Gerolamo nel deserto, raccontata ne La Leggenda aurea da Jacopo da Varazze, che fa del leone, avendogli curato una zampa, un fedele animale desideroso di accettazione (si ricorderà che, accusato ingiustamente di aver mangiato il somarello rubato in realtà da ladroni, il leone lo va a recuperare al mercato). O quelle che riguardano San Remedio, che ordina all’orso che gli ha appena divorato il cavallo, di portarlo in sella (lo scambio di identità/ruolo ricorda anche l’episodio in cui Pinocchio viene sostituito al cane per fare la guardia al pollaio, con quella spassosa paura di riduzione dell’umano all’animale); oppure le storie dei Santi Colombano e Gallo, i due monaci irlandesi che nelle foreste incontrano e addomesticano l’orso: nel primo caso, il monaco in preghiera e la bestia condividono pacificamente la grotta durante la notte; nel secondo caso (episodio che tra l’altro fu splendidamente intagliato in una lastra eburnea dal monaco-artista Tuotilo verso la fine del IX secolo), l’orso che aggredisce gli uomini raccolti intorno al focolare viene indotto da Gallo a coltivare il fuoco, portando della legna da ardere in cambio di cibo: una radicale forma di addomesticamento che si lega al mito di Prometeo. Del resto, i due avevano esperienza: secondo alcune leggende scozzesi, prima che intraprendessero il cammino verso il sud d’Europa, Colombano e Gallo avevano redento dalla mostruosità selvaggia niente di meno che una creatura nascosta in un lago delle Highlands (il mostro di Loch Ness?).
Il confine pratico e teorico col selvatico è deciso dall’umano, sia nella sua individuazione di opposto (ostile all’umano e contraddicente l’umano) sia nella sua domesticazione (placato e sottomesso dall’umano), in base ai propri interessi di colonizzazione della natura, tanto nelle prassi di conservazione quanto in quelle di espansione degli spazi reputati vitali (per sé). Del resto nell’era dell’Antropocene ci sarebbe rimasto assai poco (secondo alcuni in termini letteralmente quantitativi) da sottrarre al selvatico, tanto più da quando anche quei confini di ambienti abitati da corpi non visibili a occhio nudo, come batteri e geni, sono diventati terreno d’esplorazione e controllo.
Lo spazio del selvaggio, cioè quello in cui la presenza umana non ha potere ed è a rischio, s’è estremamente ridotto, ed è sempre più confinato sotto il concetto di «riserva»: uno stoccaggio che prevenga l’estinzione delle specie o il degrado integrale della biosfera, tenuto vicino ma non troppo, protetto tramite il contenimento. Così come si sono create bio-banche, di batteri e di virus, per proteggersi meglio da eventuali loro evoluzioni selvagge (incontrollate e ferali).
Naturalmente questo non riguarda solo gli spazi materiali ma anche quelli immateriali dell’immaginazione e della progettazione. Tanto che il mantenimento (in riserva) degli ambiti e degli ambienti selvaggi pare un necessario antidoto e forse un doveroso freno alla tendenza pantoclastica (rompere tutto) di queste scimmie ripulite ma colme di violenza parossistica.
Ma della labilità di quel confine pare che la tradizione favolistica fosse ben consapevole: basta pensare al caso eclatante dell’antichissima raccolta indiana Pañcatantra, nella quale i due protagonisti girovaghi e testimoni sono, significativamente, Kalilah e Dimnah (nell’immagine di copertina – ndr), due sciacalli, specie tipica di quell’incertezza di confine tra mondo selvaggio e civilizzato.
Non ci stiamo davvero allontanando dalla favola, anche se così pare; anzi anche se così è accaduto, come per una rottura sentimentale, quando le modalità di discorso sul lato animale e selvaggio dell’umano non ha più trovato in quel genere letterario un efficace riscontro etico ed etologico. Le pratiche di addomesticamento narrativo del selvaggio hanno preso altre vie e forme di comunicazione, che prescindono dal favolistico tradizionale, inclusive magari di un maggior sforzo di conoscenza delle peculiarità della vita non-domestica degli animali.
Anche i racconti solidamente basati su principi di etologia animale hanno come effetto quello di illuminare e rinforzare il paragone, non necessariamente fatto di somiglianze, tra i comportamenti umani e animali. E proprio la nascita di nuove modalità di narrazione ci costringerebbe a essere più accoglienti ed elastici nel considerare i campi di applicazione della favola. Ma per questo non meno sospettosi del fatto che questi diversi tipi di racconto lavorano tutti nel rendere più opachi i confini tra lo stato selvaggio (animali indomabili), brado (animali addomesticati che vivono all’aperto), domestico (animali inclusi negli spazi privati umani) e il luogo antropizzato (piegato all’utilità umana, al decoro della civiltà si sarebbe detto una volta).
Il rischio è proprio quello che mentre generosamente si accetta che l’umano possegga caratteri non solo di ragione morale ma anche tanti di istinto animale, allo stesso tempo si assottigli la pensabilità di una estraneità radicale con il selvaggio. Val la pena di chiudere ricordando Gérard Wajcman, che in un libricino del 2008 intitolato Gli animali ci trattano male, coglieva l’insorgere di questo pericolo in un fatto specifico e irritante: che gli animali possano non curarsi della nostra esistenza.
[Into the wild/5 – Continua]