proposto da Sandro Russo
.
L’insurrezione di Napoli contro i tedeschi, all’epilogo della seconda guerra mondiale, è stato un unicum che ha anticipato tutti gli altri movimenti di liberazione delle città italiane,
La popolazione napoletana, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 1943, fu la prima città d’Europa a essersi liberata da sola dai nazifascisti, in una città completamente trasformata e quasi interamente devastata dal secondo conflitto mondiale.
È stato une evento eccezionale di cui abbiamo scritto più volte sul sito. A proposito del film “Le quattro giornate di Napoli“, di Nanni Loy (1962) e in diverse altre occasioni; vedi schermata qui sotto:
Anche Erri De Luca rende omaggio al coraggio dei napoletani nella sua rassegna di parole dal suo lessico familiare e sentimentale.
Così scrive, a proposito di due diversi lemmi della sua antologia di voci dialettali.
Fui’
Più dell’equivalente italiano di fuggire, l’abbreviato fui’ segnala l’urgenza della fuga. Non c’è sillaba né istante da perdere. All’imperativo singolare è: fùie, al plurale fuìte, ma si usa poco perché il voi, gli altri, non hanno bisogno del suggerimento. Con tempestività sono già fuiùti prima dell’invito.
A un re Borbone si proponevano nuove divise per le truppe. Scettico il re rispose: “Comm’e vvieste ‘e vvieste, fùieno sempe”. In qualunque modo vestiti, si danno comunque alla fuga.
Senza indossare alcuna uniforme, il popolo napoletano nel settembre del 1943 mise in fuga l’esercito tedesco di occupazione: ’e facette fui’. Gli americani entrarono in città senza perdere un soldato.
Un piatto di spaghetti condito con quasi niente viene affettuosamente battezzato: “con vongole fuiùte”. Un proverbio yiddish consiglia: “Quando la pentola è vuota, riempila di risate”. L’umorismo, l’ironia possono fare supplenza di alimentazione e consolare con vongole assenti.
Eduardo De Filippo pronunciò un suo addolorato “fuitevenne”, fuggitevene, rivolto a dei giovani attori napoletani che gli chiedevano il da farsi. Fu l’invettiva di un momento di amarezza. Senza quel suo tono di voce e fuori da quell’occasione, la sua espressione si è cristallizzata in un invito generale all’emigrazione, a disertare Napoli. E tempo di rimediare con un “turnatevenne”, ritornate, da pronunciare come programma politico della città futura.
Maruzza
Una frase locale così prende in giro la persona paurosa: “Pulecenella spaventato d’e maruzze”. Perché Pulcinella si spaventa? Perché all’improvviso le lumache nel cesto tirano fuori corna. La frase deride chi teme anche l’innocuo.
Mi trovo in un’epoca disponibile a timori infondati. Alcune formazioni politiche istigano a provare paure nuove ottenendo adesioni. Anziché contrastarli, ci si compiace di tenersi stretti i timori nuovi, da quello per l’’immigrato a quello di mettere al mondo figli, a quello per un vaccino. Pare che ci si affezioni a queste preoccupazioni.
Sono di un’epoca opposta, in cui si doveva provare e comprovare resistenza a ogni specie di paura. Il 1900 ha costretto le persone a imprese eroiche, con guerre mondiali, bombardamenti di città, deportazioni, emigrazioni. Contro questi pericoli incombenti il coraggio, ’o spirito, era necessario come il cibo.
C’era una durezza che portava un padre, una madre a minacciare un figlio: “T’accir ’e mazzate”. E succedeva pure. Perciò mi sono incomprensibili e inconsistenti le paure nuove e i loro imbonitori.
Napoli è stata città di spericolato coraggio e tenacia, arrivando all’arte di scherzare con la propria fame, con la propria miseria attraverso le maestrie di Totò, di Eduardo. Nun ce facimmo mettere appaura da ’e corna de’ maruzze.
[“A schiovere”, di Erri De Luca (4). Continua]