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Così continua il suo scritto su Ventotene.
“Ci restò quattro anni, sempre nel principio della perfetta obbedienza e in ispirito di riparazione per le offese fatte a Dio e alla sua S. Chiesa”.
Tante soddisfazioni negate. È quasi annichilito. Scrive ancora.
“A marzo arriva in Curia, da parte di monsignor Motolese, Arcivescovo di Taranto, la richiesta per mettermi alla direzione della nuova casa di esercizi spirituali di Martina Franca. Mi informano e mi chiedono quali siano le mie intenzioni al proposito.
Rispondo: “Tutto ho fatto in 30 anni e sofferto per la mia diocesi. Rinnovo il mio voto nell’obbedienza”.
E non ne so più nulla. Qualcuno risponderà per lui.
Scritto ancora da lui:
“Sono convocato a Gaeta per comunicazioni… Ammesso alla ‘Sua’ presenza, mi dice: Ho risposto dicendo che occorri a me. Voglio nominarti delegato arcivescovile per l’azione cattolica e per le suore (l’Azione Cattolica è una potenza).
Dopo l’estate esce sul bollettino la sola nomina per le suore. L’Azione Cattolica è saltata, perché, mi dice, vi sono stati dei risentimenti”.
‘U paricchian’ in una foto mai pubblicata
Il Monsignore di Ponza che qui è conosciuto da tutti non ha segreti per voi, questo che sto raccontando è il Monsignore che conosciamo noi, cose che sappiamo, avendole, in parte vissute e in parte apprese dai parenti e dagli scritti.
Quando fu il fratello a chiedere di essere aiutato a rispettare una scadenza entro fine mese, ricordo la risposta: “Vedi le asole di questa veste, ci passa dentro ’na roja (un gabbiano – ndr).
Sotto ai bottoni non c’è più stoffa per cucirli. E la stessa sottana da anni. Eppure anche in questi frangenti, i legami diventavano più saldi. Se quella era la veste, altro era la sostanza che c’era dentro. Ma era molto provato.
Questa frase scritta di suo pugno non lascia spazio alle interpretazioni.
È la risposta ad una cartolina di auguri di Natale 1964. Al nipote:
“Tuo zio è morto, ti risponde il suo spirito solo perché ti chiami Giovannino. Fatti santo perché solo la bontà vale”.
Anche Ventotene passò.
Ancora dal diario:
“Qui a tutti fu detto che dovevo andare via per il bisogno delle anime (ivi poche centinaia, in continente molte migliaia). Il sindaco pregò che non mi avesse tolto, a nome di tutti gli isolani costernati. Fu inamovibile”.
E si cambia ancora. Si va verso l’epilogo.
Le migliaia di anime da salvare sono quattro gatti a San Domenico. Ma almeno noi nipoti siamo di nuovo con lui, e, soprattutto, stiamo crescendo.
Continua a portarci in giro con il suo coro formato per la maggior parte dai nipoti più un altro paio di elementi.
Si attornia anche qui di un certo numero di fedeli ma che puoi contare sulle dita. Ostinatamente, continua a spendersi totalmente per il suo Ministero, continua a dare tutto se stesso.
A San Domenico, a San Giacomo, alla cattedrale, siamo sempre intorno all’organo ad accompagnare con il canto le sue musiche. E, nel nome dell’ubbidienza, tanti bocconi amari.
È il 1968. Ancora annota.
“Comincio a vegetare e a marcire in San Domenico ove ho speso complessivamente un milione per chiesa e casa. Non ci sono fedeli, i pochi sono indefinibili. Luogo infamato… E vado a sbatterci proprio io”.
La salute peggiora.
A San Domenico, come ovunque, lasciò nei pochi fedeli che avvicinò alla parrocchia un gran ricordo.
Non era un sacerdote facile. Quello che accettava non saresti mai riuscito ad imporglielo. In Curia cominciarono ad arrivare con sempre più insistenza da Ponza richieste perché all’isola fosse restituito ’u paricchian’.
Un gran numero di uomini e donne di Ponza, si mobilitò. Tra gli altri Giulia e Genoveffa D’Atri, le due figlie del dottor D’Atri che, trenta anni prima, era stato a riceverlo a Ponza, ormai mio padrino, assiduo di Monsignore, compagno di tante passeggiate e discussioni erudite. Intanto la chiesa, a Ponza è chiusa e pericolante.
Io penso che forse il ritorno a Ponza a questo punto, viste le condizioni di salute sempre meno floride, gli andava risparmiato.
Le strutture per avere sotto controllo ed alleviare le sue patologie, sull’isola, non so se erano adeguate. Era stato questo, uno dei motivi del suo primo distacco dall’isola. Ma sappiamo che lui altro ormai non avrebbe accettato e, a Ponza, se il corpo continuava a non aver pace, lo spirito si rasserenò. Ulisse che torna a casa non si illude. Ma le fatiche che non feriscono non peseranno.
Aveva 57 anni. Forse già allora con diagnosi precoci e cure appropriate non lo avremmo perso. E parlo per noi. La sua famiglia, che però per lui era un unicum. Noi, la sua Chiesa, il popolo.
Ricominciò ancora. Tanta attenzione sempre per i più giovani. Il suo piccolo orticello di anime da avvicinare alla parrocchia. E tanti di quelli che sono qui oggi, a questa seconda generazione. L’edificio sacro, pericolante, fu riaperto in poco tempo.
Noi d’estate c’eravamo, e quello che anni prima facevano i suoi giovani, quella prima estate lo facemmo mio fratello Giovanni e io.
Lo abbiamo portato in barca a fare il bagno al suo solito posto, sotto la torre dei Borboni. L’angolo dove nessuno dei ponzesi, quando lui era lì, lo disturbava. Risalire in barca fu faticoso. Anche se non era più lo zio colosso che ci sovrastava quando arrivava a casa e non passava dalle porte.
A Ponza tante sofferenze fisiche, ma lo sosteneva ancora lo stesso spirito.
Le anime da salvare non sono soltanto quelle che di salvarsi lo hanno scelto e sono già nel gregge, ma quelle che si sono smarrite, finite nei dirupi. Vanno cercate e riportate a seguire il pastore che affronta ogni disagio per non perderle. Lo spirito è sempre quello della evangelizzazione di San Francesco, scalzo con il saio, e sotto il saio il cilicio.
Verso la fine del 1973 acquistò e fece installare un nuovo meccanismo elettrico con timer per automatizzare e poter suonare le campane nel modo e negli orari stabiliti.
Era l’ultimo regalo che faceva a Ponza e a se stesso.
Poi l’ospedale e il lungo soggiorno a Roma a casa del fratello.
La mattina dell’otto dicembre arrivò da Ponza una telefonata. Una signora che abitava accanto alla chiesa uscì sul balcone e gli fece ascoltare, nel telefono, il suono delle campane che annunciavano il giorno tanto atteso dell’Immacolata.
Ma arrivò anche l’ultima ciliegina. Una lettera indirizzata alla parrocchia e quindi al sostituto ivi insediato, gli fu fatta arrivare a Roma. Era una rata relativa alla spesa per il nuovo meccanismo delle campane.
Monsignore guardò il fratello, disse solo: “Mimì, non tengo una lira”.
Era sorpreso e incredulo, ma molto di più, mortificato.
“Lui’, rispose il fratello, e che problema tieni, ci siamo messi mai paura? Abbiamo sempre pagato e paghiamo pure questa. Pensa a stare bene”.
Anche a Roma eravamo con lui, io ci vivevo e frequentavo l’università.
Eravamo più grandi e consapevoli. Ascoltavamo di più.
Tutta la famiglia ha ricevuto da lui, come esempio soprattutto, e come esortazione, la spinta a progredire, esser preparati, validi, per farsi valere, ma avendo una preparazione adeguata.
Stava male e ci esortava in ospedale prima e poi a casa, ad andare a recuperare tutta la sua biblioteca custodita presso il convento della cugina suora, a Pastena.
– “Andatevi a prendere i libri, quelli sono vostri, quelli li dovete avere voi”.
Si rasserenò solo quando gli dicemmo che la sua biblioteca era al sicuro.
Ecco cosa ci voleva dare e cosa ci ha dato nostro zio, la coscienza di saper valutare cosa vale nella vita. E la stessa cosa dobbiamo fare noi tutti per quelli che vengono dopo di noi.
Non so dove vanno le persone quando vengono a mancare. Ma so dove restano. Monsignore, quando nessuno di noi sarà più qui, avrà il suo posto nel cuore di quest’isola.
Vi posso dire che lui continuerà con la sua mole imponente a muoversi come suo solito, tra i banchi della sua chiesa. Dalla sacrestia all’Immacolata. Sempre attento a sistemarne, nel modo più meticoloso, il velo e la corona d’oro formata di atomi che hanno ognuno un nome e parlano ognuno la lingua di quei fedeli che con le proprie offerte hanno contribuito ad acquistarla. Felice di respirare profondamente quel profumo che pochi avevano il privilegio di sentire.
Si sposterà dall’altare di San Silverio all’Addolorata.
Sarà dove ha sempre saputo di avere un rifugio e quel grande popolo che ancora oggi lo ama.
“Dicono che prima di entrare in mare, il fiume tremi di paura. A guardare indietro tutto il cammino che ha percorso. Le cime, le montagne, il lungo e tortuoso cammino che ha aperto attraverso giungle e villaggi. E vede di fronte a sé un oceano così grande che a entrare in lui può solo sparire per sempre. Ma non c’è altro modo. Il fiume non può tornare indietro. Nessuno può tornare indietro. Tornare indietro è impossibile nell’esistenza. Il fiume deve accettare la sua natura ed entrare nell’oceano. Solo entrando nell’oceano la paura diminuirà, perché solo allora il fiume saprà che non si tratta di scomparire nell’oceano, ma di diventare oceano”. (Khalil Gibran)
Su don Luigi Dies, lo sguardo della famiglia. (3) – Fine
Luigi Dies
19 Dicembre 2023 at 20:33
Grazie a tutta la Redazione per l’attenzione data a questo evento; a tutti i miei complimenti. Aggiungo il mio grazie finale e completo con gli Auguri per le prossime festività natalizie da trascorrere in serenità.
Un grande abbraccio a Sandro, e a presto… non per il 100º Anniversario!