di Luigi Maria Dies
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Sul magistero di Don Luigi a Ponza non faccio qui alcuna analisi. Questo periodo è stato passato al microscopio.
Ma ancora le somme si devono tirare.
Una cosa vorrei però fosse chiara. Monsignor Dies era un sacerdote che esercitava il suo ruolo cercando di portare un contributo in ogni campo del sociale. Non era il sacerdote che dall’altare predicava e benediceva. La sua vocazione era molto francescana, ma di quei francescani col saio e a piedi scalzi, non quelli “conventuali-cattedratici”.
Stava tra la gente. Era un fratello, un padre, un maestro. Una persona che aggregava, creava legami forti, ma anche politico. Non sottovalutava l’importanza del contesto in cui operare. Non si soffermava sul concetto di avversario, gli uomini erano anime da salvare. Lui lottava per la fede, per la chiesa, e per il popolo, contro le ideologie.
Anche qui in anticipo sui tempi, e già in sintonia di un Concilio Vaticano II ancora da venire.
‘U paricchiane Dies tra i suoi ragazzi in una foto sulla Madonna della Civita
Le ideologie che impongono l’ateismo, la non religione di stato, vanno combattute. Quindi Monsignore vedeva negli uomini, non avversari né tantomeno nemici, cercava semplicemente, ma con tutti i mezzi a sua disposizione, di farli allontanare dalle idee sbagliate di cui si nutrivano e che propagandavano. Parliamo di un uomo che era avanti.
Colto, altruista, generoso, uomo di grande satira e grande oratore, dotato di una ironia sottile e pungente. Ti poteva togliere la pelle con la lingua. Ce ne vorrebbero di più nella chiesa universale di Roma.
Mentre, ancora oggi, vediamo, e lo sta dicendo Papa Francesco, che in qualche piega e in qualche personaggio attuale, (sicuramente pochi, perché tanto rumore non significa a tutti i costi quantità), alcuni traguardi fissati dal Vaticano II restano inattuati. Ma è sbagliato puntare il dito, e necessario invece che ognuno, in base al ruolo ricoperto, faccia il suo dovere. Nella chiesa che cambia è necessaria una reciprocità costruttiva, clero-fedeli, da mettere poi in pratica soprattutto in famiglia per avere frutti migliori.
Oggi, si ritiene superflua l’osservanza di molte regole basilari, ne è seguita una deriva inarrestabile dei costumi. Certo siamo tutti bravi ad accusare chi non segue più il disegno del vangelo. Ma cosa diciamo a chi non ha saputo tenere in pugno le leve guida per i freni delle coscienze? Troppo facile criticare chi predicava il giusto rigore di cristiano. Troppo facile oggi dare la colpa ai poveri cristiani lasciati senza una lanterna che gli faccia luce.
Monsignore, la sua lanterna l’aveva portata con le sue mani fino in America, al punto da riuscire a tenere unite due comunità, ognuna di oltre tremila anime e farne un tutt’uno per due decenni. Era intransigente e determinato contro il decadimento dei costumi e della morale. Vedeva lontano. Come disse Winston Churchill quando l’Inghilterra entrò in guerra: “Io so come andrà a finire perché ho studiato la storia”.
A ben guardare, oggi, credo di poter dire che Don Luigi avesse ragione.
In Italia la parola “ventennio” è una parolaccia, ma il ventennio della parrocchia e di Monsignore bucò l’altro buio, per uscirne vincitore. Luci ed ombre, è vero, ma ognuno ha in mano il suo personale interruttore per guardare a questi tempi con l’illuminazione che crede.
Sono comunque documenti veri le testimonianze di chi c’era, che hanno cancellato tante illazioni.
Gli anni d’oro di Monsignore e della parrocchia si avviano comunque al capolinea verso la fine degli anni 50.
Sono state individuate tante cause e indagate le incrinature scatenanti, ma quello che fu il colpo che tolse tutte le energie a Monsignore, la fondamentale causa del tracollo, fu, e pochi lo dicono, la morte della sorella Sisina.
La famiglia arrivata compatta a Ponza ora vive di lontananze e con il trauma di assenze improvvise.
Chi era Sisina per Monsignore? Come e fino a che punto erano legati questi fratelli?Vi semplifico e vi spiego il concetto con un episodio che risale al 1944. Essendo stata già fissata la data del suo matrimonio, Sisina fa di tutto per posticiparlo. Vuole aspettare il fratello Salvatore prigioniero in Germania. Ma la paura di una brutta notizia che avrebbe imposto un lutto lunghissimo, sconsigliò di attendere (“Sisina si sposò con la morte nel cuore” – sempre zia Mimma). Salvatore gli mancava.
L’anno dopo, il 20 giugno del 1945, a San Silverio, Salvatore, dopo infinite peripezie e con mezzi di fortuna, ritornò a Ponza. Era festa e lui chiese alla madre una camicia pulita. La madre gli rispose (sempre da zia Mimma): “Non hai più camicie, le ha tutte Sisina, se l’è portate con lei, almeno le usa il marito” – aggiunse mortificata, quasi per scusarsi.
E penso alle famiglie di chi non è tornato e a quelle a cui la guerra ha imposto alti prezzi da pagare. Ecco, io dico: la nostra è una famiglia nata con la camicia.Furono comunque venti anni di grandi cambiamenti e progressi per chi li ha vissuti.
Non faccio nessun bilancio. In tanti, per vie diverse, sono arrivati a conclusioni soggettive e più o meno fondate.
Rimangono le incomprensioni degli ultimi anni la cui origine va ricercata proprio in quel lutto così inaspettato e devastante. Da qui, a parte tutte le dicerie e le mistificazioni, ha origine la quasi totale rinuncia a reagire da parte di Monsignore.
Giuseppe Tricoli, cento anni prima, visse le identiche traversie. Le racconta nel suo “Memorando”.
Monsignore, ora, di fatto, a Ponza è praticamente solo. La madre è anziana e bisognosa di cure, i fratelli ormai navigano, e i viaggi, una volta, duravano anche dieci-dodici mesi, e oltre.
Nel 1957 andiamo via da Ponza anche noi nipoti che, negli ultimi anni, avevamo vissuto con lui e nonna Gilda.
Don Luigi comincia ad accusare qualche acciacco fisico, per cui, tirando le somme, non ha più tanto senso dedicare energie ai detrattori, specialmente quando le insidie gli arrivano in modo assurdo ed inaccettabile da chi mai si sarebbe aspettato. Scelse di restare in silenzio.
– Tacere non significa che io non abbia niente da dire, o che quello che vedo mi sta bene. Il mio tacere vuol dire: “Ho capito chi sei e non vali nemmeno la mia attenzione”. Il silenzio non è vuoto, ma è pieno di risposte. È solo quando riesci a “tacere”, evitando discussioni inutili, che mostri la tua intelligenza e la tua saggezza.
Questa è una filosofia che non puoi insegnare, puoi solo “praticare.”
È il 1959, Ponza è ormai alle spalle. Monsignore sbarca a Gaeta. Viene eletto e confermato dal Vescovo, canonico a Sant’Erasmo. Membro del capitolo della cattedrale. Fa parte del collegio che celebra le funzioni più solenni. Fu un lampo. Poi il decennio che lui stesso definirà: “La infinita odissea del novello Ulisse”.
Ritrovò però parte della sua famiglia. Ci siamo noi ragazzi a Gaeta. Dobbiamo ancora crescere un po’, ma tutte le domeniche andiamo a trovare la nonna e lo zio.
Da Gaeta vecchia ad Elena, andata e ritorno, in fila per quattro, a piedi. In tante occasioni siamo il coro che lo accompagna nelle funzioni religiose, continua a dirmi di non aprire bocca, ma ci vuole assolutamente tutti presenti. Almeno a Pasqua e a Natale lo ricordo a pranzo da noi con mamma che tira fuori il servizio da tavola buono. Non poteva durare. Fu trasferito a Fondi. Anche a Fondi cercavamo di non fare mancare la nostra presenza. Bisognava prendere il pullman per Formia, scendere e cambiare alla fermata davanti alla clinica Costa. Ricordo le volte che aspettavamo la coincidenza, e qualche volta anche con la pioggia. Anche nonna ci aspettava pronta sempre a gratificarci con qualche dolcino. E fu qui a Fondi che anche nonna Gilda ci lasciò. Era il 19 gennaio del 1962.
Intanto, come sempre, anche qui, nostro Zio riparte, rimboccandosi le maniche. Ravviva il clima dei rapporti con la parrocchia e i fedeli. Inizia come suo solito ad innovare, restaurare e migliorare. Si guadagna, poco a poco, il consenso, e già gli si era stretto intorno un gruppo entusiasta e motivato. Tante spese nuove e tanti sospesi saldati. Ma, anche qui, dopo poco tempo, ecco che qualcuno arriva con il garbo di un elefante e a tavola apparecchiata.
Da una nota dell’agosto 1962 (si riferisce a un messo della Curia di Gaeta).
“Viene a Pastena portandomi la nomina di canonico e scrivendo lui la mia rinuncia a S. M. di Fondi “firmata” “vi et metu” (con forza e paura).
Mi esonera dai pagamenti in corso ma mi costringe poi a pagare, dicendo che l’ufficio amministrativo non aveva autorizzato le spese (erano d’ordinaria amministrazione); si prende 500.000 lire (di mio fratello) e mi manda a Ventotene. I miei fratelli hanno sempre pagato.
Di nuovo il mare a dividere e staccarlo dalla famiglia.
Per noi nipoti diventa molto più difficile restare in contatto. I fratelli vanno a trovarlo quando è possibile.
A Ventotene, nel 1965 ho trascorso una intera estate in sua compagnia rinunciando a Ponza.
Qui il signore, fortunatamente, gli fa incontrare quello che sarà il suo angelo custode, un supporto insostituibile fino all’ultimo istante degli ultimi faticosi anni. Silvia.
Sarà più di una santa donna, un’altra zia Teresa. La sensazione di avere ancora qualcuno di famiglia vicino, indispensabile, come una sorella.
E anche qui, a Ventotene, riparte come al solito da zero. L’animo e martoriato ma lo spirito non cede. Rinnovamenti, restauri, costruzioni.
Così scrive: “Rinnovo chiesa, casa, costruisco il salone parrocchiale, m. 60 x 60, ricevo molti consensi. Adatto il terzo piano per la villeggiatura dei seminaristi grandi che verranno per 15 giorni, in luglio, a Ventotene (oltre 200.000 lire di spese in più)”.
Con la consueta grinta e tenacia, ricomincia ad aggregare i fedeli che, tanto per cambiare, in poco tempo gli si compattano intorno. Ma col morale sta a terra.
Resterà a Ventotene quattro anni.
[Su don Luigi Dies, lo sguardo della Famiglia. (2) – Continua]