.
Possiedo un’auto nuova che ha in dotazione: retrocamera, sensori di parcheggio, freno di stazionamento elettrico, marce automatiche; si apre e si chiude non appena mi avvicino o mi allontano, ed ogni altra “diavoleria” moderna. Ho anche un’altra macchina, ma è un po’ datata.
Di norma uso quella nuova, ma ogni tanto prendo quella vecchia. Il più delle volte, però, quando mi allontano da quest’ultima, la lascio aperta con le chiavi inserite. Questo perché oramai sono abituato alla nuova che si apre e si chiude da sola senza prendere la chiave. Oppure, peggio ancora, lascio la leva del freno di stazionamento abbassata, cosicché me ne accorgo soltanto quando l’auto tende a muoversi da sola oppure lascio i fari accesi.
Alcuni anni fa un amico mi prestò una sua vecchia 500 degli anni ’60 del secolo scorso, perfettamente funzionante. Non appena vi sono entrato (questa ha le porte contro vento mentre quelle di pochi anni addietro avevano ancora le portiere che si aprivano a vento, per la gioia di noi ragazzi che ci soffermavamo a vedere le… gambe delle ragazze quando salivano, costrette ad alzarsi un pochino la gonna, ma non troppo. Nessuna o quasi, infatti, indossava i pantaloni perché disdicevoli: roba da maschi!). Ops! Divagavo…
Seduto in macchina, mi sono guardato intorno ed ho pensato: “Accidenti quant’è stretta e minuscola!”. L’ho vista “spartana” con quei pochi comandi: lo sterzo, il tachimetro, la leva per inserire le “frecce”; il “ pioletto” sul cruscotto per mettere in moto i tergicristalli ( che ovviamente avevano una sola velocità); quelle ruote poco più larghe di quelle della bicicletta! A quei tempi anch’io ne possedevo una, e a me sembrava una… fuoriserie.
Poi ho inserito la chiave e l’ho girata ulteriormente per metterla in moto. L’amico, sorridendo, mi ha detto: “Ma non ti ricordi più come si fa?”.
Ho raccolto la mia memoria e mi sono ricordato: le due levette in basso a destra vicino al sedile! Una, più morbida nel sollevarla, serviva per l’aria; l’altra, più resistente, per la messa in moto. Tiratala su, la piccola autovettura con uno stridio si è messa bravamente in moto un poco dondolando. Immediatamente ho abbassato la levetta dell’aria per non far ingolfare il motore che già stava… morendo. E sono partito con le sue brave quattro marce che dovevano essere innestate al momento giusto per non farle “grattare”. Nel breve tragitto percorso si dimostrò, ovviamente, più scomoda e più rumorosa di quella che ora adopero.
Allora così si partiva per “le ferie”, altra scoperta del tempo
Così è la nostra vita. Noi fruiamo di ciò che abbiamo e se anche ricordiamo il passato non riusciamo ad immedesimarci. Per farlo bisognerebbe viverlo di nuovo. Ma ciò è impossibile sia perché si vive la realtà corrente sia perché ciò che ci viene propinato non corrisponde alla realtà del tempo passato. Così tutto diviene evanescente, edulcorato, come quando si ascoltano le favole di Biancaneve o Cenerentola o come quando si vedono film in costume che non rispecchiano la vera realtà. Nel primo caso, infatti, i personaggi e gli ambienti li immagiamo a modo nostro secondo i nostri tempi, ma non li sentiamo nel profondo, nel secondo caso la realtà viene spesso distorta. Essi, infatti, sia nei dialoghi sia nella rappresentazione degli ambienti ci danno una visione non vera della realtà del periodo narrato. I dialoghi spesso rispecchiano il sentire del nostro mondo ma sono lontani mille miglia dal sentire del tempo narrato. Gli spartani precipitavano, senza remore, i figli che nascevano con qualche tara dal monte Taigeto; mentre i Romani si dilettavano a vedere correre sangue umano e di altri esseri viventi nelle arene (la “Strage degli Innocenti” è sempre esistita ed esiste, purtroppo ancora oggi). Nel Medioevo le torture e lo sventramento non erano rari. A questi spettacoli, per noi orribili, in quel tempo accorreva ad assistere moltissima gente che inveiva contro il condannato, rideva e sghignazzava divertita. Rendere schiavo una persona era “normale” così com’era previsto lo “ius primae nocti”. Lo schiavo a sua volta accettava, passivamente la sua condizione. Rari i casi, infatti, di rivolta di schiavi. La schiavitù è stata codificata anche in tempi più recenti e, anche se sotto altre forme, ancora oggi esiste. La schiavitù rende l’uomo arcigno e duro perché la vita umana non vale un soldo bucato. Il lavoro massacrante, la fatica, l’ambiente polveroso e/o squallido abbrutiscono l’uomo.
E come gli animali della savana che vedono i loro cuccioli azzannati dai carnivori e tentano di difenderli per quanto è possibile ma poi se ne fanno una ragione, così non è raro che l’uomo che sta nella indigenza più assoluta si privi, per pochi soldi, dei figli: il bene più prezioso oppure venda il proprio corpo o sacrifichi la propria vita a chi offre un’esigua somma di denaro.
Ma a noi fa comodo rapportare tutto al nostro modo di pensare che nasce sostanzialmente dall’agiatezza. Anche per i Romani fu praticamente lo stesso. Ai tempi della Repubblica infatti, quando il cibo era parco (Cinea emissario di Pirro si meravigliò che il console mangiasse fave!), le strade erano polverose e l’acqua potabile scarseggiava, il mondo era duro ed il neonato poteva essere lasciato anche sulla porta di casa, senza troppi rimpianti.
Poi con l’agiatezza tutto divenne più “dolce” sia nel pensiero che nei costumi (anche le donne usavano i “bikini”).
Così fino a poco tempo fa quando si correva per strada con i cerchioni come giocattoli, quando era lecito avere bacchettate dai maestri ed il conseguente “resto” da parte dei genitori e si soleva dire “mazze e panelle fanno i figli belli” oppure “crescete e moltiplicate” ed i pantaloni dal più grande passavano a mano a mano a figli minori fino a che non divenivano “pezze “ da utilizzare in casa, in cantina o sulla barca…
A quel tempo, in che modo si cresceva?
O si diventava paurosi e timidi oppure arcigni, duri e… furbacchioni.
Perché fare fessi gli altri non era riprovevole ma un… pregio! Nulla, infatti, veniva concesso oltre l’essenziale e se si voleva qualcosa, fin da piccoli (a tutti i livelli ed in ogni campo; anche in…. Amore) la si doveva guadagnare adoperando all’occorrenza anche…. l’astuzia!
Gli innamorati, ad esempio, andavano a nascondersi e tentavano ogni sotterfugio per “far fessi” i genitori ed i parenti! Forse era pure più bello! Così si plasmava la vita fin dalla più tenera età.
Oggi, nel concedere tutto ed anche subito, i genitori sono divenuti “chiocce” ( ultra protettivi). Forse per tacitare la propria coscienza dal momento che essi stessi, oberati da tantissimi problemi ed impegni, non sono più in grado di seguire a modo i figli. Cercano quindi o di demandare ad altri (la scuola soprattutto) la loro educazione (ma questa ha le basi nella famiglia dove il rapporto è uno ad uno) oppure si diviene molto protettivi perché si ha paura della sconfitta, specialmente quando nascono aspettative che poi si rivelano illusioni.
La sconfitta è sempre un trauma, ma fa parte della vita. Come gli antichi Romani traevano insegnamenti dalle numerose sconfitte, così essa può divenire corroborante se viene seguita nella giusta maniera. Tempo e pazienza: due entità un po’ astruse di questi tempi!
Il vecchio edificio della chiesa di Ponza, prima dell’intervento voluto da ‘u parrecchiane Dies
Quel mondo arcigno e duro generava anche un Dio altrettanto duro, pronto a perdonare ma anche e soprattutto severo, pronto a castigare i peccatori ed i non credenti. Il sacerdote, in ambedue i casi era il suo rappresentante.
Dava l’assoluzione dopo la confessione e per chi diceva di pentirsi ma, per chi bestemmiava o diceva parole che allora erano dette” parolacce” (che oggi, invece, sono entrate a far parte del vocabolario quotidiano) minacciava il “fuoco sulla lingua” e pronunciava tremendi anatemi per i peccatori incalliti.
Il sesso di cui oggi si parla apertamente dappertutto, era tabù e la donna che osava alzare lo sguardo sull’uomo era considerata “sfacciata” ed una… “poco di buono”.
La Messa, abbastanza ermetica, era celebrata in una lingua del tutto sconosciuta e non so se la maggior parte delle persone, specialmente le più anziane e quelle analfabete o quasi, sapesse rispondere correttamente al “dominus vobiscum”.
Al momento del Matrimonio gli sposi si limitavano a dire “Sì” poiché pochi sapevano leggere e scrivere velocemente. La Messa, pertanto s’imperniava su canti, incenso e gesti. Questi ultimi appariscenti come le benedizioni, quelle solenni, con l’ostensorio levato in alto ed il sacerdote che sembrava sparire dentro paramenti molto vistosi e pesantissimi: ne usciva fuori solo la testa.
Di queste benedizioni ce n’erano tante durante tutto l’anno. Oggi sembra, invece, che siano sparite. Lo scopo era quello di destare meraviglia (secondo l’idea barocca) ma nello stesso tempo intimorire. Ci si batteva, infatti, il petto e si cantava: “Sono stato io l’ingrato…”. come se il Cristo fosse stato innalzato sulla Croce per i nostri peccati (quindi noi colpevoli) e non per redimere gli stessi.
Durante la Messa si stava per la maggior parte del tempo in ginocchio. Anche la comunione, dopo aver digiunato per molte ore, si prendeva in ginocchio intorno alla balaustra e soltanto in bocca perché si diceva che l’ostia, una volta consacrata, poteva essere toccata solo dalle mani consacrate del sacerdote e da nessun altro; se per caso fosse caduta a terra si doveva fare non so quale procedimento per potere di nuovo passare di là. Insomma un mondo duro lontano anni luce da quello odierno, quello nostro.
’U parricchian’ con i suoi occhi penetranti mi dava un timore reverenziale insieme alla sua imponente figura (rassomigliava a quella di mons. Francesco Musella parroco di Lenola e nostro compaesano che io conobbi nei lontani anni ’70) e alla sua voce roboante che si spandeva per ogni dove e senza microfono in tutta la chiesa. Io tentavo sempre di scansarlo ed infatti quelle rare volte che mettevo piede in sacrestia immediatamente me ne uscivo nel timore di incontrarlo. La sacrestia era un luogo a me poco familiare per cui mi sentivo a disagio.
Solo una volta mi affidarono l’incarico di fare la questua durante la Messa con la “guantiera” (vassoio), così si usava. Ma giunto nei pressi dove sedevano le monache con le orfanelle (davanti all’altare entrando sulla destra), molte monete scivolarono e caddero a terra provocando un tintinnio nel silenzio più assoluto. Mi prese il patema d’animo.
Una volta, però, non ebbi modo di scansare don Luigi. Facevamo il viaggio insieme verso Formia. Lo vidi e girai dall’altra parte della nave. Poi, però, non so perché sentii una certa attrazione verso di lui e timidamente mi avvicinai e gli baciai la mano (perché così si usava).
Lui, pacatamente, guardandomi fisso mi disse. “Finalmente, te ne sei accorto!”
Non seppi rispondere, rimasi lì impacciato. Non mi chiese più nulla ed io mi allontanai quasi di soppiatto.
Era sicuramente una mente dalle mille idee e con noi bimbi ci sapeva fare perché, tra l’altro, prima della Messa o prima del catechismo “a duttrina” (dove tutto si mandava a memoria a cominciare da: Chi è Dio? e la conseguente risposta: Dio è l’Essere perfettissimo Creatore e Signore del cielo e della Terra” per proseguire: tutti e quattro gli atti, le virtù teologali ecc, ecc.) ci faceva giocare sul sagrato della chiesa. Era un uomo del suo tempo come lo erano tutti.
Tempi duri, quindi, che generavano una dura mentalità. Gli uni rapportati all’altra in una sorta di cane che si morde la coda.
Quei tempi, infatti, per noi sono oramai e per fortuna lontani. Ma esistono ancora oggi luoghi dove la dura vita genera una dura mentalità. Laddove la vita è fatta di stenti, dove tutto è precario. Dove si vive nella polvere e nel liquame e la merce da vendere (anche quella molto deperibile come il pesce) è ammucchiata alla rinfusa e per terra ai margini delle strade, sotto il sole e nella polvere. Dove pochi spiccioli di una moneta che vale già poco fanno la differenza (chi vuole, può controllare quanto valgono quelle monete rispetto al dollaro o all’euro e se ne fa un’idea!) Pertanto anche la vita vale poco perché si può morire per un nonnulla.
Ma noi crediamo che quel mondo debba pensare come pensiamo noi, debba agire come agiamo noi. Non può essere così a meno che non offriamo a questa povera gente (in tutti i sensi perché manovrata sia economicamente sia intellettualmente da altri) e se accettano, reali strumenti (adeguati, soprattutto, alle loro tradizioni e valori) per migliorare il loro tenore di vita. Forse sollecitiamo soltanto la nostra pietà; ma, senza dare e soprattutto senza far niente di concreto, essa è, a mio avviso, mera ipocrisia.