di Sandro Vitiello
Sono andato a vedere una settimana fa il film di Paola Cortellesi C’è ancora domani e ci ho messo un po’ di tempo a metabolizzarlo.
Sarà perché sono un maschio, sarà perché è un film che parlava di una storia del primo dopoguerra, sarà perché io non sono come l’attore protagonista ma…
Ma quella storia non mi è passata dalla testa neanche per un istante.
Tutti i giorni sui giornali o sui social ho trovato considerazioni pienamente condivisibili e ognuna di queste aggiungeva un tassello alle mie prime impressioni.
Questo film è portatore di un messaggio di una forza incredibile, raccontato con un linguaggio semplice ma efficace, capace di arrivare al cuore del problema e nell’anima di quanti credono che i diritti delle donne non siano negoziabili.
È un film in bianco e nero – stile neorealista – girato in una Roma che faticava ad uscire dalla miseria della seconda guerra mondiale con tutti i protagonisti che cercavano di sopravvivere alla meglio a quel periodo di miseria. Ma dentro quella sofferenza c’era la sofferenza doppia delle donne, vittime di quel tempo e vittime dei maschi; mariti, fratelli, suoceri.
Uomini che avevano bisogno delle donne ma che non erano assolutamente capaci di riconoscerne il ruolo e di non avere nessuna forma di rispetto verso di loro.
Questa è la storia di Dalia, innamorata corrisposta di un uomo che una volta che diventa il marito mostra tutto il suo aspetto volgare, manesco, prevaricatore.
Lui che la picchia dalle prime ore del mattino e che poi, ogni tanto preso da sensi di colpa molto fugaci, non trova niente di meglio che incolpare le due guerre di averlo trasformato così.
E quando Dalia si accorge che i meccanismi che l’hanno portata a diventare un animale chiuso nella gabbia della responsabilità verso i tre figli, quando si accorge che quel meccanismo sta per compromettere anche il futuro della figlia maggiore, allora decide di ….
Non aggiungo altro alla storia perché ai pochi che ancora non l’hanno visto non voglio togliere il piacere di questo film.
Da quanti anni non vi capita di far fatica ad entrare in un cinema, a meno che non parliamo di blockbuster hollywoodiani?
Vi è capitato ultimamente di rimanere a leggere i titoli di coda e battere le mani come quando si assiste ad un grande spettacolo teatrale?
Tutto questo succede abitualmente se si decide di andare a vedere “C’è ancora domani”.
Questo film è un capolavoro.
È un film che fa star male, perché fa riflettere, perché non lascia alibi.
Il rispetto verso le donne, verso i loro diritti, verso la loro diversità in quanto donne è un qualcosa che non può e non deve essere solo merce negoziabile.
Se noi maschi non siamo capaci di mettere al centro delle nostre relazioni con l’altro sesso la reciproca responsabilità, il rispetto umano e professionale, non potranno mai esserci sufficienti rivendicazioni da parte delle donne.
Questo film va fatto vedere nelle scuole.
Uno volta uscito dai circuiti commerciali va proposto nei luoghi di incontro come opportunità educativa per le donne ma soprattutto per i maschi.
Perché non ci sia più un padre che spieghi al figlio come e quando menare la moglie.
Perché nessun fidanzato possa dire “al tuo futuro ci penso io”.
Perché nessuna madre debba più vergognarsi davanti ai figli per un padre violento.
Aggiungo a queste mie considerazioni lo scritto di Concita De Gregorio apparso oggi su “la Repubblica”. Ogni parola è da condividere.
Se non l’avete ancora fatto andate a vedere questo film, non ve ne pentirete.
Qui di seguito, l’articolo di Concita De Gregorio in chiaro.
Il film di Cortellesi
I diritti delle donne
di Concita De Gregorio
Ci riguarda così da vicino tutti quanti, chissà cosa sarebbe successo se lo avessimo candidato agli Oscar
Ho due buone notizie, mi dice al telefono una cara amica imprenditrice geniale. Vogliono comprare la mia società: sono i più grandi del mondo, offrono un sacco di soldi, ma tanti veramente — questa è la prima buona notizia.
Vogliono però che resti nel consiglio di amministrazione per cinque anni. Io li conosco quelli del consiglio, sono anni che gli vendo servizi: tutti uomini, tutti convinti di sé, tutti di quel genere che se una cosa non l’hanno pensata loro non è pensata e se l’hai pensata tu mentre gliela dici non ti guardano nemmeno, continuano a scrivere al computer fanno i distratti, poi tornano due settimane dopo e tutti tronfi la comunicano come un’idea loro. Hai presente? Ho presente. Ecco. La seconda buona notizia è che gli ho detto di no: io, dopo vent’anni che faccio da sola, non ci torno a farmi dire “ora ti spiego” da tizi in cravatta che se apri bocca si infastidiscono perché gli hai risposto.
Che quando parla il capo ti fanno cenno con la mano che è meglio stare a bocca chiusa. Preferisco vendere a meno ma restare libera. Meglio, no? A proposito.
L’hai già visto il film di Paola Cortellesi?
A proposito, ha detto. Così mi si è materializzata un’evidenza che ronzava da giorni nel retrobottega dei pensieri.
Il film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, non parla di una donna del 1946, o meglio: certo che lo fa. Ma, intanto, parla di noi. Noi proprio adesso, noi ora, noi che se a cinquant’anni vendiamo un’azienda che abbiamo fondato a trenta ci poniamo il problema di non aver più voglia di tornare in quella stanza in cui devi solo annuire, sebbene in magnifico tailleur — non in grembiule da cucina. Parla delle ventenni che si scrivono in chat “dai usciamo stasera, lui ha detto che mi lascia uscire”. Mi lascia uscire. Non è così geloso, in fondo vedi, è tranquillo: mi lascia. C’è tutto un mondo nel “mi lascia”. Parla delle canzoni che fanno milioni di ascolti dove lei chiede “voglio che tu sia geloso in pubblico”, così tutti sapranno che mi ami e hai voglia a dire che l’amore non è possesso nei convegni, negli editoriali, hai voglia se poi la fidanzata del miliardario del momento dice che le piace il patriarcato e ha due milioni e mezzo di followers, un po’ strana ma cool, fa tendenza.
In Italia oggi quattro donne su dieci non hanno un conto corrente intestato a loro nome. Dieci su dieci, che vuol dire nessuna, fra le donne con bassa scolarità, fra quelle che vivono al Sud o in aree interne o periferiche — leggo uno studio presentato pochi giorni fa a Milano. Se non hai un conto corrente a tuo nome vuol dire che dipendi da qualcun altro anche solo per comprarti le sigarette o un paio di ciabatte. Che non puoi prendere nessuna decisione, neppure quella capitale: andartene da un uomo che ti dice non sei buona a niente, non servi a niente, non sei capace.
“Non sei buona nemmeno a fare la serva”, dice Valerio Mastandrea a Paola Cortellesi nel film. Lo dice nel ’46, ma nelle case risuona vero oggi.
È dunque piuttosto interessante parlare di un film che ha battuto ogni record (dieci milioni di incassi in una manciata di giorni, due giri di pista al secondo italiano, meglio dei blockbuster americani) ma non tanto perché mostra che se c’è qualcosa di appassionante da vedere la gente al cinema ci va eccome. Un milione e mezzo di spettatori, e non si ferma. Non tanto per il volume d’affari che muove, per i soldi, che pure. È perché appassiona così tanto da far uscire di casa chi di solito resta a vedere una serie in tv e dunque che ci sarà mai là dentro, quali possono essere le ragioni di questo appassionarsi contagioso, di questo desiderio collettivo di “andare a vedere”: quali, se non quella di vedersi, riconoscersi? Si desidera solo ciò che si conosce, del resto, si sa. Quante sono le donne che dipendono da qualcuno per vivere, non tanto e solo persone in condizioni di disagio economico e sociale, anche donne di piccola e media borghesia che restano, sopportano, tollerano l’umiliazione l’invisibilità l’indifferenza il tradimento in cambio del mantenimento. Di uno status, di una casa, di una vita possibile nell’incapacità di pensarne una diversa.
Non serve a niente avere una presidente del Consiglio donna — che pure dentro casa ha i suoi problemi, occhi al cielo e pazienza, appunto, non mi accanirei su questo, succede a tante. Non è un pregio in sé essere donna, ha senso politico — dirigere un Paese, da donna — quando diventa il motore di un cambiamento profondo, culturale ed economico.
Esattamente come non ha senso promettere il bonus asilo per il secondo figlio quando non c’è posto negli asili per il primo, per fare un esempio minore. Fa ridere: l’anno scorso in questo paese si sono dimesse 37mila donne appena diventate madri. Hanno lasciato il lavoro perché guadagnano meno degli uomini, perché non conviene star fuori casa se tutto quello che prendi lo devi dare a chi sta a casa al posto tuo. Le pensioni delle donne, in Italia, sono del 36 per cento inferiori a quelle degli uomini. Quasi mezzo milione di donne hanno perso o rinunciato al lavoro, dopo la pandemia. È un arretramento culturale ed economico di importanza epocale, un testacoda della storia. Una macchina indietro di decenni. Ecco perché C’è ancora domani ci parla di noi. Perché quella donna (nostra nonna, nostra madre) che ha il vizio di rispondere al marito, che lavora dentro e fuori casa mentre lui si prende i tempi che ritiene per fare quel che vuole, che sopporta le botte (o le umiliazioni, la denigrazione di fronte ai figli che la guardano a occhi sbarrati) è una scena di ogni giorno, ancora oggi, nel presente. Ci sono, in sala, uomini che raccontano a fine proiezione: siamo stati bambini mandati in camera d’imperio (si mandavano i figli in camera loro prima di urlare e alzare le mani, ricordate? Oggi meno. Oggi si picchia e talvolta si uccide anche davanti). Ci sono, in sala, donne che quando i loro fratelli prendevano la paghetta si sentivano dire tu vai a sparecchiare, e che oggi non racconterebbero mai in pubblico che è ancora così — non esattamente, magari, non sarà la paghetta ma gli orari di rientro, le regole domestiche per figli maschi e le femmine, il modo in cui li guardi e li tratti. Interpretato magistralmente da un gruppo di attori dell’età di mezzo (Mastandrea, Fanelli, Marchioni, Colangeli) il film vede come protagonista anche la giovane Romana Maggiora Vergano, la figlia di Paola Cortellesi nella storia: il suo sguardo sulla madre è quello che restituisce alla donna il senso di sé. Ha detto qualche giorno fa, la giovane attrice: non sapevo che le ragazze di quella generazione non avessero il diritto di andare a scuola, sono rimasta scioccata. È così: le ragazze non potevano andare a scuola solo qualche decennio fa. I diritti sono fragili, se disabitati svaniscono e poi ci vogliono rivoluzioni, dolore e fatica per riaverli. È una storia, questa così tanto amata, che racconta del tempo in cui le donne ebbero il diritto di voto. Era il “primo femminismo”, si dice oggi — quasi ottant’anni dopo — quello che pretendeva uguaglianza e dunque uguali diritti: votare, per esempio. Oggi siamo al secondo o forse terzo femminismo, non sono brava a tenere i conti: il femminismo intersezionale che contesta (chiedo scusa per l’imprecisa sintesi) le assimilazioni di ogni posizione minoritaria e discriminata al modello d’origine: l’uomo bianco, etero adulto, cisgender. In spagnolo BBVA, come la banca: bianco, borghese, varòn, adulto. C’è l’uno e c’è l’altro femminismo, per fortuna, c’è una porzione di società che rivendica diritti che qualcuno può considerare minoritari e sofisticati ma che sono essenziali, invece, all’avanzamento della battaglia per il rispetto di ogni libertà. E c’è ancora, tantissimo, ovunque la necessità di rimarcare quel che pretendeva e non ha finito di ottenere il femminismo delle origini. Nella società, tutto attorno a noi, moltitudini di donne sono ferme e prigioniere nel punto in cui non devi rispondere, non devi mettere la gonna corta, non devi bere né fare troppo tardi la sera se no quel che ti succede è colpa tua. Non devi lamentarti, perché loro comandano e così va il mondo, ci devi stare. La violenza (di genere, domestica), quando non si chiamava così, era l’ordine naturale delle cose. Non si discuteva. Lo è ancora, in tantissimi casi, purtroppo. Per questo, credo, il film di Paola Cortellesi ci riguarda così da vicino tutti quanti, chissà cosa sarebbe successo se lo avessimo candidato agli Oscar. “Ti casca tutto di mano, nemmeno la serva sai fare”. Nemmeno la lavastoviglie sai caricare. Di cosa parliamo lo sa bene ciascuno. Premier donna o no, siamo lì.
Enzo Di Fazio
25 Novembre 2023 at 11:30
L’altra sera siamo andati a vedere il film, io e mia moglie. Il fatto che Sandro non avesse raccontato la fine un po’ ci incuriosiva, ha fatto sì che non chiedessimo molte informazioni sulla trama ed è stato, per certi versi, un ulteriore motivo che ci ha spinti ad andare a cinema.
A posteriori mi accorgo che è stato già detto tanto e quasi tutto, con recensioni, commenti e articoli.
Il film ci è piaciuto e, anche se con qualche esagerazione in alcuni passaggi, rende bene il ruolo che aveva la donna in quel periodo storico (ma che ha ancora in molte realtà dell’Italia di oggi). Essenzialmente madre e sposa, destinata a stare zitta e ad obbedire. Una brava moglie, una brava donna di casa – dice il suocero – ma parla troppo
Non ho avuto molte difficoltà a capire che la rivoluzione che interiormente stava elaborando Delia non era la fuga verso l’amore di gioventù (destinato a rimanere sogno nel momento in cui andava a scontrarsi con il forte senso di responsabilità verso la famiglia, verso soprattutto la figlia in cui vedeva sé stessa ed il proprio riscatto), ma doveva essere qualcos’altro
E quel qualcos’altro l’ho capito quando Delia si è guadagnato un pizzico di “emancipazione” fumando una sigaretta che le offre l’amica verdumaia
Il pensiero è andato immediatamente ad una foto del 1949 in cui c’erano mia madre, alcune sorelle ed una zia, tutte con una sigaretta in bocca. Una foto che avevo commentato, sul sito, partendo dall’epoca in cui era stata scattata (fine della prima guerra mondiale e decisione storica di dare il voto alle donne), che è proprio quella in cui si dipana la storia di Delia. L’articolo, all’interno della rubrica Una foto racconta, è Prove di emancipazione (leggi qui, per chi volesse farlo)