di Giuseppe Mazzella di Rurillo
.
Leggo oggi un reportage scritto personalmente dal direttore de “la Repubblica” Maurizio Molinari da Ramallah (*) che è la “capitale” dell’autorità palestinese in Cisgiordania. Contiene una intervista al prof. Uri Davis, ebreo britannico ma aderente all’OLP tanto da essere consigliere del presidente attuale della autorità palestinese, il vecchio Abu Mazen.
Lo “storico” Davis propone per la pace in Palestina uno stato federale sul tipo degli Stati Uniti d’America.
É la prima volta che leggo una proposta del genere. É una mia convinzione da molti anni e non ho osato mai di proporre.
Non so se Molinari e Davis hanno letto ieri il Corriere della Sera. La pagina del Corriere e l’elogio della stampa scritta/pag. 10 del Corriere della Sera di oggi – il dataroom di Milena Gabanelli e Maria Serena Natale, titolo: “Quei 75 anni di conflitto: chi ha fatto fallire la pace”.
Il racconto minuzioso di 75 anni del conflitto in Palestina. Quattro carte geografiche pubblicate con chiarissimi dettagli. 1947-1967; l’ultima fase a Gaza oggi in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Una pagina da incorniciare. E aggiungo, da porre in eterna evidenza.
É il racconto puntuale di 75 anni. Lo storico occidentale Davis nel formulare la sua generica proposta non tiene conto della concezione della democrazia politica nata nel secolo XVIII in gran Bretagna ed estesa a modello in tutto il mondo dove si è sviluppato il “pensiero libero” al quale Jefferson si ispirò nel 1776 per la Dichiarazione di Indipendenza americana che divenne da allora il testo fondamentale per la democrazia politica.
Il punto è se la “cultura araba” si sia convertita al pensiero libero che é laico per definizione. Questo non è avvenuto in 75 anni. Se gli arabi lo avessero accettato nel 1947, oggi racconteremmo una storia di convivenza civile come raccontiamo le vicende della Svizzera dal 1815.
In Palestina l’unica soluzione – ma è vista dall’occhio europeo – é la “Confederazione tra due popoli” come lo è la Svizzera fra quattro popoli. Non saranno praticabili due stati. Non avranno possibilità di sviluppo economico e di sussistenza sociale. Non avranno continuità territoriale. Materialmente non possono sopravvivere. Se il mondo libero avesse un peso dovrebbe far capire ai due popoli che non hanno alternative per la pace se non fanno pace. Se non estirpano l’odio dai loro petti.
Immagine dall’articolo di M. Molinari su la Repubblica del 26 ott. 2023 (citato da G. Mazzella)
(*) – “Né con lo Stato ebraico né con Hamas” La versione di Ramallah
Il reportage di Maurizio Molinari
Uri Davis, vecchio amico di Arafat e ora consigliere di Abu Mazen, riflette sui piani dell’Autorità palestinese: tornare al governo a Gaza e poi convivere con Israele in una federazione: “Come gli Usa”
La Redazione propone uno stralcio dalla "Posta di Repubblica"
27 Ottobre 2023 at 06:52
“Posta e risposta” di Francesco Merlo, da la Repubblica del 24 ottobre 2023
Il giornalismo è “andare a vedere”. Le manifestazioni contro Israele
Caro Merlo, ho molto apprezzato il reportage del Direttore del suo giornale, Maurizio Molinari, che da esperto inviato è ritornato in Israele per raccontarci la realtà, il dolore e le paure a seguito dell’attacco dei terroristi di Hamas.
Apprezzo anche il racconto che giornalmente ci propone Sami al-Ajrami su quanto accade nella striscia di Gaza. Sono testimonianze toccanti, vissute direttamente, senza alcuna mediazione di luogo e di tempo. Invece, altri giornali e altri giornalisti raccontano la storia di Israele o scrivono editoriali, perché sono Direttori — noblessse oblige — e non perché sono esperti, immersi nel comfort delle loro stanze di fatica.
Girano il mondo ma nella carta geografica.
Vito Mangano — Roma
La risposta di Francesco Merlo
Emilio Cecchi e poi Montanelli, ma anche Alberto Cavallari e Sciascia, Bocca e Pansa si auguravano che “il giornalismo dell’andare a vedere”, — la testimonianza diretta — fosse vestito e alimentato dal giornalismo dello “stare a sedere”, vale a dire dallo studio.
Adesso, la situazione si è rovesciata. In Italia sono pochi, e diventano sempre meno, i giornalisti che “vanno a vedere” e sono invece molti, e diventano sempre di più, i giornalisti che “stanno a sedere”. Insomma, oggi il giornalista italiano è un uomo che sta fermo. È una paradossale deriva per una professione che rimane fondata sull’andare a vedere.