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La Società della Neve racconta una storia realmente accaduta: il 13 ottobre 1972 un aereo della Forza Aerea Uruguayana con a bordo, tra gli altri, una squadra di rugby, diretto da Montevideo a Santiago del Cile, si schianta sulle Ande. Scampano all’incidente ventinove delle quarantacinque persone a bordo. 16 di loro, dopo 72 giorni intrappolati in uno dei luoghi più ostili e inaccessibili del pianeta, riusciranno a tornare.
Il film chiuderà la 80ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e, in attesa della giornata di chiusura, un piccolo drappello appare e scompare nelle stanze vellutate dell’Hotel Excelsior dove, dietro bianche tende mosse dal vento, risplende un mare azzurrissimo pieno di scaglie di luce.
Ecco apparire per primi tre dei magnifici giovani attori, a noi inizialmente sconosciuti: Enzo Vogrincic e Matías Recalt, uruguayani e Agustín Pardella argentino. Emana da loro una corrente di simpatia, una forza ed una dolcezza nello stupore, che pure cercano di nascondere, per il posto magnifico che li accoglie. Sono reduci da 140 giorni di riprese nella neve a 3500 metri di altezza e sembrano portare ancora con sé: negli sguardi lucenti, nel sorriso malinconico di Enzo, nella giovinezza energica di Agustín e Matías tutto l’ardore, il coraggio, la generosità dei ragazzi che hanno interpretato sullo schermo. Il silenzio e la maestosità della montagna, dove si è consumata la tragedia, sembrano ammantarli ancora di un’aurea di cui è difficile disfarsi.
Per avere la parte hanno affrontato un casting lunghissimo: prima incontri su zoom con il regista Juan Antonio Bayona dalla Spagna.
J (pronunciato Jota), come tutti lo chiamano, sa sempre ciò che vuole. E sul set è infaticabile. Jota voleva cogliere l’essenza profonda, esistenziale e filosofica di una vicenda i cui fatti sono ben noti a tutti, soprattutto nel mondo di lingua ispana. Per farlo era necessaria la massima aderenza alla realtà. Quindi attori giovani, possibilmente dell’Uruguay, che avessero esperienza e una somiglianza fisica, ma anche, caratteriale con le persone di cui avrebbero raccontato le storie.
Era importante trovare gli attori giusti e questi meravigliosi ragazzi lo sono.
Alla selezione su Zoom sono seguite le audizioni in presenza in Uruguay con lunghi periodi di quarantena dovuti al Covid. Poi due mesi di prove e, per alcuni di loro, un periodo di convivenza con i sopravvissuti all’incidente aereo e le loro famiglie. Il lunghissimo percorso è servito ad affiatarli, a creare uno spirito di squadra, di società appunto. Affiatamento e solidarietà sono stati un aiuto prezioso durante i 140 giorni di riprese, dove hanno vissuto sulla loro pelle il freddo, la fame, la prostrazione.
Erano ragazzi giovanissimi quelli che sono partiti nel 1972, in Uruguay non ci sono montagne, alcuni di loro non avevano mai visto la neve, e si sono ritrovati, non tutti: alcuni compagni risucchiati fuori dall’aereo al momento dell’impatto, a 4000 metri di altezza, feriti, con poco cibo e pochi indumenti. In condizioni al limite dove gli esseri umani finiscono spesso per dare il peggio di sé, per scannarsi e odiarsi, loro non hanno mai perso lo spirito di squadra, si sono aiutati l’uno l’altro e, spogliati e privati di tutto, hanno dato prova della massima generosità.
Agli incontri con la stampa un filo impalpabile unisce i giovani attori. Sono consapevoli che alcune delle persone che hanno portato sullo schermo sono lì con loro: invitati alloggiano in albergo, anche se noi non avremo occasione di incontrarli. E vogliono essere all’altezza di tanta responsabilità.
“È un grande orgoglio essere qui a raccontare la storia che loro hanno vissuto” – dice Enzo – “Tutto il tempo, durante le riprese, mi chiedevo cosa avrei fatto io al posto loro. Era come un’ossessione. Il momento più difficile è stato quello della valanga”.
Quando i sopravvissuti, rifugiati da giorni nel pezzo di abitacolo rimasto integro, vengono investiti da una valanga che uccide molti di loro. “Lavorare sempre zuppi, con i piedi congelati, il viso ricoperto di neve, è stato duro”.
Sorride Enzo. Nel film lui è Numa: ragazzo bellissimo, alto e scuro con lo sguardo profondissimo. Numa è la voce narrante e la storia si dipana attraverso il suo racconto. Non è il protagonista, perché il racconto è corale e non possono esserci protagonisti, ma Jota ha trovato la soluzione della voce narrante per portare lo spettatore nell’aereo. Numa dà prova di enorme calore e generosità, ha una fede religiosa profonda, compirà 25 anni sulle Ande ed è colui che si rifiuterà a lungo di fare ciò che gli altri, ad un certo punto, dovranno cominciare a fare. Mangiare.
Nessuno nelle interviste aggiungerà un complemento oggetto al verbo mangiare. Non serve. Mangiare. Vuol dire alimentarsi grazie ai corpi sepolti nella neve di chi non ce l’ha fatta.
Attraverso il personaggio di Numa che all’inizio si rifiuta e alla fine si alimenterà, attraverso Numa e il suo perdono, anche noi entriamo nell’ abitacolo dell’aereo, ci aggiriamo nei dintorni delle lamiere durante le ore di sole e perdoniamo.
Enzo, capelli e occhi scuri che si accendono di un sorriso dolente, sembra essersi impregnato della maestosità di un paesaggio che trascende l’umano, quasi portasse in sé, come il suo personaggio, un senso più profondo e ampio dell’esistenza umana, che solo rare volte è dato intuire.
È la soluzione più raffinata che potesse escogitare Jota il regista che ora, mentre i ragazzi vengono chiamati altrove, è lì seduto ad un tavolo: il volto chino, concentrato nella formulazione precisa delle sue risposte. Ci stupiamo di quanto sia piccolo e minuto. Il modo in cui i ragazzi ne parlavano ci aveva fatto pensare ad un omone. Un gigante che sorvola le montagne e le addomestica. Juan Antonio Bayona, invece, è piccolo e scuro e ha movenze a metà tra Woody Allen e Joe Pesci e l’intelligenza e il vigore di entrambi.
Sulla vicenda dell’aereo caduto nelle Ande hanno girato film e scritto libri. Ma è stato il libro di Pablo Vierci, La sociedad de la nieve, a colpirlo. Pablo Vierci, che si è affacciato un istante nella stanza e subito è scomparso, è giornalista, scrittore e compagno di scuola dei ragazzi della squadra di rugby. Dopo tanti anni, è tornato con i sopravvissuti ed i loro figli sulla montagna e ha raccolto i loro ricordi.
“Ho scoperto il libro di Pablo” sta dicendo Jota “mentre giravo The Impossible (che narra dello tsunami del 2004) e ho comprato subito i diritti. Ho sentito che c’era qualcosa di irrisolto: un senso di colpa latente che aveva bisogno di essere raccontato e riparato. La stampa non ha mai parlato di chi non è tornato. Ma sempre e solo degli eroi che hanno fatto ritorno a casa e che, in realtà, non si sentivano affatto degli eroi.
Ho capito che occorreva cambiare il punto di vista: i fatti cambiano di significato quando cambia la prospettiva. Non più quella di chi mangia, ma di coloro che offrono se stessi perché gli altri sopravvivano.
“Sono stati tutti eroi. Occorreva trovare l’equilibrio e fare pace con il passato” – spiega veloce Bayona.
“Sappiate che avete il permesso di usare il mio corpo” – dichiarano, rivolti ai compagni, coloro che, dopo giorni di assoluta privazione, nel gelo dell’abitacolo, sentono venire meno le forze e avvicinarsi la morte.
“È una fame terribile, diversa” ha spiegato Enzo Vogrincic poco fa “dopo tanti giorni senza mangiare il corpo comincia a nutrirsi di se stesso. L’urina si fa nera. È una fame terribile, come terribile è il pensiero di nutrirsi del corpo dei tuoi amici, dell’amico a cui hai parlato fino a poco fa”.
“Venerdì scorso abbiamo fatto una proiezione in Uruguay” spiega Jota “con le famiglie dei sopravvissuti e le famiglie di chi non è tornato. Non si erano mai riconciliati. Li abbiamo avvisati che sarebbe stato un film duro, che cerca di aderire il più possibile alla realtà. Il grande regalo è stato vedere le famiglie, che non si parlavano da 50 anni, abbracciarsi gli uni con gli altri. C’è stata una riparazione. Eroi tutti e, per primi, coloro che si sono offerti affinché gli altri potessero tornare. Solo così è possibile capire cosa è successo sulla montagna”.
Le risposte di Jota sono dirette e stringate. Uomo veloce, sbrigativo, senza vanterie.
“Perché lei sceglie sempre situazioni estreme nei suoi film?” gli chiedono “Dove le persone vengono spinte al loro limite: lo tsunami. Lo schianto dell’aereo?”
“Non lo so. Deve chiederlo al mio psicologo. Diciamo che non mi interessano i film d’azione per il gusto dell’azione. Mi interessa la grande epica che arriva a mettere a nudo l’intimità dell’uomo. Il racconto corale che arriva al cuore dell’individuo. Era questa la grande sfida. The impossible abbraccia un arco di tempo di 70 ore, troppo poche per andare a fondo in certi temi. 72 giorni sono un tempo molto più lungo. Persone nelle condizioni più estreme, si sono prese cura le une delle altre. Si sono sempre aiutati. E’ uno specchio per noi: se vogliamo costruire una società di veri esseri umani. Ci dice cosa è importante e cosa non lo è. E il molto che l’uomo può fare.
Personalmente ancora non ho capito come siano riusciti, dopo aver vissuto due mesi in quelle condizioni, a trovare la forza di camminare per 11 giorni e attraversare le Ande”.
Scuote la testa, gli occhi guardano attorno alla ricerca dei due attori che interpretano i ruoli di Nando e Canessa: Matías Recalt e Agustín Pardella. Vediamo Nando e Canessa sul campo di gioco, nelle sequenze iniziali del film, sono loro che hanno le gambe più forti: solo loro possono farcela a partire in cerca di aiuto, quando le ricerche sono state interrotte: il tempo limite di ricerca sulle Ande è di 10 giorni. Nessuno è mai sopravvissuto oltre. Nessuno è mai stato ritrovato vivo. Ma loro vogliono vivere e per vivere devono farcela da soli.
Nando e Canessa: statura contenuta, volti lentigginosi, luce ed energia della giovinezza nei loro occhi chiari. La loro determinazione nell’affrontare la montagna, per salvare la squadra, è quasi dolorosa. Di quale grandezza è capace l’essere umano, di quale generosità, così spesso negata e dimenticata. La maestosità della montagna diventa la maestosità dell’amicizia, il respiro dei polmoni dilatati. Un balsamo contro l’individualismo dei nostri tempi. Forse è questa la risposta alla domanda con cui si apre il film, e che il libro di Vierci pone: “Che senso ha avuto la nostra storia?”.
“Volevo dare allo spettatore il contesto” – riprende Jota – “Perché senta il freddo, la fame, l’immensa solitudine, il panico, il vento incredibile. Lo chiamano il treno. Dicono: il treno sta arrivando. Solo così lo spettatore può cogliere le implicazioni emotive, filosofiche, simboliche. Sono caduti in un luogo dove la vita non è possibile e hanno dovuto reinventarsi tutto. Adattarsi alla montagna. Al silenzio assoluto. All’urlo di qualcuno che chiede aiuto e all’istante dopo in cui cala il silenzio spettrale. Per capire ho trascorso del tempo en El Valle de las Lágrimas, dove l’aereo è precipitato, un posto terribile, ho perso la nozione del tempo, soffrivo del mal d’altura. Abbiamo girato lì qualche scena, il resto in Spagna nella Sierra Nevada. È stato importante che la macchina da presa potesse registrare i cambiamenti nei ragazzi a mano a mano che trascorrevano i 140 giorni. La perdita di peso, la pelle che cambia, la barba. È stato un viaggio estenuante anche per loro, sebbene non come quello dei loro personaggi. C’era uno staff medico, dottori, nutrizionisti, personal trainers.”
Quando si complimentano con lui per l’enorme perizia tecnica, ad esempio nell’incredibile, fortissima scena dello schianto, Jota si schermisce. La tecnica deve essere sempre asservita all’emozione “First is the emotion” – come dice Kubrick.
Juan Antonio Bayona ha lavorato con Spielberg, ha lavorato ad Hollywood e risolve con grande pragmatismo la questione sul cinema che predilige.
“Hollywood serve ad imparare, ti aiuta a sperimentare, sono stato fortunato: posso tenere i piedi in due staffe, ma i progetti che più mi interessano sono quelli personali”.
Questo era un suo progetto personale, per cui non era facile trovare fondi: in lingua spagnola e con attori sconosciuti. Il libro di Vierci è stato lo spunto, ma ha voluto incontrare di persona i superstiti e le famiglie di chi non è tornato e avere materiale di prima mano: 100 ore di interviste registrate. Il contatto personale era importante se la storia doveva servire davvero a sanare la parte irrisolta: le ferite più profonde degli esseri umani: quelle dolorose e lunghe da guarire.
Ed ecco Pablo Vierci che appare per pochi istanti, trafelato, uomo degli anni 70, parla inglese e spagnolo con una foga incontenibile come se le più di mille pagine del suo libro, nella versione iniziale, non gli fossero bastate a capire.
“Erano stati i miei compagni di classe. Ho vissuto tutta l’angoscia dei giorni dell’attesa. Dopo 10 giorni il Governo ha interrotto le ricerche. Ma io lo sentivo: ce lo dicevamo. “Quei ragazzi laggiù stanno facendo qualcosa”. Sentivo che i miei amici erano vivi. Le famiglie andavano a cercarli con aerei privati, hanno fatto di tutto. Nando è venuto da me quando è tornato, io avevo 22 anni, mi ha chiesto di aiutarlo a scrivere un libro su quello che era successo. E poi anche gli altri, sono tornato con loro sulla montagna. Volevano capire. Il momento più tragico è stato quando è uscita la lista dei nomi dei sopravvissuti. E il dolore per i nomi che sulla lista non c’erano.”
Ed eccoli tutti lì ora: pronti per la cerimonia di chiusura.
Juan Antonio Bayona ha detto “È stato affascinante vedere la reazione delle famiglie in Uruguay. Sentire sulla pelle il loro vissuto. In Uruguay le persone sono molto amichevoli. A loro piace la buona vita. È stato bello.”
Sarà bello di sicuro anche stanotte: gli spettatori in Sala Grande coglieranno la domanda negli occhi neri e nel sorriso malinconico di Numa, nel fuoco degli occhi di Nando e Canessa.
“Che senso ha avuto la nostra storia?” – chiedono quegli occhi.
E ognuno degli spettatori cercherà una risposta nel fondo del proprio cuore che farà, forse, di lui domani una persona migliore.
Note biografiche sul regista (sintetizzate da Wikipedia a cura della redazione)
Juan Antonio García Bayona, a volte accreditato come J. A. Bayona (Barcellona, 1975), è un regista spagnolo. Ha diretto videoclip e spot pubblicitari, serie tv e il film horror spagnolo The Orphanage. Successivamente è diventato noto per avere diretto il suo secondo film internazionale, dopo The Impossible (2012), ovvero Jurassic World – Il regno distrutto (2018). Nel 2016 aveva girato Sette minuti dopo la mezzanotte (A Monster Calls).
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Appendice del 15 settembre (cfr. Commento di Sandro Russo)
Jean Louis Théodore Géricault – La Balsa de la Medusa (1818-19) – Museo del Louvre
Sandro Russo
15 Settembre 2023 at 21:13
Il tabù di non mangiar la carne di altri uomini ha attraversato le epoche tanto che gli episodi in cui il tabù è stato infranto sono passati alla storia. Uno di vasta eco, anche grazie a un quadro famoso di Delacroix – La zattera di Medusa (1818-19) al Louvre [l’immagine relativa allegata all’articolo di base]. Ne dà un’interpretazione letteraria notevole, ancorché granguignolesca Baricco in “Oceano Mare” (1993; Feltrinelli). […a me Baricco piace! Embè?]
Niente di nuovo, allora?
Essì, invece… perché lungi dagli aspetti più truculenti – sulla zattera i più deboli venivano uccisi per essere poi mangiati -, nella storia del film (ma sembra anche nella realtà) l’antropofagia ha un aspetto etico. Di dono di sé: “Sappiate che avete il permesso di usare il mio corpo” – dichiarano, rivolti ai compagni, coloro che, dopo giorni di assoluta privazione, nel gelo dell’abitacolo, sentono venire meno le forze e avvicinarsi la morte.
Eppure l’uomo nei secoli migliora! Come no?