segnalato dalla Redazione, da la Repubblica
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Questa serie esplora i concetti cruciali della teoria e della pratica politica, anche i più controversi e ambigui
A SCUOLA DI POLITICA.2
L’identità esiste solo se è plurale
di Roberto Esposito – Da la Repubblica del 30 settembre 2023
C’è qualcosa di peculiare nell’essere italiani. Ma non si tratta di una realtà biologica: è un insieme mobile, storico, di pluralità e differenze
Da qualche tempo i cultori dell’identità si oppongono sempre più rumorosamente ai seguaci della differenza. Basta con la fluidità tra gusti, colori, generi. A stabilire i confini di una nazione o di una persona è la sua identità, non un conglomerato di differenze. Eppure non occorre aver letto Hegel per accorgersi che si tratta di due termini inseparabili. Ogni identità si nomina per differenza dalle altre e ogni differenza costituisce un’identità rispetto a ciò che non è. Se non si coglie questa verità elementare è difficile fare passi avanti in una discussione sempre più illogica. Che non riguarda solo la teoria. Si pensi alle crescenti difficoltà delle società multiculturali, sempre più divise in ghetti identitari contrapposti. Se l’universalismo alla francese non funziona, perché vuole omologare situazioni troppo diverse, neanche il multiculturalismo anglosassone se la passa bene.
L’unica via per sciogliere questo rompicapo sta nell’accettare che la società è fatta insieme di identità e differenze, non contrapposte, ma articolate tra loro. Qualsiasi carta d’identità comprende indici – nome, professione, nazionalità – necessariamente diversi.
Ciò vale anche, ancora di più, per gli aggregati politici. La loro connotazione non fa che variare, arricchendosi di sempre nuovi elementi, provenienti da altrove. Senza queste iniezioni di differenza, si impoverirebbero e appassirebbero. Non solo sul piano demografico, ma anche socioculturale. Ciò che sembra sfuggire alle nuove ideologie identitarie che si affacciano in Europa è che, se non si riconoscono in una cornice comune, gli interessi sovrani diventano tribali. Collidono fra loro, indebolendosi a vicenda. Volendo difendere l’identità, si consegnano alla differenza assoluta del conflitto.
Quanto all’Italia, i due termini sono ancora più intrecciati. È fin troppo evidente che c’è qualcosa di peculiare che caratterizza il nostro Paese. Sul piano della storia, della geografia, della cultura. Perciò schierarsi, senza se e senza ma, Contro l’identità italiana (Einaudi), come fa Christian Raimo, può apparire affrettato, nonostante gli argomenti validi che adopera. Perché mai tanti stranieri amano l’Italia, se non perché ha una sua innegabile specificità? Ma caratterizzare l’identità italiana in termini di etnia, arruolando in essa Dante e Leopardi, due tra i poeti più universali, non porta che a strafalcioni storici e filologici. L’identità non è un dato biologico, uno stampo prefissato, un blocco compatto, ma un costrutto storico in continua variazione. Né i problemi italiani sono tutti riconducibili a un deficit di identità nazionale, come sostiene Ernesto Galli della Loggia ne L’identità italiana (il Mulino). Eppure egli stesso riconosce, in un’analisi ricca di spunti, che l’Italia è costituita da un tessuto straordinario di differenze ambientali, storiche, stilistiche. Segnata da una pronunciatissima presenza di influenze esterne, consentita da una forte permeabilità culturale e ricettività di contenuti eterogenei.
Nulla come l’identità italiana è fatta di differenze – tra terra e male, natura e storia, tradizioni, dialetti, gusti diversi e talora opposti. Forse solo la Spagna, in Europa, ha goduto di tali apporti esterni, greci, arabi, mediterranei.
Se si risale più indietro, al Rinascimento, lo scambio economico, commerciale, intellettuale con paesi non solo europei è stato ancora più marcato. Come annotava Gramsci in maniera problematica, il cosmopolitismo è stato da sempre un tratto caratteristico degli intellettuali italiani, per non parlare della tradizione del viaggio in Italia che ha portato le più vivaci intelligenze europee a saggiare la qualità della differenza italiana. E che dire del policentrismo cittadino, imparagonabile con qualsiasi altro paese europeo?
Che tutto ciò sia stato anche il frutto, e forse la ragione, della tarda unificazione politica, con i problemi istituzionali che ne sono derivati, è innegabile. Ma, a questo punto, in un mondo sempre più interconnesso, tale pluralità storica, artistica, stilistica non va valorizzata come una ricchezza? Non viviamo in una condizione geopolitica che richiede ponti, piuttosto che muri, soprattutto con l’Oriente e il Mediterraneo?
A patto di non pensare il Paese come discendenza di sangue, territorio confinato, memoria selettiva di un passato uniforme – mai esistito in quanto tale, neanche se si ritorna alla Roma imperiale, capace dell’idea di cittadinanza più aperta dell’intero mondo antico.
L’identità non va pensata in termini naturali, e neanche antropologici, ma sempre storici – vale a dire come l’esito, mai definitivo, di un continuo alternarsi di differenze. Prima ancora che all’esterno, l’alterità sta al suo interno – è la sua risorsa più preziosa. Il motore della sua necessaria innovazione. Come scrive François Jullien ne L’identità culturale non esiste (Einaudi), essa non va intesa come uniformità e omologazione, ma come condivisione di differenze. Esse stesse non irrigidite in nuove identità, ma pensate come “scarti” capace di fare emergere, all’interno del reale, un nuovo possibile.
Forse è necessario superare i termini di identità e differenza, con la loro lunga storia ideologica, aprendo un nuovo spazio di pensiero, e anche nuove parole spalancate sul futuro.
Immagine di copertina. Dante Alighieri, opera di Luca Signorelli (Duomo di Orvieto) Da Repubblica
[La serie – A scuola di politica (2) – Continua]
Per la prima puntata, sui totalitarismi: leggi qui