Scrittori

Patrizia Cavalli, il docufilm di Céline Sciamma a Venezia

segnalato da Sandro Russo 

Siamo partiti da uno scritto (di Enrico Palandri), pubblicato sul sito in morte di Patrizia Cavalli, che cominciava con Ponza (leggi qui):
“Patrizia Delizia. Tutte le volte che sono andato da qualche parte con Patrizia Cavalli è sempre stato con un certo senso di eccitazione e felicità, perché Patrizia rendeva tutto meraviglioso intorno a sé. Tanti anni fa abbiamo passato insieme una vacanza estiva a Ponza. Pieni com’eravamo tutti e due di Elsa e Arturo, dell’aria fine e ricca di costellazioni che si disegnava intorno a noi grazie a uno degli incantesimi di cui Elsa Morante era capace, e che ci aveva sfiorato come una polvere magica che non ci avrebbe lasciato più. Ponza è facile, è meravigliosa di suo, e approdare con una barchetta da dei pescatori che ti cucinano qualcosa sulla spiaggia difficilmente eguagliabile nelle esperienze vissute. Ma non è di vissuto che viveva Patrizia. (…)
Perciò abbiamo scelto questo scritto di Chiara Valerio su una presentazione a Venezia.

VENEZIA
Il mondo di Patrizia Cavalli
di Chiara Valerio – Da la Repubblica del 7 settembre 2023

Nelle Giornate degli autori della Mostra del cinema il docufilm di Céline Sciamma e l’ultima intervista rilasciata a Benini e Piccolo raccontano la grande poetessa
Che sia stata in vita capace di attrarre gli altri corpi a sé non c’è dubbio ma questi due lavori confermano che lo è pure in morte

This Is How a child Becomes a Poet di Céline Sciamma è un breve e bellissimo film di una grande regista sulla casa di Patrizia Cavalli, poeta, morta il giorno del solstizio d’estate dell’anno 2022. Data che, a conoscere l’opera di Cavalli, non stupisce essendo una delle sue più belle traduzioni proprio Sogno di una notte di mezza estate (in Shakespeare in scena, Nottetempo, 2016). E non deve stupire perché il mestiere del poeta è l’esattezza. La parola è una e solo quella. E una volta trovata, sta lì, a disposizione sua e nostra.
È Chiara Civello, cantante, che chiede a Sciamma di filmare la casa di Patrizia Cavalli prima che sia scomposta e svuotata. E questo è l’abbrivo, This is How a Question Becomes a Movie.
Ci sarebbero molte cose da dire su come Sciamma ha deciso di rispondere alla richiesta di Civello ma vorrei soffermarmi ancora sull’esattezza.
La casa di Patrizia Cavalli può essere considerata, senza sollevare questioni di filologia, nel novero delle opere di Patrizia Cavalli, perché l’esattezza nella parola è stata esercitata giorno per giorno nelle stanze della casa di Via del Biscione. Nei mobili, nei cuscini, nei colori, nelle opere incerte che coprivano parte dei muri della cucina, nelle tazze tutte diverse, nei regali di amici artisti tra cui Luigi Ontani, Ducrot (Giuseppe e Isabella), Titina Maselli, Nunzio, nelle foto di Patrizia e degli amici (si intravede, a un certo punto, Susan Sontag), nelle tavole imbandite e abbandonate, nei marmetti policromi e i fossili che Cavalli raccoglieva, nei piatti, nelle posate, nei candelabri e nelle stoffe, nelle incerate e nei colori spessi dei pavimenti, nella foto di Kim Novak che è stato tema e destinataria della prima poesia di Cavalli cinquenne, nella luce che filtra in una casa arredata in modo tale da mantenere la proporzione nell’eccesso.
La proporzione nel vuoto è facile, e se non facile, è immaginabile, ma per la proporzione nel pieno, di più, nell’eccesso, che ci vuole? Così, Celine Sciamma riesce in un miracolo, commovente perché non sentimentale, scandito dal ritmo di Kim Novak che batte le mani mentre scende le scale nel film Picnic (1955).
Filmando la fine, la casa nella sua forma ultima mai più modificabile perché Cavalli è morta, Sciamma racconta l’inizio, di Cavalli e oltre Cavalli, di un poeta, le inquadrature sulle stanze durano abbastanza perché gli oggetti diventino percorsi, geometrie e ripetizioni, e dunque gesti, e dunque senso. Il senso è ritmo.
Chiara Civello, porta a compimento, con altri versi che reggano la metrica, una canzone della quale Cavalli aveva scritto le prime due strofe e la melodia. Come ne Le metamorfosi, i corpi mutano in nuove forme.

Le mie poesie non cambieranno il mondo, oltre a essere il titolo della prima raccolta di poesie di Patrizia Cavalli (Einaudi, 1974) è il titolo che Annalena Benini e Francesco Piccolo hanno scelto per il documentario su Patrizia Cavalli. È un documentario in forma di intervista, anzi di interviste, perché a quella di Benini e Piccolo — ultima intervista a Cavalli — se ne intrecciano altre, alcune molto note, altre meno, e letture pubbliche, alcune molto note, altre meno, e da questo caleidoscopio i cui elementi sono tutti e soli Patrizia Cavalli medesima — tranne la breve e bellissima intrusione di Diane Kelder, storica dell’arte statunitense e moglie di Cavalli — nelle varie età che ha abitato, e nelle quali Cavalli è sempre riuscita a somigliarsi, affiora l’immagine di una donna che ha scritto d’amore, parlando d’odio, di quiete componendo versi di fastidi fisiologici, di parole che soccorrono il giudizio, di lacrime per qualcuno o qualcosa conservate per piangere qualcun altro e qualcos’altro, che ha scelto la poesia per pigrizia, e che ha usato le parole per capire il mondo e non per definirsi.
Di definizioni Cavalli non aveva bisogno. Attraverso l’intreccio, le domande, i lievi rimbrotti che Cavalli fa a Piccolo e a Benini e che i due hanno avuto la grazia di lasciare, insieme a sospiri e sorrisi, a beneficio di chi guarda, per sottolineare quanto l’intelligenza e la grazia, l’affetto e l’accoglienza possano essere spinosi, si completa il ritratto di una delle più grandi poetesse — valga qui il femminile sovraesteso che Cavalli, va detto, avrebbe odiato — del Novecento italiano.

Che Patrizia Cavalli, per usare lo stesso esempio che Einstein fa per illustrare la relatività, sia stata in vita un oggetto gravitazionale capace di attrarre gli altri corpi a sé — l’esempio di Einstein è il lenzuolo tenuto ai quattro capi e sul quale viene appoggiata un’arancia, il lenzuolo si avvalla così che gli altri mandarini posti sul lenzuolo rotolano verso l’arancia — non c’era dubbio, dietro tutti gli oggetti che vediamo nel film di Sciamma ci sono persone e gesti, ma che lo sia pure in morte, grazie a questi due lavori presentati nelle Giornate degli autori della Mostra internazionale d’arte cinematografica alla sua ottantesima edizione, è la conferma che, in effetti, la massa è energia, e dunque l’attrazione del corpo di Cavalli sia ora nelle sue parole.

Immagine di copertina: Photo by Paola Agosti / Patrizia Cavalli, 1983
Il logo di Venezia 80 è stato disegnato da Lorenzo Mattotti

I film. This Is How a Child Becomes a Poet è una coproduzione italo francese con regia e sceneggiatura di Céline Sciamma; Le mie poesie non cambieranno il mondo, regia di Francesco Piccolo e Annalena Benini, esce nelle sale il 14 settembre, prodotto e distribuito da Fandango con Rai Documentari

L’articolo su due pagine da la Repubblica in formato .pdf: La Repubblica del 07.09.2023. Cultura. Chiara Valerio. Patrizia Cavalli. Belpoliti

1 Comment

1 Comments

  1. Sandro Russo propone Luca Barbarossa

    26 Settembre 2023 at 06:00

    Seguo sempre i commenti ad articoli che pubblichiamo sul sito. Stavolta ho notato – e propongo ai lettori – questo commento di Luca Barbarossa (cantautore e conduttore radiofonico) pubblicato sul Robinson (la Repubblica) della scorsa domenica

    E Bob Dylan cambiò il mondo (della musica)
    di Luca Barbarossa

    “Le mie poesie non cambieranno il mondo”, Patrizia Cavalli lo sapeva bene e la sua consapevolezza, la sua ironia, unite alla luminosa intelligenza sono parte integrante della sua poetica. È maledettamente vero quello che scrive “La Poeta”, come la chiamava la sua amica Elsa Morante. L’arte influisce sulla realtà? Si direbbe proprio di no visto come vanno le cose.
    Vogliamo contarle le opere che hanno condannato soprusi e ingiustizie? Vogliamo ricordare le volte che cantautori, scrittori, registi, pittori, poeti e musicisti si sono battuti contro gli orrori del mondo? Eppure tutto procede come se niente fosse: guerre, crudeltà, soprusi, fame, povertà, inquinamento. Visto che l’abbiamo citata consiglio di guardare il documentario di Francesco Piccolo e Annalena Benini su Patrizia Cavalli presentato a Venezia.
    Ma qui si parla di canzoni e in questo caso parliamo della madre di tutte. Un menestrello di 20 anni con in testa il meglio del folk americano (Woody Guthrie, Pete Seeger) si aggira per il Village di New York nei primi ’60 con una chitarra e un’armonica. Ha una voce che graffia e una faccia che non si può dimenticare. È un figlio della Beat Generation e non può non aver letto Kerouac e Ginsberg.
    Ha nelle orecchie un vecchio spiritual nero No More Auction Block ma non ha bisogno di copiarlo, l’ispirazione e il talento non sono un problema per lui.
    Il 9 luglio del 1962 entra in studio, si chiama Robert Allen Zimmerman, sarà Bob Dylan sulle copertine dei dischi, e sta per incidere una delle canzoni più significative della storia della musica: Blowin’ in the wind.
    Nulla sarà più come prima, è una ballad dalla quale non si potrà prescindere. Tre strofe impeccabili intervallate da quella risposta che nessuno pare sentire e che pure soffia nel vento. Quante strade dovremo ancora percorrere prima di poterci dire uomini? E quante volte ancora dovremo sentire i cannoni sparare prima di abolirli per sempre?
    I potenti della Terra, i signori della guerra, quelli che sono chiamati a decidere se premere o meno il fatidico bottone conoscono di sicuro i versi potenti di Dylan ma siamo al punto di partenza: le mie poesie non cambieranno il mondo. Forse il mondo no ma almeno le persone, quelle sì.
    Non possiamo dirci gli stessi dopo aver ascoltato Blowin’ in the wind, dopo aver letto Primo Levi, ammirato Guernica, visto Roma città aperta.
    Peccato non averne fatto tesoro.

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