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Domanda: è l’impresa che sorregge l’economia di un Paese o è il lavoro ?
Il quesito è puerile nella sua formulazione, e lo è perché lo scopo è altrettanto puerile: portare chiarezza in una mente che di chiarezza ha tanto bisogno. E che è la mia.
Il lettore può giudicare seria la riflessione ma può anche sorriderne. Ne ha facoltà.
Orbene, l’economia di un Paese poggia sulla capacità dei cittadini di predisporre strutture operative che producano beni e servizi? Oppure è la volontà dei singoli cittadini di operare concretamente all’interno delle possibilità materiali e strutturali per generare la ricchezza necessaria all’economia ?
Le due domande ripropongono il dilemma: impresa o lavoro?
La più banale delle risposte viene subito in risalto: ci vogliono sia l’impresa sia la forza-lavoro. Certo… è logico. Con una precisazione: l’impresa richiede che ci sia un Tale che impianti la struttura produttiva col proprio denaro, e impieghi forza-lavoro nel meccanismo di produzione. L’un fattore ha bisogno dell’altro in modo sinergico.
In una visione ideale la ‘sinergia’ fra i due fattori appare scontata.
Affronto la questione da un altro punto di vista, e domando:
a – l’impresa può funzionare senza la forza-lavoro? Mi sembra ovvio: no;
b – il lavoro può funzionare senza impresa? Altrettanto ovvio: sì.
E questo perché il lavoro può vedersi connaturato ad ogni cittadino, mentre non è così per l’impresa, che ha bisogno di supporti per manifestarsi (e non solo).
Il lavoro, nella nostra Costituzione, è considerato espressione stessa del cittadino. Con esso la persona si realizza, vive, prospera, e dà forma allo Stato.
L’impresa opera ad un livello diverso. Perché si manifesta se sono presenti talune condizioni. Occorre un capitale, un progetto produttivo, un clima sociale collaborativo. L’imprenditore rischia di suo ma si avvale dell’organizzazione statale (sociale, sindacale) per manifestarsi. Per cui il suo profitto deve necessariamente soddisfare il rischio dell’imprenditore, ma deve altresì soddisfare le richiesta dello Stato che ha permesso il suo impianto.
Insomma, quello che voglio dire è che il vanto dell’imprenditore di dare lavoro a tanta gente è fuori luogo giacché è il lavoro di quelli a produrre il suo guadagno. C’è complementarità. E ciò perché la forza-lavoro è inserita in un quadro normativo, sociale, culturale, che lo ha favorito e che lo favorisce.
E allora… come giudicare le posizioni degli imprenditori che, di fronte alla chiusura obbligata (dal mercato) della loro azienda minacciano: ma noi si dà a mangiare a tante famiglie !
Qui si tocca con mano la degenerazione in cui si è caduti. Lasciando la forza-lavoro in totale balìa dell’imprenditore.
Chi l’ha lasciata? Lo Stato. Il quale ha funto e funge da collante fra il cittadino, che nel lavoro deve trovare la sua dimensione di dignità, e l’impresa che invece tende esclusivamente al proprio profitto.
Nessuna impresa può essere impiantata se mancano le condizioni politiche, sociali ed economiche a supporto. In uno Stato democratico. In uno Stato totalitario tutto è permesso. Ma tutto significa a detrimento dei cittadini, anzi, a totale detrimento dei cittadini.
L’intesa cittadino-impresa-Stato è vitale affinché l’economia di un Paese sia salvaguardata e florida. Ove uno dei fattori perde di importanza compare un’anomalia per cui l’impresa si erge a esclusiva tutela dei cittadini (forza-lavoro), ed ottenere così privilegi e agevolazioni improvvide (avviene negli stati totalitari . Oppure si ha che la forza-lavoro (cittadini) pretende di dettar legge sulle scelte imprenditoriali, dirigendosi verso il fallimento (perché l’impresa deve soggiacere all’obbligo richiesta-offerta ).
Lo Stato, è lui che deve mediare, giostrare (con le norme, coi trattati, con le agevolazioni e con i divieti) affinché il mercato sia salubre, la richiesta sostenuta e l’offerta congrua. Lo Stato deve non dominare ma lasciare che la libera iniziativa non travalichi il Bene Comune.
Alla luce di quanto scritto si esamini la richiesta di talune imprese di rallentare il passaggio verso una produzione sostenibile, pena la perdita di occupazione di maestranze. È un assurdo! Perché si fa passare per prioritario l’aspetto economico-affaristico dell’imprenditoria, mentre è esattamente il contrario ciò cui si aspira. E cioè essere consapevoli che oggi urge l’ accettazione del pensiero ecologico sopra ogni altra considerazione.
Ove ci fosse uno Stato vigile si attuerebbero politiche graduali, di formazione professionale, in grado di scongiurare la disoccupazione.
Ma bisogna dare risalto al principio che oggi, nell’attuale condizione di civiltà, è immorale dare priorità al profitto, alla stabilità delle forze politico-sociali in campo a discapito della pienezza dell’umanità. Che richiede un apporto avveduto col consumo delle materie prime, con i rapporti sindacali, con la partecipazione democratica dei cittadini.
La salvaguardia dei posti di lavoro è problema che deve, e sottolineo deve, risolvere lo Stato. Giacché una economia del tutto libera di muoversi produce danni sociali. E lo stesso profitto si ottiene a danno del clima sociale, dello sfruttamento delle risorse, del deterioramento delle procedure democratiche.
Siamo oramai tutti super-collegati. Gli Stati, le società, le economie, le strutture politico-sociali con l’ecosistema planetario.
La chiarezza di questo collegamento viene messo in risalto da tante vicende. Si consideri la guerra. In Ucraina la guerra miete vite umane, ma i suoi disastri sono palesi nei cinque continenti.
Si consideri il flusso dei migranti. Nel Mediterraneo divengono appariscenti i disastri, ma il suo riscontro è planetario.
Si esaminino i sobbalzi meteorologici. Manifestazioni se ne hanno ai Poli come ai Tropici.
È evidente la circolarità dei fenomeni sia fisici, sia sociali, sia politici, sia economici, sia naturali e sia culturali.
La domanda iniziale è stata subissata da argomentazioni collaterali. Si può rispondere con una scrollata di spalle o col sorriso. Ciascuno fa quel che sa e può.
Il rischio di un collasso planetario è reale come altrettanto reale è la nostra capacità di risposta. Consapevole e avveduta. La gioventù dovrebbe impegnarsi sulla riuscita. Sembra che non lo faccia. Ma è proprio vero?