proposto dalla Redazione
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MEDITERRANEA/4
Sicilia la terra dei sensi
di Marino Niola
Da Occidente a Oriente, due filosofie gastronomiche. Ma l’effetto resta sorprendente
Panelle, arancine, pane c’a meusa, sfincioni, sono cibi di strada ma soprattutto autentici paradigmi alimentari Il cuscus incocciato a mano da signore sapienti come sibille che vantano la loro arte con la metrica incantatoria di un “cunto”
L’estate per la Sicilia è il momento della verità. È allora che l’isola, accecata dal sole, inebriata dagli aromi, illanguidita dal caldo si rivela come una terra promessa dei sensi. Fatta di odori e di colori, di sapori e di bagliori che trasfigurano luoghi, corpi e persone in un turbinio sinestetico. Dove cattedrali e palazzi prendono la pastosa malleabilità del marzapane. Mentre i cibi acquistano il plastico sbalzo delle sculture.
Dolci di mandorla, croccanti, torroni, gelati, granite, cremolate, cassate, cannoli sono il controcanto gastronomico di un barocco morbidamente capriccioso. Volute della voluttà. Simmetrie di un gusto che si sublima nella cura estenuata di ogni dettaglio. Ed esplode in una fantasmagoria multisensoriale, dove bello e buono si riflettono in un gioco di specchi.
Come nel bailamme moresco della Pescheria di Catania, dove il giallo aranciato dello zafferano, il marrone bruciato dell’anice, il bianco burro del sesamo, l’ambra dolciastra dell’uvetta, il carminio sanguigno del tonno e lo scarlatto marezzato della carne disegnano labirinti cromatici.
La città etnea è figlia del fuoco. Sospesa tra rive e lave, tra lo Ionio e l’Acheronte. E anche il rapporto con la cucina obbedisce alla stessa emergenza vulcanica. Trionfo del rosso in tutta la gamma dei suoi toni. Quello acceso e contrastato della pasta alla Norma. O quello fulvo e trascolorante degli arancini, che roteano nell’olio ribollente come i dervisci tourneurs di Franco Battiato. Ma anche apoteosi del bianco virginale delle minnuzze (seni) di sant’Agata, dove la dolcezza seducente della ricotta si copre del castissimo candore conventuale della ghiaccia.
Il barocco siciliano non si lascia rinchiudere in un manuale di storia dell’arte. È vivente, epidemico, virale e i siciliani ne sono i portatori sani.
Meandri di senso e arabeschi di cultura rendono egualmente istoriati cibi di strada e dimore nobiliari. Impregnano chiese matrici umide e amniotiche, dove si conservano corpi improbabili di martiri dalla testa di bambini. Ed esplodono in mercati variopinti come quelli di Palermo, dove ogni giorno vanno in scena i fondamenti primi dell’economia. Proprio come nell’Opera dei Pupi vanno in scena i fondamenti primi della storia.
A Ballarò, al Capo, a Borgo Vecchio nella polifonia dei toni, nell’accavallarsi delle frequenze, nel contrasto dei colori e nella vertigine degli odori, appare improvvisamente chiaro perché nelle lingue indoeuropee vi sia un legame di famiglia tra le parole che significano comprare e vendere, nutrire e consumare, gioire e salvare. Perché tutte discendono dalla funzione primaria del mangiare.
Panelle, arancine (a Palermo sono al femminile), pane c’a meusa (milza), sfincioni, sono cibi di strada ma soprattutto paradigmi alimentari, monumenti documenti di una “civilizzazione” che ha camminato spinta dagli appetiti, spronata dai morsi della fame. Perché la riflessione sull’uomo inizia partendo dal suo ventre.
Il che è particolarmente evidente in questa terra dove niente è concreto come l’astratto. Soprattutto se si tratta dell’astratto di pomodoro, vale a dire l’estratto, nome locale del concentrato. Apparentemente un errore popolare. Invece è un lampo della lingua che illumina né più né meno ciò che è scritto nell’etimologia della parola astratto. Che significa qualcosa di staccato, tratto fuori da sé stesso e trasformato in archetipo, in universale, elevato all’ennesima potenza. Infatti, l’astratto purpureo, scuro, compatto e primordiale che si taglia col coltello e si vende a peso nei mercati palermitani, non è semplice pomodoro ma è la pomodorità primigenia.
Effetto di uno slittamento tra poesia, linguaggio e mitologia nato da quella capacità di trasfigurazione che il grande poeta austriaco Rainer Maria Rilke attribuisce alle lingue del Sud. A quella antica immaginazione naturale la cui scintilla continua ad ardere nelle fornaci obliose degli idiomi mediterranei.
In realtà Palermo, fenicia, normanna, sveva, araba, greca e ispanica custodisce gli arcani della cognizione umana sotto stratificazioni di disincanto. Quella siciliana è un’identità plurale, una geologia di culture, una cucina di differenze e di somiglianze. Che intreccia echi delle due sponde del Mediterraneo nel profumo conturbante del cuscus di Marsala, di Trapani, di Favignana. Incocciato a mano da signore sapienti come sibille, che vantano i loro sortilegi gastronomici con la metrica incantatoria di un Cunto.
Ma il vero segreto di queste maestre di deliri aromatici è il finocchietto selvatico, che a Bagheria si vende ancora a mazzetti avvolti nella juta bagnata. No finocchietto, no pasta con le sarde! Ovvero il piatto identitario per eccellenza. Quello che un siciliano, ovunque si trovi, deve mangiare ogni tanto. Per necessità. La stessa necessità per cui è obbligatorio rinnovare la carta d’identità. Lo dice Ferdinando Scianna, il più narratore dei fotografi, che nel libro Ti mangio con gli occhi dedica al cibo dell’isola immagini visionarie.
Anche nella Sicilia orientale la storia è lunga, ma pesa meno. Lontananze greche e aure bizantine l’hanno resa più rarefatta, più leggera. Trasparente come lo smalto azzurrino di Ragusa Ibla, rischiarato dalle lanterne delle stradine snodate intorno al Duomo come un gomitolo di profumi dai sentori avvolgenti e agrodolci, che evocano le caponatine e gli arancini di Montalbano.
Del resto, i cibi cari al commissario gourmet sono indissolubilmente legati agli scenari ragusani. A quelli vertiginosamente scenografici di Scicli. All’odorosa Ispica, posseduta dai languori ammalianti del gelsomino. E a Modica, dove le botteghe delle cioccolaterie storiche inondano di aromi le discese ardite e le risalite che movimentano la città, dandole l’aspetto di una quinta barocca dalla superba verticalità. La carezza vellutata del cacao, il velo trasparente dello zucchero, la fragranza pungente delle mandorle atturrate, quella esaltante dei pistacchi e il picco penetrante delle aranciate (torroni di buccia d’arancia) fanno di Modica uno dei centri del mandala dolciario mediterraneo. E della Sicilia una regione dell’anima, una ferita meridiana dell’essere.
Immagine di copertina (screenshot da la Repubblica). La patrona. “Sant’Agata” al mercato del pesce di Catania Il murale è stato realizzato da TV-Boy (Fabrizio Villa/Getty Images)
[Di Marino Niola – Da la Repubblica del 17 agosto 2023]
Per una presentazione dell’opera, con un video degli Autori, leggi e guarda ui
Per le puntate precedenti: Mediterranea/1. Genova;
Mediterranea/2. Venezia,
Mediterranea/3. Il Salento