segnalato da Sandro Russo, da la Repubblica
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MEDITERRANEA. 2
Quando Venezia profumava di spezie
di Marino Niola – da la Repubblica del
La città deve molto della sua antica fortuna al commercio degli aromi alimentari. E ha anche importato per prima sia il baccalà che il caffè
Se il cibo è un linguaggio, gli ingredienti sono le parole. Ma gli accenti, i punti esclamativi, quelli sospensivi sono le spezie. Che traducono lo stupore in sapore, l’alterità in specialità, l’esotico in erotico. E a portare in Europa questi «odori di Gerusalemme », per dirla con Fabrizio de André, è Venezia che per molti secoli è la regina delle spezie. Per questo non si può parlare del Mediterraneo a tavola senza la Serenissima e i suoi abilissimi mercanti. I primi in Europa a intravvedere in quelle polveri aromatiche tanto amate in Oriente, un business dai margini stratosferici. Nel lungo viaggio verso Occidente, infatti, il costo di cannella, cardamomo e noce moscata cresce in maniera direttamente proporzionale alla distanza percorsa e al tempo impiegato. Così dal porto indonesiano di Ambon, alla riva degli Schiavoni il prezzo aumenta anche di mille volte.
La Repubblica lagunare costruisce la sua fortuna proprio sul monopolio delle spezie, richiestissime in tutta Europa, sia nella farmacopea, sia in cucina. Dove diventano un simbolo di status, un emblema di potere, di ricchezza. E al tempo stesso un indicatore dello stato di salute delle economie delle nazioni.
Si favoleggiava che verso la metà del Quattrocento, la Serenissima acquistasse dal solo porto di Alessandria d’Egitto 2100 tonnellate di pepe all’anno. Una cifra iperbolica, probabilmente esagerata. Tuttavia rende l’idea dell’imponenza di un traffico che andava dall’Indonesia al Mar Nero, dal Kerala a Ceylon, da Damasco a San Giovanni d’Acri, da Tana a Trebisonda.
E che quella delle spezie fosse una vera e propria borsa lo prova l’uso, introdotto sempre nel Quattrocento, di far circolare ogni giorno dei cedolini con i prezzi praticati sul mercato di Rialto. Che allora è la Wall Street del pepe. Il cui commercio all’ingrosso è regolato da norme speciali, come il sistema dell’incanto. Che prevede offerte segrete sussurrate all’orecchio di sensali specializzati, i cosiddetti Messeri del pepe. I quali salgono ogni mattina sulla colonna del bando per annunciare gli arrivi e le quotazioni. Immediatamente i corrieri portano le valutazioni fino a Parigi, Lubecca, Amsterdam, Londra e Vienna. Insomma, il traffico degli odori regola il metabolismo economico, sociale e politico della Repubblica e dell’Europa intera.
“Caro come il pepe” è un un’espressione comune. L’equivalente dell’attuale “caro come l’oro”. E le famiglie nobili si distinguono fra quelle che potevano permettersi di usare i chiodi di garofano, la spezia più costosa, e quelle costrette a rinunciarvi.
In un testo chiave della storia della gastronomia come il De honesta voluptate et valetudine di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, uscito nel 1474 e primo libro di cucina a stampa, l’80% delle ricette contiene spezie. Dai pasticci di cacciagione farciti di anice stellato fino agli arrosti spennellati di curcuma e zenzero. Una traccia di questa passione per i contrasti rimane nelle sarde in saor, il piatto veneziano per eccellenza. Cibo simbolo della festa del Redentore, ed emblema alimentare di una città che è diventata sé stessa andando letteralmente fuori di sé, a cercare identità e possibilità in terre lontane. Con la Serenissima, il Mediterraneo diventa un ponte tra San Marco e l’estremo Oriente. In questo senso il rito millenario dello sposalizio col mare, con l’anello nuziale lanciato dal doge tra le onde, è la riaffermazione della vocazione di una città che, invece della terra, ha coltivato il mare. Ecco perché la cucina veneziana è ancora piena di lontananze, di sincretismi, di esotismi. Nei suoi piatti c’è sempre la traccia dell’altro, una traccia seducente, affascinante, perturbante. Perché mostra che a tavola come altrove l’autoctonia è un mito.
Un esempio concreto è offerto dalla storia del baccalà, il piatto più mediterraneo degli ultimi secoli. Profondamente nordico e al tempo stesso profondamente italiano. Nato nel Baltico e rinato a Venezia. Dove ancora oggi impazza tra campi e campielli. Mantecato come nei cicchetti, o in umido con la polenta.
La fortuna mediterranea del baccalà inizia nel 1432 quando il Capitano da mar Piero Querini fa naufragio alle Isole Lofoten. Dove è colpito dallo spettacolo delle imponenti cascate di pesce steso ad asciugare al vento. Tornato a casa Querini fa intravedere al Doge il business dello stoccafisso. È il primo passo verso quel matrimonio tra l’Italia e il baccalà che avrà la sua consacrazione nel secolo successivo. Quando la Chiesa, durante il Concilio di Trento stabilisce, con il decreto del 4 dicembre 1563, una disciplina rigorosa dei digiuni proclamando giorni di astinenza dalle carni il mercoledì, il venerdì, la Quaresima e tutte le feste comandate.
È l’inizio dell’irresistibile ascesa del merluzzo secco, favorita anche da un testimonial d’eccezione come l’arcivescovo svedese Olaf Mansoon, uno dei padri conciliari. Con singolare tempestività, l’alto prelato scrive un libro sulla sua terra dedicando molte pagine alle lodi del pesce bastone, descritto come il cibo ideale per allietare i giorni di vigilia conciliando così le ragioni dell’anima e quelle del palato. Da allora il baccalà cambia il paesaggio gastronomico italiano portando il sapore del mare anche in montagna.
Oltre a spezie e baccalà, il Belpaese deve a Venezia anche il rito italiano del caffè. Il primo a fiutare l’affare è Giovan Francesco Morosini, ambasciatore veneziano a Costantinopoli, che nel 1585 riferisce al Consiglio dei Dieci di aver visto gli Ottomani «bere pubblicamente un’acqua negra, bollente che si cava d’una semente che chiamano cavée, la quale dicono che ha la virtù di far stare l’uomo svegliato».
I mercanti lagunari sfruttano l’assist e si buttano sul nuovo import. In un baleno l’arabica si afferma come bevanda simbolo della modernità borghese e delle sue virtù, dinamismo, curiosità, velocità. Non a caso Carlo Goldoni fa di un personaggio come Ridolfo, l’operoso padrone de La bottega del caffè ,il simbolo dell’intraprendenza imprenditoriale. Nel 1720 in piazza San Marco, Floriano Francesconi apre il primo caffè italiano. Si chiama il “Caffè della Venezia trionfante”, ma per i veneziani è sempre stato semplicemente Florian. Nelle sue salette decorate ogni anno migliaia di turisti cercano di ritrovare l’aroma di Venezia. Perché il modo migliore per gustarsi una città è assaggiarla.
Immagine di copertina (da la Repubblica). Sulla Laguna. La Venezia del 1338: l’immagine è tratta da un volume pubblicato a Londra a fine Ottocento [Universal History Archive/Universal Images Group/Getty Images]
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