Racconti

L’isola del ricordo

proposto da Sandro Russo

 

Ho letto con interesse crescente questo racconto dello scrittore irlandese che sarà ospite del Festival “Le Conversazioni” a Capri, il prossimo due luglio. È una rievocazione suggestiva, corrispondente al modo di guardare – tra la sorpresa e l’incanto – che possono avere gli scrittori nord-europei a contatto con un’isola mediterranea. Ci ho trovato molte analogie con la Ponza di un tempo (nel racconto si parla degli anni Sessanta).

Il racconto
Non torneremo mai più su quell’isola
di John Banville

La Grecia, il Pireo, l’Egeo scuro come il vino e il meltemi che soffia Un uomo e una donna giovani, alle prese con l’amore e l’estate, affiorano nei ricordi del grande scrittore irlandese
Due millenni si ridussero a un momento, questo momento, su un mare vivido, sotto un sole abbagliante e il futuro senza limiti

Lo rivedo adesso come se tutto fosse successo nell’antica Attica. Era molto paziente, nonostante le sue labbra fossero contratte e il suo piede stesse battendo rapidamente sulle pietre del pontile.
Avevo lasciato il mio passaporto alla reception dell’hotel. Prima di tutto, perché avevano dovuto trattenerlo, mi lamentavo. Pensavano che ci saremmo dati a una fuga di mezzanotte?
È esattamente quello che pensavano sarebbe potuto succedere, disse, in tono avvelenato. Hai mezz’ora per tornare a recuperarlo.
Le chiesi se credeva che i traghetti greci partissero in orario.
Questo sì, rispose, guardandomi male.
Così, schizzai di nuovo in albergo, afferrai il mio passaporto dal proprietario baffuto col ghigno contento – era un hotel molto economico – e ripartii verso il Pireo.
Arrivai senza fiato vicino al molo solo per vedere il traghetto ondeggiare via verso la luce brillante di un pomeriggio autunnale. La poppa era grande come la tournure di una donna vittoriana.
Un vento forte e caldo soffiava dal mare. L’Egeo è scuro come il vino.
Te l’ho detto che sarebbe partito in orario, commentò.
Così, rimanemmo seduti sulle nostre valigie per tutto il lungo pomeriggio e fino alla sera.

L’imbrunire è breve a quelle latitudini, e la notte cala come il sipario di un teatro. Le stelle ci guardavano con fredda indifferenza. Si potevano ancora vedere le stelle, allora – parlo degli anni Sessanta – prima che il cielo fosse inquinato dalle nostre tante luci.
Il battello successivo sarebbe partito a mezzanotte.
Cenammo male in un ristorante su lungomare e ci ubriacammo di ouzo.

Avevamo appena superato il porto quando un temporale si abbatté su di noi come un palazzo che crolla.
Ora, il mare, così calmo nel pomeriggio, si gonfiava intorno a noi, un miscuglio di montagne, nere, dalla punta bianca, in movimento. Guardavo la stella polare, a babordo, slittare su e giù mentre la nostra vecchia bagnarola si tuffava e risaliva. Due settimane dopo un altro traghetto sulla stessa tratta fu colto da un’altra tempesta – quel mare è assassino – il portellone di carico cedette e la nave affondò, con la perdita di molte vite. Quella notte, rannicchiato sul ponte oscillante, fui contento dell’effetto anestetizzante dell’ouzo.
Lei vomitò più volte oltre il parapetto di poppa. Ed era tutta colpa mia e del mio passaporto.

Il porto di Mykonos era affollato come un suk. I residenti uscivano con piccole barche per accogliere ogni traghetto, offrendo camere da affittare, fiaschi di vino da comprare, ninnoli da rimirare, mentre chiedevano insistentemente a gran voce sigarette americane: per gli isolani, tutti i turisti erano americani.
Un tizio magro e brizzolato, con un vestito gessato logoro e un berretto da marinaio, mormorò con noncuranza che aveva una camera da letto libera sul retro della casa che poteva andar bene per noi. Non sembrava importargli molto se la volessimo o no. Il suo nome – come ho fatto a ricordarlo per tutto questo tempo? – era Apostolos Kousathanos. Aveva il portamento di un principe spartano.
Aveva anche una figlia di circa diciassette anni incredibilmente bella. Si sedeva fuori dai gradini della nostra stanza a leggere, e fuggiva quando apparivamo. Voleva essere altrove; voleva il mondo. Non abbiamo mai scambiato una parola. Riesco ancora a vederla, ferma.

A quel tempo l’unico mezzo di trasporto sull’isola era un asino. E, certo, c’era un servizio di autobus. Il pullman era un modello di prima della guerra, bislungo e dipinto di verde. Le strade, se così si potevano chiamare, erano così sassose e crivellate di tombini che ogni finestrino dell’autobus era rotto.
Era già ottobre e soffiava il meltemi. A volte, di sera, ci accorgevamo di essere quasi sordi per il vento che aveva soffiato incessante nelle nostre orecchie tutto il giorno.

Le mattine erano deliziose, l’aria laccata di una foschia salata e il cielo immensamente alto e luminoso: mentre il giorno avanzava, la volta sopra di noi diventava densa come lapislazzuli e la sera assumeva una profonda e intensa sfumatura di viola. Noi dell’umido nord non avevamo mai visto cieli simili.
Facevamo colazione in una taverna sul lungomare. Caffè denso come catrame e panini caldissimi e una specie di marmellata rosa pallido, quasi grigiastra, che non siamo mai riusciti a identificare. Potrebbe essere stato loto, e noi i suoi mangiatori.
Non voglio mai più tornare a casa, mi diceva lei, eppure ho nostalgia.
I suoi capelli erano già stati schiariti dal sole e dal mare, e l’attaccatura del suo naso si stava spelando. Non era mai sembrata così bella. Aveva comprato un paio di sandali con stringhe che si incrociavano su fino al ginocchio. La mia Elena – no, la mia Atena. Persino la figlia del Capitano Kousathanos non poteva competere.

Al porto, i pescatori battevano seduti polpi giganti contro appoggi di pietra, per renderne tenera la carne. Bum, bum-bum, bum. I pellicani planavano, con occhi acuti e becchi pieni, sdegnosi di noi e di tutto il resto.

La taverna di Maria era il nostro posticino serale. Maria e suo marito – che si occupava della griglia fuori dalla porta d’ingresso, con gli occhi annebbiati e lacrimanti dal fumo – erano italiani, e arrivavano ogni estate da Bari per approfittarsi dei turisti. Servivano due piatti: bistecca e patatine, o triglia e patatine.
Il vino era retsina, e sapeva di olio di ricino e paraffina.
La cicciottella Maria si prese cura di noi e ci dava porzioni extra di nascosto dagli altri clienti.

Le giornate erano lunghe, e languidamente tranquille. Nuotavamo da una spiaggia rocciosa di fianco al porto. L’acqua odorava di olio di sentina e pesce marcio. Poi qualcuno – Maria? Il Capitano Kousathanos? – ci disse di un posto sulla costa più lontana dell’isola. Comprammo barrette di cioccolata e uva, e ci incamminammo. Era una camminata lunga e difficile. Il meltemi ci colpiva, il sole accecava. Scambiammo per colpi di fucile il rumore delle melagrane troppo mature che scoppiavano per il caldo.

Ma ecco la sommità della collina, ed ecco Platis Gialos, la spiaggia più bella del mondo. Ci sedemmo sulla sabbia dura della battigia lasciando che le piccole onde si infrangessero sulle nostre caviglie. Il cioccolato era dolce, l’uva sciacquata nell’acqua di mare salata e amara. C’era una sola taverna, dove mangiammo piatti di piccoli pesci fritti che a casa avremmo chiamato bianchetti. Commisi un’atrocità chiedendo un caffè turco. Qui non ci sono turchi, grugnì l’oste, e sbatté sul nostro tavolo due ditali di caffè greco.
Nuotammo, oziammo, parlammo del più e del meno. Giorno dopo giorno, eravamo le uniche persone sulla spiaggia. Il sole sprofondava nel mare così rapidamente che ci pareva di sentirlo sfrigolare.

Un giorno il nostro padrone di casa ci portò con la sua barca da pesca a Delos, l’isola sacra. Mentre ci avvicinavamo, una lunga imbarcazione nera lucida con una vela del colore del sangue secco oscillò obliquamente da dietro un promontorio, e due millenni si ridussero a un momento, questo momento, su un mare vivido, sotto un sole abbagliante, il vento selvaggio nei nostri volti e il futuro senza limiti davanti a noi.
Non ci siamo mai tornati, né lo faremo. È abbastanza esserci stati una volta, quando eravamo giovani. 

[Di John Banville da la Repubblica di domenica 25 giugno – Traduzione di Guia Cortassa]

 

Immagine di copertina (da la Repubblica)
Anni Cinquanta – Un’immagine dell’isola di Delo con le rovine archeologiche e una nave da crociera nella baia

Le due pagine di Repubblica in formato .pdf: La Repubblica. Cultura 25 giugno 2023. Banville

Nota della Redazione (estratto da Wikipedia)
John Banville (Wexford, 1945) è un romanziere e giornalista irlandese. Il suo romanzo La spiegazione dei fatti (1989) è stato candidato per il Booker Prize e ha vinto il premio Guinness Peat Aviation. Il suo diciottesimo romanzo, Il mare, ha vinto il Man Booker Prize nel 2005. Ha scritto cinque romanzi con lo pseudonimo di Benjamin Black

John Banville sarà ospite del Festival Le Conversazioni il 2 luglio a Capri, nella Piazzetta Tragara (ore 19). La rassegna internazionale ideata da Antonio Monda e Davide Azzolini riapre a Villa San Michele ad Anacapri con i primi tre appuntamenti da oggi a martedì: ospiti Massimiliano Virgilio, Igiaba Scego e Vanessa Roghi. Mercoledì 28 a Piazzetta Tragara ci sarà Jovanotti
www.leconversazioni.it

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