Racconti

Tutto l’amore e la morte in un racconto breve

di Sandro Russo

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Una sorpresa e un regalo, questo raccontino che parla d’amore, più che di morte – Er monno grigio – che mi è stato segnalato attraverso un messaggio su whatsapp da un’amica che l’aveva scovato su Facebook; me lo sottoponeva perché “le ricordava qualcosa” che aveva letto o visto… Se potevo aiutarla.
“Qualcosa letto tantissimo tempo fa, uomini grigi e fumo di sigarette… qualcuno che diventava cenere… – così mi ha scritto.
Bell’impresa, perché la gran parte della letteratura e del cinema è di quello che parlano: d’amore e di morte.
Ma per non eludere la domanda, dopo averlo letto – l’ho anche molto apprezzato – le ho risposto, viste le indicazioni che mi aveva fornito, che cercasse di focalizzare tra i film di animazione di Miyazaki [soprattutto “Il castello errante di Howl” (2004): sul sito leggi qui] e La storia infinita, film del 1984 diretto da Wolfgang Petersen dal libro di Michael Ende (le scene del Grande Nulla che avanza).
Tanto è bastato, perché poi è stata lei ad avere l’illuminazione:
– Siii, Momo! Ecco dove l’ho letto! [romanzo sempre di Michael Ende (1973) e il film successivo del 1986 diretto da Johannes Schaaf – informazioni utili si trovano su Wikipedia].
Mi ha anche gratificato:
– Ci sei andato vicinissimo… Grazie, mi hai messo sulla strada giusta! Mi sa che me lo rileggo, il libro ce l’ho.

Così l’ho ricordato anch’io Momo (il film, mentre de La storia infinita avevo incamerato libro e film): la bambina misteriosa dotata della capacità di far star berne gli altri solo ascoltandoli. E appunto nella vicenda compaiono gli Uomini Grigi, sinistri emissari della Cassa di Risparmio del Tempo, che devono continuamente fumare le sigarette fatte con i petali essiccati delle Orefiori, il tempo rubato agli uomini. Senza le loro sigarette essi svaniscono, in un mucchietto di cenere.
Le avventure di Momo, di mastro Hora, della tartaruga Cassiopea e dei loro amici sono una bella favola per adulti.
Una sorpresa anche per me è stata trovare il film tutto intero su Youtube, a questo link:

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Intendiamoci. Non dico che il personaggio del racconto di Antonio Agrestini è ripreso da Momo: è solo che alla mia amica ha richiamato quel particolare ricordo.
Perché è noto che una volta uscite dalla fantasia dell’autore, le storie (e i personaggi) vanno da soli in giro per il mondo e suscitano ricordi e emozioni diversi, tanti quanti sono i loro lettori.

Per dire… a me ha intrigato del raccontino soprattutto l’idea dell’avvicendamento del grigio e del colore, vista in non so quanti film…
Usati in alternanza, nello stesso film, generalmente con il grigio si rappresenta il passato come il (non) colore della nostalgia e del ricordo…
Come fa Scola in C’eravamo tanto amati che a metà circa del film lo vira al colore sul disegno del “madonnaro” al centro della piazza.

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https://fb.watch/lkPHmNumR-/ – (forse quelli che non hanno un account Facebook non potranno vederlo)

A volte in bianco e nero (B/N) sono mostrati brevi frammenti di ricordo, in flash-back; altre volte così è mostrato un sogno, a occhi chiusi o a occhi aperti e con modalità molto varie.
Ho già detto de Il cielo sopra Berlino (Wim Wenders; 1987. Sul sito leggi qui) dove il mondo degli Angeli è rappresentato in sfumature di grigio e il mondo degli Uomini è a colori.

O i tanti film giocati tra la vita e la morte, dove i due mondi si alternano tra B/N e colore…
E tanti, tanti altri esempi, tristi o lieti. Come quando un regista vuol mettere in evidenza un solo particolare, un personaggio… È il caso della bambina dal cappottino rosso, unica macchia di colore in un contesto di morte (in Schindler’s list  di Spielberg; 1993).

O in Tarkovskij in cui la scelta del B/N e del colore non è mai casuale, quando per esempio mostra (a colori) la Zona come l’unico posto dove lo Stalker (1979) si sente di vivere pienamente, a confronto del mondo di fuori mostrato in grigio virato al seppia.

E un’altra suggestione mi ha regalato il raccontino. La scena della rosa che il protagonista (morto) porta all’innamorata (morta anche lei), prima che entrambi riprendano vita e colore grazie all’amore.
A me – non necessariamente è stata pensata così dall’Autore, ribadisco – ha suscitato il ricordo del riconoscimento tra la donna che ha riacquistato la vista e The tramp – Charlot in Luci della città (1931). Lì la scena era giocata tra il senso della vista che prima mancava e poi ritorna e comunque in assenza di parole, tranne quelle che si possono intuire dal movimento delle labbra:
– You? (Sei tu?)
Sempre parliamo più che dei fatti in sé, del modo in cui un sentimento viene messo in scena. Tutto “in togliere”, intensissima, una sequenza che non manca mai di commuovermi.

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Rappresentare la riconoscenza o l’amore…
Rappresentare la morte…
È anche un esorcismo. Nessuno immagina di allontanarla così, ma ci si prova a immaginarla leggera e indolore.
Ed è anche l’ultima associazione che il raccontino mi ha suscitato (…per adesso! Se lo rileggo, chissà!?)

La morte – ci mostra Antonio – è assenza di colore. Ma non potrebbe essere raccontata come assenza di suoni?
Lo fa Camilleri in Maruzza Musumeci per descrivere la morte di Gnazio.

Qualche libro di Camilleri non-Montalbano. Notevoli i tre giocati sul tema della Metamorfosi: Il Casellante, Maruzza Musumeci e Il sonaglio

All’arba del cinco del misi di jugnu dell’anno milli e novicento e quarantatri, Gnazio s’arrisbigliò e sintì che non sintiva nenti. Tutti i rumori che accompagnavano la matutina rapruta dell’occhi non c’erano cchiù. Nenti aciddruzzi che cantavano, nenti vinticeddro ‘n mezzo alle foglie e nenti, soprattutto, rispirata calma e regolari di Maruzza che gli durmiva allato.
Che potiva essiri successo al munno?
Si susì quateloso per non addistrubbari a sò mogliera, scinnì a lento la scala pirchì quella matina non gli riggivano le gamme e gli firriava tanticchia la testa, raprì la porta di casa, niscì fora.
Non si cataminava ’na foglia, un filo d’erba. Tutto fermo, pittato, come quella prima vota che Maruzza era vinuta a Ninfa. Po’ vitti i sò armàla, lo scecco, la mula, le crape, i cunigli, le gaddrine, tutti torno torno all’àrbolo d’aulivo che lo taliavano e parivano finti tanto stavano fermi, senza arriminarisi. Ma come avivano fatto a nesciri fora dalla staddra, dal recinto? E pirchì lo taliavano accussì? Che volivano da lui? Allura, in un attimo, accapì. Ma non si scantò. Non stava capiranno nenti al munno, ma a lui sì. Era vinuta l’ura sò.

Piccato, pinsò, che non ce l’avrebbi fatta ad acchianare novamenti la scala e dari un’urtima vasata a Maruzza, sintiva che le forze gli ammancavano. Arrivò a lento sutta all’aulivo, s’assittò supra alla petra, ghittò la testa narrè per vidiri le foglie d’aulivo e ristò accussì. Po’ l’armàla ritrasero a lento a lento nel recinto e nella staddra. E tornaro macari lo scruscio del vento e il friscari di l’aciddruzzi, ma Gnazio non li potiva cchiù sintiri.

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