di Giuseppe Mazzella
Oggi 20 gennaio 2023 sono cinquant’anni dalla morte di mio padre Gennaro Mazzella (9 gennaio 1916 – 20 gennaio 1973). E’ passata la vita, la mia, che ho vissuto nella luce del suo ricordo e nell’affetto che ha saputo dare non solo ai suoi familiari, ma a chiunque gli si rivolgeva. Mezzo secolo, anni che mi hanno permesso di approfondire e conoscere meglio la sua vita, anche perché l’ho perso che avevo poco più di 22 anni. In tutto questo tempo ho potuto raccogliere altre notizie e attestazioni di stima di quanti l’hanno conosciuto e apprezzato, che mi hanno permesso di arricchire il suo profilo biografico che ho completato e che quest’anno pubblicherò.
Tutto questo mi permette di assolvere non solo ad un mio bisogno filiale di ricordarlo e di tramandarne il ricordo, ma anche di rievocare assieme alla sua vita uno spaccato del nostro mondo isolano del secolo scorso.
Mio padre Gennaro, infatti, è stato senz’altro tra le personalità più vive e interessanti di Ponza del Novecento. Osservatore acuto della realtà, sapeva piegarla alla sua verve istintiva di poeta e di uomo di spettacolo, che ricreava con tutta la sapiente vivacità delle esperienze autentiche. Una vocazione, quella per lo spettacolo e per la poesia, che scoprì quasi casualmente durante il servizio militare, quando ebbe l’opportunità di calcare le tavole del celebre teatro romano “Ambra Iovinelli”, dove conobbe di persona il grande Totò e recitò come spalla a fianco del già celebre comico e attore cinematografico abruzzese Virginio Riento.
Un’esperienza che maturò la sua istintiva passione, dando straordinari frutti al suo suo ritorno a Ponza, alla fine della seconda guerra mondiale, quando organizzò un’entusiastica compagnia teatrale che galvanizzò gli isolani, regalando loro momenti di spensieratezza in anni in cui si era alle prese con tante difficoltà non solo economiche.
Erano tempi in cui Ponza non viveva ancora di turismo e la stessa pesca, che costituiva la principale occupazione di allora, permetteva a malapena la sopravvivenza. Proprio per loro creò due cooperative di consumo, una delle quali denominata L’Aragosta, con ben 400 soci, che ebbero così modo di accedere alle agevolazioni previste dalla legge per l’acquisto di attrezzi e combustibile, e che permise loro in pochi anni di sviluppare una delle più agguerrite e apprezzate flotte da pesca del Tirreno.
Gran parte della sua vita di adulto si svolse a Le Forna, dove dirigeva il locale ufficio postale. Da quell’osservatorio privilegiato aveva quotidianamente rapporti con quasi tutta la popolazione della frazione, da cui traeva ispirazione per le sue composizioni che, dapprima prevalentemente ironiche e giocose, si trasformarono presto in rappresentazioni veristiche e piene di umanità degli abitanti con le loro caratteristiche individuali, contrassegnate dal soprannome che nella cifra identificativa valeva più del nome di battesimo, sottolineandone le peculiarità caratteriali.
Contemporaneamente prese coscienza della bellezza delle nostre isole, non solo paesaggistica ma quale patrimonio di memorie e di costumi che ancora informavano il tessuto sociale. Le sue composizioni, che lui definiva riduttivamente “macchiette”, le recitava non solo nelle rappresentazioni teatrali, assieme ai suoi racconti vivaci che esilaravano il pubblico, ma in ogni occasione lieta, come i pranzi di matrimonio, in cui faceva coppia fissa con Don Gennaro Sandolo, parroco della locale chiesa di Le Forna, dedicata alla Madonna Assunta. Ed era proprio questi uno dei suoi bersagli preferiti. Prete schietto e un tantino rustico, dalle prediche roboanti di termini teologici misti a colorite espressioni dialettali, e dal cuore grande, don Gennaro non solo non se la prendeva a male, anzi si sottoponeva volontariamente e quasi lo sollecitava a continuare, nell’intento di divertire i suoi parrocchiani e rendere la festa nuziale ancora più gioiosa.
Questo approccio umano caratterizzava mio padre anche nel suo incarico onorifico di giudice conciliatore, che ricoprì per quasi un trentennio. Alcune sue sentenze, costruite non solo con i principi del diritto, ma con un sano buon senso, resteranno proverbiali.
In quegli anni operosi, metteva su una famiglia con cinque figli e, vivendo sobriamente, quasi nell’ombra del lavoro quotidiano, si dedicava a numerose composizioni poetiche in dialetto ponzese e a testi teatrali che si ispiravano alla sua stessa vicenda quotidiana. Nella sua timidezza, sembra un paradosso per un uomo di spettacolo, andava leggendole poi solo ai suoi amici più intimi che andavano a fargli visita.
Come padre è stato severo, ma di una severità addolcita sempre dalla sua ironia e da un sorriso, che sottintendeva di non prenderlo troppo sul serio. Alla sua famiglia, rallegrata quotidianamente da strilli e giochi rumorosi, dedicò una delle sue più belle composizioni.
Tra le passioni, oltre alla poesia e il teatro, anche la pittura che praticava da autodidatta e il collezionismo filatelico I pochi momenti di svago li dedicava alla caccia e soprattutto alla pesca dilettantistica, momenti di relax e di quiete che si godeva in un mare allora quasi deserto di barche.
Gennaro in un disegno del 1943 dell’amico pittore Libero Magnoni
La sua vita semplice si è svolta in un piccolo mondo di poche centinaia di metri, ma ancora così pieno di umanità che incantava, e sempre con estro vivace e positivo che riuscì a conservare fino alla fine.
Negli anni cinquanta e sessanta è stato per gli abitanti di Le Forna un riferimento importante per quanti avevano un problema da risolvere, piccolo o grande che fosse. Chi vi si rivolgeva, andava via non solo quasi sempre con la soluzione più adeguata, ma anche rinfrancato nell’animo, perché il suo consiglio era sempre condito con qualche estemporanea battuta spiritosa.
Avanzando negli anni e qualche volta anche pentendosi di essersi “fermato a Le Forna”, cercò, come estremo tentativo di contribuire ancora alla vita culturale dell’isola, con un nuovo potente strumento, dando vita, assieme a Giuseppe De Luca e a pochi altri giovani, al mensile “Ponza Mia” che, dopo un apparente iniziale successo naufragò. Visse, infatti, solo un anno e mezzo. La fine della rivista con cui sperava di dare alla sua isola una spinta ulteriore per la sua definitiva affermazione culturale e turistica, costituì una delle sue più grandi delusioni che incise non solo sul suo umore, ma anche sulla salute.
Gli ultimi anni furono un po’ tristi, tra impegni familiari e sintomi propri dell’invecchiamento, il trasferimento fuori l’isola degli amici più cari, un certo pessimismo incombente che neanche l’antidoto del suo humour serviva più ad alleggerire. Quello che lo addolorava di più era accorgersi che la sua isola stava cambiando. L’improvvisa e rapida crescita turistica e i grossi guadagni stavano modificando ogni cosa, guastando gli animi e facendo scomparire l’originaria identità isolana.
Nel profilo biografico che gli ho dedicato, impreziosito da importanti testimonianze di Giuseppe De Luca. Silverio Lamonica, Adolfo Gente e Anna Maria Onorati, ho cercato di raccontare non solo la sua vita, spesso difficile, ma anche di rievocare quel tempo in cui Ponza era ancora Ponza, incontaminata, silenziosa, bellissima, dove vivevano e operavano persone semplici e laboriose.
Un’isola in cui i rapporti umani erano, pur nelle ristrettezze economiche, spontanei e solidali.
Un mondo che oggi appare ormai così irrimediabilmente lontano.