Storia

“Quanto piace al mondo è breve sogno”. Il racconto di Cola di Rienzo (4)

di Fabio Lambertucci

Quarta e ultima parte della tragica epopea di Cola di Rienzo in cui il gran personaggio cerca (momentaneo) ristoro dalle ambasce della vita rifugiandosi a Ponza  (Cap. XII).

Cap. X – La battaglia di porta San Lorenzo

Era passato metà novembre. Nei mesi precedenti Cola di Rienzo aveva ristabilito ordine, legge e giustizia a Roma e la situazione era nettamente migliorata (aveva anche vinto una guerra contro Giovanni di Vico, tiranno di Viterbo, facendosi restituire la rocca di Respampani, vicino a Vetralla) e il popolo si rallegrava di ciò. Tuttavia il tribuno, che si era consacrato cavaliere con un sacrilego bagno nella vasca di Costantino nel Battistero di San Giovanni in Laterano (1), si era alienato le simpatie papali quando aveva citato a comparire davanti a sé i grandi elettori dell’Impero per eleggere un nuovo vero imperatore, cioè lui stesso (il vicario, dopo essere svenuto, si era dimesso da co-rettore) e aveva reclamato le città della Sabina, di pertinenza papale, come facenti parte del distretto romano.

Roma. La vasca cosiddetta ‘di Costantino’ nel Battistero di San Giovanni in Laterano 

Cola, sua moglie e i parenti si atteggiavano ormai a famiglia reale. Per questo, alcuni cavallerotti delusi scrissero lettere a Stefano Colonna il Vecchio e lo invitarono a riprendersi Roma: lo avrebbero aiutato aprendogli la porta.
I baroni non se lo lasciarono ripetere: i Colonna, con gli altri baroni, radunarono a Palestrina un esercito forte di 4.000 fanti e 700 cavalieri e Stefano Colonna il Giovane fu nominato loro comandante. Sapemmo tutto ciò dalle spie di Cola.
Lo vidi allora diventare matto, non mangiare più né dormire bene.
Radunò il popolo e gli raccontò di aver sognato San Martino, figlio di tribuno, e papa Bonifacio VIII che lo avevano assicurato che li avrebbe vendicati sconfiggendo i Colonna, nemici di Dio. Fatte suonare trombe, cennamelle (2) e nacchere, nominò i comandanti dei reparti, al grido di battaglia “Spirito Santo cavaliere!”. La milizia romana si avviò in silenzio verso porta San Lorenzo ed io con loro.
Giunti alla porta, Cola fece sostituire il corpo di guardia e nuovo capoposto venne nominato il balestriere Paolo Bussa, che io già conoscevo.
Era la notte del 19 novembre, faceva un freddo cane e pioveva a dirotto. All’alba da sotto la porta sentii il Bussa discutere dal torrione con qualcuno che voleva entrare e che sosteneva essere già stato tutto deciso. Il balestriere gli rispose di non sapere di alcun accordo. L’altro, che mi sembrò essere proprio il giovane Stefano Colonna insisteva. Le campane intanto avevano cominciato a suonare. Si sentì il tonfo di un oggetto scagliato in una pozzanghera. Erano le chiavi della porta che si apriva solo dall’interno. Il balestriere voleva così convincere i nemici ad andare via ed evitare lo scontro. Pareva si fossero convinti; li sentimmo però sfilare al suono delle trombe lungo le mura.
Allora, presi da furore per quella offesa, alcuni romani cominciarono a colpire con accette la porta: volevano uscire per combatterli! Quando riuscirono a forzare un battente, a sorpresa entrò a spron battuto un cavaliere con la lancia in resta. Credendo fosse il primo di una grande schiera i romani fuggirono per mezza balestrata!
Quando si resero conto che invece era solo e che da solo si era infilato in una grotta, lo circondarono, lo disarcionarono e scassinarono la corazza per ucciderlo.
Il primo a colpirlo fu Fonneruglia del rione Trevi. Dopo tre colpi, il cavaliere morì. Solo dopo la battaglia seppi che si trattava del giovane Giovanni Colonna, figlio di Stefano il Giovane, che il Petrarca aveva tanto elogiato.
Entrò poi un altro cavaliere, colpito da una grossa pietra caduta dal torrione e da varie lance, fu anch’egli ucciso: un colpo gli aveva aperto la testa! Questo però era stato riconosciuto dai nostri: era il comandante nemico, Stefano Colonna. Era entrato per tentare di salvare il figlio.
I romani, presi da furore, cominciarono ad uscire dalla porta e ad avventarsi sui nemici. Uscì anche Cola e io mi misi vicino a lui e al suo stendardo. Non ero armato, mi diedero una spada. Iniziò una feroce battaglia.
Era la prima volta che mi trovavo in una tale inferno di sangue, “ebbi temenza molta”, come aveva scritto di sé Dante Alighieri alla battaglia di Campaldino (3).
Lo scontro era incerto, tanto che lo stendardo di Cola cadde a terra. Lo sentii invocare: “Ahi Dio, mi hai tradito?”.
Per mia fortuna non dovetti difendermi da nessuno. Ad un certo punto, incredibile a dirsi, le milizie comunali, cominciarono a prevalere e i baroni a fuggire ma i loro cavalli scivolavano sul terreno fangoso. Cominciò tra le vigne una caccia al nobile: a sera ben ottanta baroni erano stati trucidati.
I Colonna, oltre ai due che ho già detto, persero anche l’ex senatore e prevosto di Marsiglia Pietro di Agapito, signore di Genazzano, e suo cugino Pietro di Belvedere. Si salvarono invece Sciarretta Colonna e Giordano Orsini di Marino.
Seguii Cola in trionfo alla chiesa di Santa Maria d’Aracoeli sul Campidoglio (4) e lì il tribuno pose lo scettro e la sua corona sull’altare della Vergine.

Basilica di Santa Maria in Aracoeli e Campidoglio
(https://www.estateromana.com/proposte/santa-maria-in-aracoeli/)

Note al Cap. X

1) – La vasca, un sarcofago romano, dove la leggenda cristiana reputa si sia bagnato l’imperatore Costantino per guarire dalla lebbra. Miracolo del papa San Silvestro I a cui per riconoscenza l’imperatore “donò” l’Impero romano. Cola di Rienzo il 1° agosto 1347 vi si  bagnò per essere consacrato cavaliere. Vi è stato poi battezzato nel 1968 l’Autore di questo articolo
2) – Le cennamelle sono antichi strumenti della famiglia delle bombarde, da cui sono derivati il flauto e l’oboe.
3) – La battaglia di Campaldino nel Casentino si combatté l’11 giugno 1289 , “sabato di San Barnaba”, tra i guelfi di Firenze, vittoriosi, e i ghibellini d’Arezzo. Dante Alighieri vi combatté come feditore a cavallo (dal latino federe, ferire: erano truppe scelte di prima linea). Dante era guelfo di parte bianca (la rivalità tra le due fazioni dei guelfi di Firenze, consisteva nel fatto che i cosiddetti “neri”, che consideravano il papa come un alleato contro il potere imperiale, mentre i “guelfi bianchi” intendevano rimanere indipendenti sia dal papa e sia dall’imperatore.
(4) – Santa Maria in Aracoeli, o Santa Maria dell’Altare in Cielo, si erge su quello che un tempo era il Tempio di Giunone, all’estremità settentrionale del Campidoglio. La chiesa fu costruita tra il 1251 e il 1300. La bella cappella Savelli nel transetto destro fu eretta nell’anno del suo completamento. La fase finale della costruzione potrebbe essere stata diretta da Arnolfo di Cambio, il più grande architetto dell’epoca. L’enorme scalinata fu costruita nel 1348 per ringraziare la Vergine Maria per aver salvato Roma dalla peste.


Cap. XI –  
La resa  

Dopo il trionfo sui baroni arrivarono tempi cupi. L’Orsini aveva ripreso dal suo castello di Marino a infestare da bandito le campagne, poche derrate giungevano in città, il prezzo del grano era alle stelle, le casse del Comune prosciugate dalle spese per l’esercito. Cola reagì tassando chiese e abbazie.
Il papa inviò allora tramite il cardinale Bertrand de Deux e il vicario le sue ferree disposizioni: o Cola si sottometteva o si doveva distruggerlo! Cola si sottomise al vicario Raimondo.
Lo vidi prostato: “Tribuno, come si sente?”.
– Oh, mio caro Enea, mi è caduta ogni forza d’animo! La notte urlo, sconvolto da visioni del palazzo che crolla o di un’orda di nemici che si precipita armi alla mano su di me. Inoltre un gufo dal campanile lancia le sue maligne strida e, nonostante venga cacciato dai miei servi, ritorna sempre!”.

Cola, che ormai non riconoscevo più, si umiliò, riconobbe che la sua carica derivava dal papa e non dal popolo e ritirò il decreto sulla citazione dei grandi elettori imperiali. Si vociferava che il vicario avesse preso contatto con Sciarretta Colonna, figlio di Sciarra, colui che aveva compiuto nel 1303 l’oltraggio di Anagni contro papa Bonifacio, e con il barone Luca Savelli.
Si trovava in quei giorni a Roma un suo amico, il nobile pugliese Giovanni Pipino d’Altamura, capitano di ventura, uomo violento e prepotente, con 150 soldati. Odiava Cola per essere stato perseguito per certe sue malefatte. Fece affiggere un proclama che invitava il popolo alla rivolta contro il tribuno. Ne nacque un tumulto.
Cola inviò una pattuglia di cavalieri comandati dal suo grande amico, il conestabile tedesco Scarpetta, che venne ucciso da un colpo di lancia.
Vidi allora il tribuno crollare: ingigantiva il pericolo, temeva per la sua vita, sospirava e piangeva come un bambino. In fondo, non era uomo di potere e di guerra ma, come me, un uomo di lettere. Decise di andarsene senza combattere. Era il 15 dicembre 1347.
Radunò il popolo in Campidoglio e parlò: “Romani, lascio il potere dopo sette mesi, con la coscienza di aver bene governato e di aver difeso gli interessi del popolo romano! Ora l’invidia dei nemici mi costringe ad andarmene; potrei resistere ma non voglio macchiarmi di altro sangue! Addio, popolo romano!”.

Mi congedai da lui: “Tribuno, sono sicuro che ci rivedremo ancora!”.
“Messer Enea, cosa farai ora?”. “Andrò a casa a Napoli. Ora sì che ne ho da scrivere!”.

Tra squilli di trombe e bandiere al vento, Cola di Rienzo, discese dal Campidoglio, tra una folla piangente, attraversò Roma per andarsi a chiudere a Castel Sant’Angelo (1), ospite di una famiglia Orsini ancora amica.

Nota al Cap. XI

(1) – Castel Sant’Angelo (detto anche Mausoleo di Adriano), è, situato sulla sponda destra del Tevere di fronte al pons Aelius (attuale ponte Sant’Angelo), a poca distanza dal Vaticano, tra il rione di Borgo e quello di Prati; è collegato allo Stato del Vaticano attraverso il corridoio fortificato del “passetto”. Originariamente fatto edificare inizio nel 135 d.C. dall’imperatore Adriano (architetto Demetriano) come mausoleo funebre per sé e i suoi familiari, ispirandosi al modello del mausoleo di Augusto, ma con dimensioni gigantesche. I lavori durarono diversi anni e furono ultimati da Antonino Pio nel 139.
L’edificio è stato radicalmente modificato più volte in epoca medievale e rinascimentale.

Cap. XII – L’orribile morte del senatore Cola di Rienzo

Tornato a Napoli, riabbracciai finalmente mia madre. Passavo il tempo scrivendo di quello che avevo vissuto a Roma al tempo del tribuno augusto Cola di Rienzo e commentando con gli amici giù al porto le notizie che portavano i marinai.
La sorte volle che il 23 gennaio 1348 re Luigi I d’Ungheria cacciasse da Napoli l’odiata cognata e cugina regina Giovanna e Cola, che da tribuno se lo era fatto amico, lo raggiunse.
Il re lo accolse con simpatia e rispetto e Cola fu molto lieto di rivedermi: “Messer Cola, ve lo avevo detto che ci saremmo certamente rivisti!”. “Dio così ha voluto! Si vede che ha per me nuovi grandi progetti!” esclamò Cola.
Così non mi stupii tanto quando seppi  che a Roma era scoppiato un tumulto, però fallito, contro il nuovo legato papale, il cardinale Annibale Caetani di Ceccano (1). A ciò non doveva essere infatti estraneo Cola.
Tuttavia giunse una terribile sciagura che tolse senso e valore ad ogni contesa politica: la peste nera! (2).

Re Luigi partì velocemente a maggio per l’Ungheria e Cola compì una infamità che me lo fece odiare: ingaggiò al suo servizio il mercenario tedesco Guarnieri di Urslingen (3), il cui motto che vidi inciso sulla sua corazza era “nemico di Dio, della pietà e della misericordia”. Dopo aver messo a ferro e fuoco Anagni, i suoi soldati avevano razziato a Napoli oltre cinquecento monache, giovani spose, madri di  famiglia e vergini e le avevano stuprate!

La marcia su Roma di Cola però non si fece perché un suo fratello scappò portandosi via tutto il suo denaro! Non andai perciò a salutarlo quando partì per Roma a cercare l’appoggio degli Orsini di Castel Sant’Angelo che, questa volta, su pressione di papa Clemente, lo incarcerarono. Il 23 settembre però, in poche ore, la peste uccise i due Orsini e Cola, tornato in libertà, trovò scampo sull’isola di Ponza dove un gruppo di nobili romani, tra i quali un Colonna, conduceva vita eremitica, dopo aver ripudiato le ricchezze, le false delizie e le battaglie terrene per militare, accesi di religioso fervore, al servizio di Cristo. Lì tra l’immensità del cielo e l’azzurro cupo del mare, tra le caverne scavate da quegli uomini santi nella pomice grigia dovette prendere la grande decisione di vivere come loro.
Io per fortuna non mi ammalai di peste e nel 1350 tornai a Roma per il Giubileo (4) che fu un grande successo per la cristianità.
Mentre mi trovavo vicino a ponte Sant’Angelo, diretto a San Pietro, per un istante mi sembrò di vedere un uomo somigliante a Cola. Era vestito da frate. Fu un attimo e non lo vidi più tra la folla. A Napoli ogni tanto giungevano sue notizie: chi diceva era eremita sui monti d’Abruzzo, chi diceva che l’imperatore Carlo IV (5) lo aveva incarcerato a Praga, chi – incredibile – che Cola, assolto dalle accuse di eresia, era stato nominato dal nuovo papa Innocenzo VI (6) senatore di Roma e posto agli ordini del vicario e legato papale, il potente cardinale spagnolo Egidio Albornoz di Toledo (7), incaricato di restaurare il potere pontificio negli Stati della Chiesa.

Cola aveva nominato comandanti dell’esercito Arimbaldo e Brettone, fratelli di Montréal du Bar detto da noi fra’ Moriale, il cavaliere francese di ventura che viaggiava con me sulla galea arenata e che tante stragi, saccheggi, stupri e razzie compiute dai suoi mercenari avevano reso ricco e temibile. Li mise ad assediare i Colonna nella loro rocca, quasi inespugnabile, di Palestrina. Li aveva poi fatti arrestare assieme al loro potente fratello che aveva giustiziato. Aveva poi trovato in Riccardo Imprendente degli Annibaldi, signore di Monte Compatri, un ottimo comandante, ma lo aveva poi sostituito.
Capii che ormai non si fidava più di nessuno. Conoscendolo ormai abbastanza bene (mi dicevano che era molto ingrassato e soprattutto beveva tanto vino), non mi meravigliai quando seppi del tumulto sul Campidoglio, sostenuto dai Savelli e dai Colonna, che lo aveva portato ad una orribile morte violenta.
Linciato, il cadavere trascinato per le vie di Roma, appeso per due giorni alla facciata della chiesa di San Marcello, era stato poi bruciato vicino al Mausoleo d’Augusto, fortezza dei Colonna, e le sue ceneri gettate, forse, nel Tevere.

Così orribilmente era morto il notaio Cola di Rienzo, tribuno e senatore, che sognava di diventare il nuovo imperatore romano. Infatti, come scrisse il mio maestro Petrarca: “Quanto piace al mondo è breve sogno”.
Qualche anno dopo lessi la sua storia scritta in volgare dal chierico Bartolomeo di Iacopo da Valmontone, che ebbe molta più fortuna del mio “Racconto di Cola di Rienzo”.

La morte di Cola di Rienzo, l’8 ottobre 1354 (iconografia di autore sconosciuto, dal web)

Note al Cap. XII

1) – Annibaldo Caetani di Ceccano (1280-1350).
(2) – In epoca medievale terribile fu il flagello che colpì l’Urbe nel 1348: la famigerata Peste Nera proveniente dal nord della Cina e diffusasi in Europa tramite Siria, Turchia e Grecia, salvo poi scomparire misteriosamente qualche anno dopo, intorno al 1353, dopo però aver causato la morte di almeno un terzo della popolazione del Vecchio Continente. Oltre alle devastanti conseguenze demografiche, la peste nera ebbe un forte impatto nella società del tempo, influenzando anche la cultura: utilizzò come narratori nel suo Decameron dei giovani fiorentini che erano fuggiti dalla città appestata; in pittura, il soggetto della “danza macabra” fu un tema ricorrente delle rappresentazioni artistiche del secolo successivo. Terminata questa grande epidemia, la peste in realtà continuò a flagellare la popolazione europea, seppur con minor intensità, a cadenza quasi regolare nei secoli successivi [nella figura, Il Trionfo della Morte è un affresco staccato (600×642 cm) conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo, di Autore e datazione sconosciuti (intorno al 1446]
3) – Guarnieri di Urslingen (1308-1354).
4) – Il Giubileo del 1350 fu senza Papa poiché Clemente VI, viste le circostanze politiche del momento, non scese in Italia e restò nella sua sede ad Avignone.
5) – Carlo IV di Lussemburgo (1316-1378), imperatore dal 1346 e re di Boemia.
6) – Papa Innocenzo VI (1282-1362), il francese Etienne Aubert, papa dal 1352.
7) – Cardinale spagnolo Gil Alvarez Carrillo de Albornoz (1310 – Viterbo 1367).

 

[“Quanto piace al mondo è breve sogno”. Il racconto di Cola di Rienzo (4) – Fine]
Per la prima parte (capp. I, II e III), leggi qui
Per la seconda parte (capp. IV, V e VI), leggi qui
Per la III parte (capp. VII, VIII e IX), leggi qui

1 Comment

1 Comments

  1. Sandro Russo

    26 Dicembre 2022 at 18:12

    Il tornare e ritornare di un autore sullo stesso argomento “Cola di Rienzo” – tanto più un amico (di tastiera) come Fabio Lambertucci – pone più di una curiosità.
    Perché Fabio ci aveva già proposto nel gennaio 2021 due puntate su Cola: La Roma del Trecento. Ascesa, trionfo e caduta del tribuno Cola di Rienzo (1) e (2): leggi qui e qui – a partire da una “Storia dell’Italia a fumetti” curata da Enzo Biagi che gli avevano regalato quando aveva 10 anni. Elaborato con un taglio totalmente diverso da quello della ricostruzione attuale, in 12 capitoli (accorpati dalla Redazione in quattro parti).
    Per cui gli abbiamo chiesto di dirci di più, oltre alle motivazioni che ha già esposto nell’introduzione a quei due articoli.
    Ecco cosa ci ha risposto.

    Cola di Rienzo l’ho studiato all’Università grazie al medievalista romano Massimo Miglio, presidente dell’Associazione “Roma nel Rinascimento”, l’idea di iniziare con la storia della galea arenata è perché fu la prima domanda all’esame! Poi ho letto tutto quello che ho trovato su Cola di Rienzo (soprattutto la “Cronica” dell’Anonimo Romano). E ancora… amore per Roma con visite con la medievalista di fama internazionale Giulia Barone della Sapienza; i luoghi sono quelli della mia vita (liceo al “Cavour” al Colosseo), un po’ di fantasia, coltivata con film sul Medioevo (di Pupi Avati, Magnificat, I cavalieri che fecero l’impresa), lettura e rilettura de Il Nome della Rosa…
    Grazie a te, Sandro, e ai lettori si Ponzaracconta
    Fabio Lambertucci

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