segnalato da Sandro Russo
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Sono un assiduo lettore di Michele Mari, libri articoli saggi. Secondo me dovrebbero dargli il Nobel anche solo per Verderame (2007), un romanzo di formazione che parla di lumache, di un anziano che sta perdendo la memoria e dei segreti della lingua (in questo caso il dialetto piemontese). Michele Mari è quello di Cicoria matta e di Rosso Floyd, per citare solo alcuni dei suoi scritti sul sito.
Propongo qui di seguito una sua recensione di un libro che parla di tutte cose che conosciamo bene… mare, fari e guardiani di fari, e di follia umana.
Libri da leggere (e regalare). “Breve atlante dei fari in capo al mondo”. Voto in pagella: 8
di Michele Mari – Da la Repubblica-on-line del 12.12.2022
José Luis González Macías ne racconta (e dipinge) 34, alcuni dei quali in località sperdute. Con uno sguardo fisso all’orizzonte della letteratura
Un atlante dei fari più sperduti, con sobrie schede tecniche, cronologie, ragguagli storici, disegni in sezione e, una volta assolti gli oneri della filologia, illustrazioni molto suggestive realizzate dall’autore stesso, che in più di un luogo denuncia l’origine figurativa della sua passione per i fari, ad esempio quando cita un acquerello di Turner o quando parla di un faro come se stesse descrivendo un quadro di Friedrich, secondo la poetica romantica dell’orrore solitario e del sublime.
Ma l’impressione è che, più ancora della pittura, sia la letteratura ad ispirare e modulare la ricognizione di José Luis González Macías. Con il suo immenso repertorio di navigazioni, naufragi, navi scomparse, vascelli fantasma, solitudini estreme, allucinazioni e pazzie, la letteratura gli offre uno spartito che pur essendo molto ripetitivo si presta ad esecuzioni sempre nuove e peculiari.
Di faro in faro, così, l’autore ci offre un florilegio di variazioni sul tema, da Virginia Woolf (per antonomasia), che scrisse Gita al faro nelle stesse settimane in cui il guardiano di quel faro raccontava un’esperienza da incubo nel memoriale Veglia incessante, a Verne, il cui Faro in capo al mondo è un po’ l’archetipo di tutti i fari letterari; da Bradbury (La sirena da nebbia) a Poe, colto dalla morte proprio all’inizio di un racconto poi intitolato redazionalmente, appunto, Il faro (ma come non pensare comunque a Poe leggendo di un guardiano: “Quando arrivò sulla terraferma, il suo stato mentale e fisico era così compromesso che alcuni suoi congiunti non lo riconobbero”?); da uno specialista di relitti come Stevenson, il cui nonno diresse la costruzione di un faro che sembra appoggiato direttamente sull’acqua, quello di Bell Rock, ai fratelli Eggers, sceneggiatori del notevolissimo The Lighthouse, un film cui si direbbe aver messo mano Lovecraft in persona.
Ma, al di là dei riscontri letterari, il libro che idealmente presiede a questo atlante è il Passagenwerk, l’opera incompiuta dedicata da Walter Benjamin ai Passages parigini. Obsoleti, testimonianza di una Parigi baudelairiana cancellata dalla brutale ristrutturazione urbanistica di Haussmann, i Passages rappresentano per Benjamin la dimensione onirica e fantasmatica (dunque paradossalmente rivoluzionaria) di una città snaturata dalla storia: esattamente come i fari, resi inutili da tecnologie che prescindono dal vecchio fascio di luce girevole o che al massimo lo mantengono sotto la direzione di macchine che da tempo hanno mandato in pensione gli ormai leggendari guardiani.
Basterebbe questo a rendere i fari, anche se ben conservati, dei “relitti”: che dire, allora di quelli caduti in rovina o ridotti in macerie o adagiati sui fondali marini, o di quelli di cui, come di un monumento babilonese o persiano, ci rimanga solo la memoria? Un atlante, dunque, che ci si offre come un’Antologia di Spoon River, e il fatto che i fari prescelti siano trentaquattro, come i canti dell’Inferno dantesco, potrebbe non essere casuale.
Il libro. Breve atlante dei fari in capo al mondo di José Luis González Macías
(Einaudi, traduzione di Federica Niola, pagg. 160, euro 22)
Tra i personaggi che popolano questa cantica spiccano, oltre a tanti guardiani, alcuni progettisti e costruttori. Alla fine del ‘600 uno di questi, Henry Winstanley, eresse un faro a Eddystone, in Cornovaglia; dopo il crollo della torre la volle rifare più alta e più bella, dichiarando con ardire faustiano che avrebbe sfidato con successo i peggiori uragani: “Il caso, o la tracotanza, portarono Winstanley a Eddyston il 26 novembre 1703. Durante la notte un violento ciclone noto come ‘la grande tormenta’ distrusse le coste dell’Inghilterra, trascinando in fondo al mare la torre e tutti i suoi occupanti”.
In tempi più recenti il navigatore solitario André Bronner, scampato a una tempesta nelle acque della Terra del Fuoco, fece voto di tornare in romitaggio su un’isola di quell’arcipelago, per l’esattezza quella dove un tempo sorgeva il faro che avrebbe ispirato Verne per il suo Faro in capo al mondo: dopodiché, dilapidando tutte le sue risorse, volle riedificarvi quel faro ormai inutile, per poi farne costruire, non pago, una copia esatta davanti a La Rochelle (leggi qui), sua città natale.
Quanto ai guardiani, la casistica più comune va dall’inspiegabile sparizione all’impazzimento, ma non mancano i megalomani che si proclamarono re dell’isola (come Victoriano Alvarez, ucciso a pietrate dalle sue schiave sessuali), o gli invalidi di guerra, che un regolamento assurdo del governo francese destinava a questa mansione e che in un caso, dopo essere stati trovati in fin di vita, “neri come demoni e letteralmente a pezzi”, ispirarono un reportage (Due mutilati all’inferno) che contribuì a por fine alla prassi.
Chi invece in cima a un faro non salì mai, ma lo vide ogni giorno per diciotto anni da una feritoia della sua cella a Robben Island, lasciandocene centinaia di disegni, fu un prigioniero politico. Si chiamava Nelson Mandela.
Immagine di copertina. Bell Rock Lighthouse di Joseph Mallord William Turner (1819, tempera e acquarello su carta)
Enzo Di Fazio
18 Dicembre 2022 at 07:28
Penso sia bellissimo questo libro sui fari di Gonzales Macias che si avvale di una preziosa recensione di Michele Mari, sensazione che mi ha portato a prenotarlo subito in libreria. C’è di base la mia passione per i fari ma anche la capacità di Mari di stimolare la voglia di leggere i libri che scrive e quelli che propone. Il racconto di Giovannino tratto da Euridice aveva una cane è di una bellezza unica e conferma la bravura dell’autore.
I fari nell’immaginario collettivo evocano sempre storie di eroi legate alle tempeste, ai naufragi, ai salvataggi in mare, a vite passate in solitudine. Quelli che ci hanno fatto e ci fanno sognare stanno in mezzo al mare, in luoghi sperduti o su speroni di roccia, come il nostro faro della Guardia che tanto mi ha fatto fantasticare quando, da bambino, durante le giornate di tempesta mi rifugiavo nella sua torre
Oggi quel faro, con il portone sventrato, le grandi finestre divelte e gli intonaci scrostati, somiglia sempre più ad un rudere, luogo ideale per ambientarci non più sogni ma storie di fantasmi e di spiriti vaganti… magari quelli dei nostri padri fanalisti che vi hanno lavorato e gridano vendetta