segnalato da Sandro Russo
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Conosciamo Giancarlo De Cataldo (Taranto, 1956, magistrato, scrittore, sceneggiatore e drammaturgo), oltre che per averlo ascoltato a qualche presentazione pubblica, dai suoi libri, primo fra tutti Romanzo Criminale (2002, da cui poi il film e la serie omonimi) e per un libro poco conosciuto: L’India, l’elefante e me (Rizzoli, 2008).
Propongo qui, per i lettori di Ponzaracconta, un suo breve articolo da la Repubblica di ieri, 13 dicembre 2022.
S. R.
La strage di Roma
Il contagio dell’odio
di Giancarlo De Cataldo
In un breve arco di tempo, Roma è stata sconvolta da due terribili fatti di sangue. Prima il triplice omicidio in Prati, poi la strage di Fidene. Le due vicende, a prima vista, non si prestano ad accostamenti automatici, perché affondano radici in storie fra loro molto dissimili.
Da un lato, tre uccisioni a distanza ravvicinata in diversi luoghi, ad opera di un pluri-pregiudicato già riconosciuto affetto da gravi malattie mentali, dall’altro un’esplosione istantanea di violenza da parte di chi, sino a quel momento, non aveva accumulato alcuna “carriera” criminale.
Da un lato la scelta quasi casuale delle vittime, dall’altro l’accanimento contro una comunità — nel caso, un consorzio condominiale — percepito come fonte di odio e di frustrazione.
Semmai, nella vicenda di Fidene colpisce l’abnorme sproporzione fra la ferocia della condotta e la motivazione di partenza: un contrasto, appunto, condominiale.
Viene in mente un altro recente delitto, quello commesso a novembre a Genova dal maestro d’ascia che ha scaricato la balestra contro un uomo che festeggiava, a suo dire troppo rumorosamente, la nascita di suo figlio. Siamo dunque alle prese con distinti eventi insensati, frutto magari di quello che si usa definire “raptus”, o di spie di qualcosa di più profondo?
I serial-killer esistono, e non li scopriamo oggi. Quanto alle tragedie derivate da motivi futili — un confine conteso, il taglio di un albero, un misero debito, la precedenza all’incrocio — sono pieni gli archivi della scienza criminologica.
Ma per quanto ogni storia sia e resti diversa dalle altre, certe coincidenze temporali, come quella cui si accennava fra Roma e Genova, fanno riflettere.
Qualche tratto comune esiste. A partire dall’odio estremo che esprimono.
Ammettiamo che dietro tutti questi fatti ci sia uno stato di disagio psichico. Ci dovremmo chiedere allora: perché l’esplosione di violenza adesso, e perché in modo così estremo? Dovremmo rispondere che anche chi soffre di qualche disagio psichico risente dello spirito del tempo, del clima che respira. Se ne è tanto potentemente, e costantemente, condizionato, chi appartiene ai forti, agli inseriti, diciamo così ai vincenti, perché non dovrebbe esserlo chi è portatore di una condizione di svantaggio, o di debolezza?
È fin troppo facile citare due fattori che stanno incidendo nel profondo sulle nostre esistenze: la pandemia e la guerra. Dalla prima non siamo ancora fuori, nella seconda ci siamo dentro sino al collo.
Siamo in un tempo di ansia: chi ha abbastanza anni sulle spalle da ricordare la Guerra Fredda forse guarda alla fase con minore tensione, ma chi non aveva mai sentito agitare la minaccia atomica si chiede davvero se domani sorgerà il sole. L’ansia che ci avvolge amplifica il nostro senso di insicurezza, e si trascina appresso impulsività e aggressività. Pandemia e guerra insieme, poi, hanno contribuito a determinare una complessa crisi economica.
La crisi può incidere su quantità e qualità dei crimini: ma soprattutto genera diseguaglianze, fomenta risentimento, apre la strada ad ulteriore violenza.
I siti complottisti, mai così floridi per diffusione e seguito, alimentano perverse narrazioni che rafforzano gli adepti nelle proprie convinzioni.
Questa fase richiede un enorme sangue freddo da parte di tutti, il ricorso a strategie, anche comunicative, che evitino l’acuirsi dei contrasti. E, ovviamente, interventi concreti a sostegno di chi sta pagando il prezzo più alto: i disagiati, i disoccupati, i poveri, gli emarginati. Perché il disagio non dilaghi e non ci renda sempre più succubi dei nostri peggiori impulsi.
[Di Giancarlo De Cataldo; da la Repubblica del 12 dicembre 2022]
Un’idea da La morte corre sul fiume, di Charles Laughton (del 1955, con Robert Mitchum e Shelley Winters)