Cinema - Filmati

Registe dai Balcani (seconda parte)

di Lorenza Del Tosto

Ancora film (e interviste) dal Balkan Film Festival

Per la prima parte, leggi qui
E qui: Jasmila Žbanić al Balkan Film Festival

Looking for Venera
Norika Sefa –  Kossovo 2021
La timida Venera inizia a mettere in discussione le abitudini della sua famiglia patriarcale quando conosce una nuova amica, Dorina.  Venera e Dorina frequentano un corso di inglese, a casa di un’insegnante locale, affollato di studenti. Dopo che Dorina dice a Venera che fa sesso con uno dei  ragazzi in luoghi segreti, la protagonista si incuriosisce e decide di iniziare a fare esperienza anche lei.

Sisterhood
Dina Duma – Macedonia del Nord  2021
Il film d’esordio della regista macedone Dina Duma è una storia contemporanea di slut-shaming nell’era dei social media. Due migliori amiche, Jana e Maya, nuotano, cantano e fanno festa insieme. Quando Elena, una loro compagna di classe, si mette con il ragazzo per cui Maya ha una cotta, Jana incoraggia Maya a vendicarsi pubblicando un video della ragazza in una situazione compromettente.

Alla Casa del Cinema per il V Balkan Film Festival hanno appena proiettato i loro film e ora Norika Sefa e Dina Duma siedono davanti al pubblico ed è un peccato che, in sala, vi siano pochi giovani, pochissimi, perché di giovinezza parlano le loro storie: di un’età di passioni irruente, di incertezze e di vitalissima impotenza. La macchina da presa delle due registe sta addosso ai volti e ai corpi, ne coglie guizzi, crolli, slanci e confusione. Narra il conflitto aperto delle giovani protagoniste con i padri e l’ambiguo mix di tenerezza e rabbia nel rapporto con le madri di cui odiano l’acquiescenza e la sottomissione e di cui soprattutto temono di ripetere il destino. Una miscela potentissima ed esplosiva di paura, vitalità, curiosità sessuale raccontate con un linguaggio che sperimenta e innova.

Norika Sefa

Norika Sefa, kossovara, alta e vestita di scuro, ha occhi pieni di ironia. Accanto a lei Dina Duma, macedone del Nord, sembra una bambina, timida e bellissima, con uno  smalto delicato e i capelli che sembrano freschi di parrucchiere. Ma appena parla la sua voce rivela, nella timidezza, un suono d’acciaio.

Norika Sefa, come la sua protagonista, viene da una grande famiglia dove convivono, in casa, tre generazioni, e le loro diverse visioni della vita si scontrano in un turbinio di suoni, colori, sapori, voci in un mondo dove le persone hanno scarsa dimestichezza con l’espressione delle proprie emozioni.

In Kossovo si fa tanto cinema e i cinque film selezionati quest’anno ai festival internazionali sono tutti di donne.
Perché ci sono tante registe? Vogliono sapere tutti.

“In parte credo dipenda da una cultura del fallimento che in Kossovo viene inculcata, a noi donne, sin dall’infanzia”. Risponde Norika con tono pragmatico –  “Ti mettono in testa che non riuscirai in niente. Il successo non fa per te. Sono gli uomini che guidano e le donne devono limitarsi a seguirli, e per guidare gli altri gli uomini devono calcolare attentamente ogni cosa, non possono correre rischi o lanciarsi nel vuoto.
In realtà, poiché nessuno si aspetta niente da noi, siamo più libere di prenderci i rischi, non tanto il rischio di non trovare fondi per i nostri film, quanto quello di metterci a nudo, di esporci in prima persona e questo è un rischio enorme. Lo respiri anche sul set”
. I suoi occhi sono pieni di malizia. “Sei circondata da uomini: il direttore della fotografia, il costumista, lo scenografo. E ti dicono: ora non farti prendere dal panico. È come se si aspettassero che tu sclerassi da un momento all’altro. Le gerarchie nel cinema sono ancora forti, devi sapere un sacco di cose molto tecniche e si suppone le donne non riescano a capirle”.

Sorride e lascia intendere che panico sul suo set non c’è stato. Anzi forse è proprio il cinema, mondo maschile, ad offrire la vera occasione per affrancarsi, per liberarsi della paura di ripetere la sottomissione delle madri. Ogni film è un figlio, una maternità diversa e speciale che sarà lì per sempre a dire chi sei. A dimostrare che si è andate avanti, e non si torna indietro anche se attorno la società sembra raccontare un’altra storia. In un mondo intriso di patriarcato l’arma migliore è continuare a girare, a correre rischi e buttarsi nel vuoto. Cosa hanno da perdere? Le loro eroine nei film battono i pugni, rispondono male, escono di nascosto, si buttano dalle macchine in corsa, loro, le registe, fanno film.

Dina Duma

E la dolce Dina Duma che ha iniziato a girare a 16 anni senza capire bene perché, spinta dall’esigenza di raccontare ciò che la circondava, ciò che vedeva, di cogliere dettagli e sfumature che, nel suo film,  fanno sprofondare lo spettatore nel fango della pioggia che talvolta cade incessante tra case in rovina e strade male illuminate e scuole che invece assomigliano tanto alle nostre e palestre e piscine dove, negli spogliatoi, le ragazze si osservano e si distruggono con un clic, presente e passato, arcaismo di donne e dei loro antichi rimedi, di permessi strappati per uscire la sera, dei primi vestiti scollati, i primi tacchi, i sogni di madri che temono e invidiano le loro figlie ed insieme desiderano per loro un futuro migliore.

Dina Duma annuisce, ascoltando le parole della collega e aggiunge: “I grossi finanziamenti vanno sempre agli uomini, a noi danno budget più piccoli come se ci fosse la paura che siano soldi sprecati e comunque” sussurra e intanto scruta il pubblico, lo studia “non capiscono che ci fanno un favore, perché ci spingono a trovare soluzioni più creative con poco.  Quando mi sono iscritta alla scuola di cinema ero l’unica donna e i professori mi dicevano: ma che ci fai qui? Questo è un mondo di uomini. Non è un posto per te”. Anche se ora piano piano il numero delle donne cresce. Il suo Sisterhood parla di cyberbullismo e scava nel cuore una pena per il mondo in cui i ragazzi affogano senza che gli adulti abbiano mezzi ed esperienza per offrire aiuto.
“Gli adulti sono troppo presi dai problemi della loro sopravvivenza e non si accorgono del dramma che vivono i loro figli. Sono contenta che il mio film venga presentato nelle scuole, si parla di inserirlo nel programma scolastico. Anche il film che sto scrivendo parla di ragazzi,  è un tema che non ho esaurito, su cui ho ancora qualcosa da dire”.

Looking for Venera non è andato nelle scuole, ma ha girato per molti festival, iniziando da quello di Rotterdam. In famiglia si sentiva parlare del successo del film della propria figlia in giro per il mondo e poi il film finalmente è arrivato a Pristina.
“Mia madre e mio padre lo hanno visto e non mi hanno parlato per due giorni…” – dice Norika con una risata amara – “Non erano pronti a vedere certe cose. Mi ha sorpreso la reazione della mia gente. Ovviamente c’erano dettagli che solo i kossovari possono cogliere e capire. Hanno provato repulsione. Un’amica, una femminista, mi ha scritto: – “Ho appena visto il film e ora ho bisogno di una bella doccia, per togliermi di dosso il senso di soffocamento” Il mio film non parla di rapporti tra uomini e donne, come forse si aspettavano, ma di esseri umani.  Non era mia intenzione elevare la donna o denunciare qualcosa. Volevo mostrare come la società, a prescindere dal genere e dall’età, sta vivendo la situazione presente. Il padre nel film ha un ruolo importante. C’è chi lo ha interpretato come una figura mostruosa. Tutti si aspettano da lui delle indicazioni sulle decisioni da prendere e lui non ha più né i mezzi né la voce per dare indicazioni a nessuno”.

Si parla poi di coproduzioni che sono spesso l’unica strada per trovare i fondi, una strada piena di magia e di pericoli.
“Se non trovi le persone giuste con cui fare famiglia, una coproduzione può distruggere un film e la vita di un regista”.
A quanto pare, le due giovani donne ne conoscono di registi distrutti.  Ci vuole molta professionalità: che ognuno abbia voglia di far bene il proprio mestiere. Nei balcani non ci sono direttrici della fotografia donne, e spesso vengono chiamate dalla Francia. Il montatore di Looking for Venera, ad esempio, era tedesco e si è trasferito per un tempo a vivere in Kossovo, per sentirne i rumori, i colori, la vita. E ne è uscito un bel lavoro. Se c’è amore per la professione e rispetto e desiderio di imparare gli uni dagli altri, non importano le differenze nazionali.

Dina Duma, talmente assorta nello studio di ciò che ha intorno: visi, sguardi, colori, luci, da dare talvolta un’impressione di estraneità, risponde drastica: “Mi piace accogliere sul set gente diversa, di altri paesi, si crea un’identità comune che è quella del  film, se trovi la gente giusta c’è una magia sul set. Si impara tanto dagli altri”.

Ora la coproduzioni nascono anche all’interno dell’ex Jugoslavia. C’è stato un lungo periodo di silenzio, ma ora si collabora, ci si cerca, il cinema si propone super partes agli odi, ai rancori che ancora covano soprattutto tra chi è più in là con gli anni.
– E voi la rimpiangete la ex Jugoslavia? – chiedono dal pubblico.
È una domanda che ricorre in questo festival e chi è nato ancora con la Jugoslavia dice di sentirsi talvolta senza una patria, ma loro no, loro scuotono la testa.
“Perché dovrei rimpiangerla? Non l’ho conosciuta. Non provo nessuna nostalgia. Ho conosciuto solo la guerra e la povertà che ne è venuta. I miei genitori erano così poveri che non avevano neanche i soldi per comprare i miei pannolini.” Dice Dima Duma “I miei genitori e i loro amici rimpiangono la Yugoslavia. Rimpiangono i bei tempi andati e la stabilità. Provano nostalgia, dicono che allora erano felici, ma forse quella che rimpiangono è la loro giovinezza. Quando guardano al futuro pensano al passato. Noi invece vogliamo andare avanti”.

La guerra resta nello sfondo, nei discorsi degli adulti che tornano a parlarne anche in Looking for Venera.
“Credo che il senso di soffocamento di cui la mia amica parlava e che il film provoca venga da lì, dall’incapacità di andare avanti, di affrontare il futuro, dalla nostalgia per un’epoca che sembrava d’oro e non lo era. Cosa me ne faccio io della Jugoslavia? È un’idea ridicola in un paese come il mio dove ancora hai bisogno del visto per viaggiare. Sarebbe solo un’etichetta in più sul tuo passaporto. Noi siamo artiste e vogliamo parlare al mondo”.

Applausi in sala e, come le loro madri, anche il pubblico un poco le ammira e, insieme, le invidia per la forza che hanno, la passione che mettono e il futuro che hanno negli occhi. Un futuro non facile, fragilissimo, ma che ha il sapore della libertà, dei progetti e del sogno, l’unico futuro a cui valga la pena guardare.

 

 

 

 

 

 

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