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Comparivano inaspettate nelle scarpe messe lì apposta, ai piedi del letto, la sera del 1° novembre. Nella notte sarebbero passate le anime dei nonni e vi avrebbero lasciato dolcetti per i nipoti.
Enzo, il nipote, di questa misteriosa, visita notturna era stato messo al corrente dalla zia. Zia Veruccella (Silveria). La donna abitava nella casa accanto. Sola, vestita sempre di nero, semisorda, vecchia senza età. Indaffarata a tutte le ore del giorno, compariva e spariva fra i caseggiati, come una malombra. Rabbuiata in viso e scostante.
Era la depositaria dei legami familiari, degli intrecci del parentado, e dei risvolti nascosti del rione. Devota ai riti religiosi e presente alle funzioni in chiesa tanto quanto non ligia ai moniti del parroco, non china ai dettami del culto.
Per Enzo una presenza amica, a cui ricorrere quando le malefatte indispettivano la madre, col rischio di prenderle. Un rifugio. Sicuro ma impegnativo giacché zia Veruccella non usciva che per andare in chiesa, tutto il resto lo dovevano espletare i fratelli e i nipoti. Ai negozi per la spesa: pane, pesce, carne, carbonella, verdura, tutto doveva essere compiuto da altri, ai quali ella chiedeva e alla quale si obbediva.
Per Enzo, così come per i fratelli, un luogo dove evocare i nonni, perché zia Veruccella raccontava di loro, di come apparivano e di come vivevano la quotidianità.
Nonno Aniello, un omone con due baffi, no… due baffoni, capitano di motovelieri. Buono e pacioso. E nonna Civita, la moglie, una donna di casa. Solamente di casa. A cui badare, con i figli maschi da allevare. Di lei diceva poco. Nelle foto, che custodiva, appariva minuta, dimessa, con tre pargoli attorno. Quattro maschi in casa… quanta pazienza!
La stessa che metteva in atto zia Veruccella quando si incontravano da lei, Enzo, il fratello e Aniello, il cugino.
Si incontravano lì nelle sere fra Natale e Capodanno. In chiesa le funzioni religiose non c’erano e allora da qualche parte si doveva andare. Da zia Veruccella. Giocavano ‘a castella. A ciascuno erano state date dieci mandorle (i mennule). Con queste, due di loro a due metri di distanza creavano un mucchietto di mandorle. Era ’a castella. Il terzo doveva con un colpo abbattere con la sua mandorla i mucchietti. Se ci riusciva si prendeva le mandorle, altrimenti rimaneva a secco.
Il gioco era abbastanza movimentato per la vivacità dei piccoli. Zia Veruccella li lasciava fare anche perché era indaffarata ad alimentare il braciere, sempre sull’orlo di spegnersi. E lei, vicino all’arnese di rame, catturava quel poco di tepore e dava inizio a narrare d’u munaciello, d’a voccola cu i pullecine, d’u lupo mannaro.
Le mandorle si trascuravano e ci si avvicinava al braciere.
’U munaciello prendeva corpo, appariva di soppiatto, scompariva fulmineo, e si portava dietro qualcosa. I vetri tintinnavano per il vento che nel porto si alzava mentre la coltre nera della notte avvolgeva. Zia Veruccella narrava, narrava, e i piccoli e la stanza e il braciere e la sera diventavano una cosa sola che sussultava coi colpi delle folate, avvisaglie del passaggio d’u munaciello. Guai a farlo indispettire, meglio assecondarlo, lasciandogli l’agio di nascondersi.
Comparivano allora, come sollievo alle agitazioni i mustarde. Zia Veruccella ne era la dispensatrice.
Come quelle trovate nelle scarpe il 2 novembre, al risveglio. Quelle portate dai nonni. Con i cioccolatini. Quelli a forma di goccia, quelli americani, nella carta stagnola avvolti, con dentro una strisciolina scritta in inglese.
Le mostarde erano la cosa più buona. Più buona e più vera. Più buona, più vera e più desiderata.
Un dolce di chi improvvisa la vita per renderla piacevole. Con gli ingredienti a disposizione. Succo di fichidindia spremuti, vino cotto, semola. La pasta ottenuta messa a rapprendere al sole. Allorquando inizia a solidificarsi si divide a tocchetti. Così da essere posti insieme ai dolciumi nelle scarpe il 2 novembre, quando le anime dei cari, lasciano il sonno eterno e vengono a rinnovare la loro presenza ai nipoti. “ Fai il bravo… ubbidisci a papà e mamma, e pensa ai nonni che da quassù ti vedono e ti vogliono bene”. Qualche nonno azzardava a lasciare tracce scritte del suo passaggio. E anche tracce dolci e capziose, come le mostarde. Dal sapore indefinito che sa di casa.
Oggi sono introvabili. Non in commercio occorre avere agganci con chi questa tradizione coltiva, come una sua espressione di vita.
Sopra gli Scotti, a Le Forna, sui Conti. È qui, presso una famiglia di ponzesi d’eccezione, che Enzo ha trovato queste delizie.