di Francesco De Luca
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Il mare nella vita del pescatore può essere una presenza amata oppure necessitata.
Salvatore Aprea la via del mare l’aveva preannunciata dall’essere figlio di un pescatore. Il padre aveva un gozzo, dieci metri, vela latina, due remi, quattro persone d’equipaggio. La guerra era alle spalle e davanti la crescita dei figli.
La pesca ad aragoste negli anni ‘50 già aveva ricostruito la rete dei rapporti commerciali.
I Sandolo (famiglia di Le Forna in possesso di velieri che trasportavano pesci ed aragoste da tutto il Mediterraneo per il mercato di Marsiglia) facevano affari perché la richiesta del mercato era sostenuta; il tempo meteorologico, dopo l’inverno, invitava alla pesca. In più urgeva la necessità di rispondere a tutte le sollecitazioni dell’esistenza: quelle economiche, quelle sociali, quelle umane. Anche nel piccolo villaggio di Le Forna gli isolani avvertivano quelle urgenze.
“D’inverno – dice Salvatore – frequentavo la falegnameria di Augusto Coppola a Le Forna, e quando poi veniva marzo dovevo dare una mano a mio padre. Sul gozzo soltanto parenti. Io, papà, un cognato e uno zio. Il primo viaggio l’ho fatto a 12 anni”.
“E cosa facevi a bordo?” – chiedo.
“Non sapevo fare niente e perciò dovevo imparare tutto. Anzitutto la pulizia a bordo. Perché sotto coperta c’erano le reti, c’era la roba da mangiare, c’erano i nostri bagagli. C’era tutto. Tutto qua sotto…” e mi mostra un gozzetto fatto da lui, 70 centimetri di lunghezza. Un modellino.
“E’ tutto di mogano… l’ho fatto per passare il tempo… in inverno…”,
“Perché sei rimasto legato al mestiere del legno…” – dico.
“Chello ca ’mpare ’a pitto ’nt’u scuorde cchiù” – sentenzia.
Si partiva da Cala Fonte e si puntava per porto Santo Stefano.
“Va beh… – lo interrompo – come fai a dire che puntavate sulla Toscana se non avevate uno straccio di carta su cui tracciare la rotta!”
Mi guarda bonario. Sa della mia ignoranza di cose marine e mi tollera. “Chi guidava aveva esperienza di quel viaggio ma soprattutto si aveva coraggio. Ci si affidava alla buona sorte con la forza della coesione e dell’intesa fra l’equipaggio”.
Lo punzecchio: “Ma vi siete mai persi o trovati in posti diversi da quelli previsti?”
“Mai – risponde – Solo una volta successe che con mio zio al timone, di notte, lasciammo l’Asinara per la Maddalena. Dopo una notte di navigazione al mattino si stava ancora in mezzo al mare. Fui svegliato da mio padre, andai fuori e i miei occhi di giovane videro quello che gli occhi miopi di zio non avevano visto: stavamo a pochi metri dalla falesia. Il posto è chiamato ’i sperdute ’i Corsica’.
Si navigava a vista, con la perizia dell’esperienza, col coraggio dei disperati.
Salvatore oggi è un anziano signore che si gode la pensione, accanto alla moglie che, coetanei, ha la verve tipica della sua famiglia: Caracazzola. Gestisce con piacere un minimarket a Calacaparra, insieme alle figlie.
Pacioso, bonario, Salvatore mette a frutto gli insegnamenti dei ‘masti d’ascia’: ‘Ntuneniello, Serto, Porzio. Li frequentò, e mi svela il segreto dell’espressione. L’ascia cui si allude aveva la forma di una zappa e con essa si levigava il legno a mano, con l’effetto simile alla pialla. Bisogna conquistare davvero quell’arte manuale con anni di esercizio.
Oggi a Salvatore basta vedere l’immagine di un vascello e… lui lo riproduce. Così ha fatto, dietro sollecitazione di un amico, e ha realizzato un modellino di veliero vichingo.
Da piccolo, in inverno, presso le botteghe dei mastri d’ascia e da aprile a settembre a pesca di aragoste in Sardegna.
“Ma un anno, insieme a Cummarella e ad altre due barche ponzesi, si decise di andare in Corsica.
“E beh… – dico – cosa c’era di strano?”
“C’era che bisognava avere l’autorizzazione dell’ autorità francese… e noi non ce l’avevamo”.
“Che vuoi che sia” – riprendo.
“E no… perché i cursechese sono molto ligi. Ci intrufolammo in una cala solitaria e pescammo… con abbondanza…”
“A proposito – intervengo io – ma dove li mettevate i pesci catturati?”
“Li mettevamo in una gabbia a bordo. Un giorno o due e poi si andava a venderli nel porto più vicino”.
Così accadde per alcuni giorni e, nel porto incominciarono a notarli. Al terzo giorno… si accorsero d’essere seguiti da una barca. Al quarto, mentre pescavano videro un punto lontano che divenne una prua e direzionava verso di loro. Lo zio si insospettì e disse:“ quando do il segnale, qualsiasi cosa si stia facendo, taglia la cima della rete”.
Fu previdente perché apparve chiaro che era una motovedetta francese.
“Taglia… taglia…”.
Il motore già in moto, e il gozzo prese la fuga. Dalla motovedetta spararono con la mitragliatrice.
“Ma spararono a mare – ci tiene a sottolineare Salvatore. Per spaventarci e non per colpirci”.
Le altre due barche furono fatte seguire in porto ed ebbero noie, mentre la sua rientrò in Sardegna a Siniscola.
Un’altra estate la passò… vi racconto il resto nella prossima puntata.
[Cala Fonte – Sardegna e ritorno (1) – continua]
Ndr – Di Salvatore Aprea ha anche scritto Sandro Vitiello: Salvatore Aprea o l’arte come forma della memoria
Francesco De Luca
28 Agosto 2022 at 16:21
Dopo l’incontro pubblico sulla piazzetta della Chiesa a Le Forna Enzo Di Fazio è rimasto colpito dalle testimonianze dei pescatori fornesi, e, di più, da certe parole specifiche che indicavano parti delle barche, delle reti, del motore. Per quei pescatori termini consueti, buoni anche da stravolgere col dialetto, ma ormai desueti e sull’orlo dell’oblio.
Ha così deciso, in quanto redattore di Ponza-racconta, di raccoglierne alcuni per lasciarli nella memoria collettiva isolana.
Ha scelto di incontrare Salvatore Aprea. Io gli ho fatto da autista e compagno.
Dell’elaborato dei suoi appunti saremo messi al corrente presto. Questo che avete letto è il mio sunto.
Un ringraziamento ulteriore da parte nostra a Salvatore Aprea, la cui compagnia è un piacere.