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C’era questo amico nostro con cui passavamo le estati insieme, qualche anno fa. Amicone, generoso, sangue-misto: madre ponzese e padre barese. Innamoratissimo di Ponza, scappava sull’isola appena poteva, da Bari dove teneva famiglia.
A Ponza era nel suo elemento naturale, una vita attivissima, mare, campagna… Non stava mai fermo, tranne… sì quando sedeva per due chiacchiere in compagnia con amici e amiche al bar di fiducia, dove servivano il suo “aperitivo simpatico” (un’invenzione barese, sembra), per cui era molto esigente: non tutti i bar erano in grado di prepararlo.
Nelle sue “fuitine” a Ponza, nelle stagioni intermedie ma soprattutto in estate, gli stava un po’ stretta la presenza della moglie (cui peraltro era molto legato); il più delle volte veniva da solo, dopo aver caricato la macchina di ogni prelibatezza gastronomica barese (e sono tante!). Ma quell’estate proprio non aveva potuto dire no alle insistenze della moglie che aveva voluto venire anche lei sull’isola.
Così si stava ad un bar all’aperto, giù alle banchine, a ridere e a scherzare, delibando questo famoso ‘aperitivo simpatico’, quando lo vediamo cambiare faccia… La moglie si avvicina, ci saluta (conosceva più meno tutti) e dice la famosa frase, in barese non troppo stretto, rimasta nel nostro lessico a indelebile memoria, tanto che non possiamo ricordare il nostro amico senza citarla:
– Ecch’… quest’ ci piacce fare! Ridere… scherzare!
(Ecco, questo gli piace fare…)
Tanto mi è restata appiccicata addosso che la applico a chiunque veda impegnato in un’attività assolutamente lecita, anche utile e meritoria, scelta in completa libertà in cui la persona si sente completamente realizzata.
Ognuno forse potrebbe individuare una sua personale predilezione, pratica o mentale, che risponda al criterio: Ecch’… quest’ mi piacce fare! Brutto affare se non sa definirla… però possono anche essere più di una.
Io posso parlare per me. Altri potrebbero proporre le loro, di passioni: da quella per il mare o per qualcuno dei suoi aspetti, per la scrittura, per le conchiglie… (alcuni esempi a caso!).
A me piace piantare, seminare, riprodurre, veder crescere ogni entità vegetale in cui mi imbatto.
Spiegazioni?
Mia zia Olga era così, se proprio devo cercare un antecedente familiare (leggi qui); inoltre dal versante paterno la mia era una famiglia di contadini da generazioni.
Ma è stata la scelta di andare a vivere in un casale dei Castelli Romani che mi ha confermato in questa attitudine. Al riguardo c’è un filo doppio: ho scelto questa vita per una attrazione (forse) inconsapevole per la campagna; poi vivere in questo posto e la terra intorno hanno contribuito per la loro parte.
Ne ho (anche) sempre scritto, di botanica e Natura: prima per Omero, sul Magazine della Scuola di Scrittura; in anni più recenti sul sito Ponzaracconta. Gli ultimi pezzi usciti:
Le piante pazze, il 16 luglio;
Il commento a Il bagno di Giovanni (di Franco De Luca), del 23 luglio.
E questo è il mio piccolo mondo, di conoscenza, scoperte ed esperimenti.
Sono circondato da piante e fiori. Intorno alla casa c’è un campo di kiwi di un ettaro circa; poi c’è un giardino, con un piccolo stagno fatto con un gommone aperto (estremo riutilizzo di un eroico testimone degli anni ponzesi) e anche un orto. Il tutto abbastanza a misura d’uomo, nel senso che mi è possibile gestirlo personalmente (con aiuti stagionali per i kiwi, per la potatura, la ‘strecciatura’ (la rimozione del secco dopo la potatura) e la raccolta.
La sovrabbondanza di piante porta a qualche inconveniente. Va da sé che mettere in vaso semi e talee alla lunga determina una pletora, così che darle via diventa vitale, per lo spazio e l’impegno che richiedono. Da qui mi son fatto la fama di persona generosa. Generoso sì, ma anche sotto minaccia (di Leonardo, l’amico rumeno,) che cerca di temperarmi per quanto gli è possibile.
E poi non è che le mie piante, fatte crescere, accudite e innaffiate per qualche anno le do a chiunque. Solo a referenziatissimi e dopo sopralluogo accurato.
Ma è un tale piacere coltivarle: l’attesa della germinazione dei semi; andare a vedere le sorprese, non solo dopo qualche giorno di lontananza, ma anche giorno per giorno.
Molti dicono che non ho un giardino, ma una foresta tropicale. Un po’ è vero, ma dalla sovrapposizione delle piante arrivano molti suggerimenti sul modo migliore di trattarle, accostamenti inusuali, effetti estetici dovuti proprio alle leggi del caos.
Nella limitazione della crescita ha un ruolo importante la potatura. Ricordo sempre le parole di Luciano, mio maestro per anni (ora s’è fatto vecchio): Più mi levi più ti do (dice la pianta), che è valido soprattutto per gli alberi da frutta ma si applica come criterio generale un po’ a tutte le piante. Il taglio è una diminuzione solo per noi umani, ma per le piante è benefico.
Una ricaduta importante della passione è l’approfondimento della conoscenza. Per ciascuna pianta andare a cercare e poi ricordare i nomi. Nomina sunt consequentia rerum. Intanto le cose che si amano si chiamano con il loro nome proprio; poi è un modo per comprendersi, tra appassionati e un po’ serve anche per mantenere attiva la memoria. Così non è banale erudizione ripetersi i nomi.
Per il resto è un continuo work in progress… Piantare nelle stagioni giuste (generalmente a fine inverno), ‘ripicchettare’ (il termine ponzese è spastena’, spastenare, ovvero trasferire le piantine dal semenzaio dove sono tutte insieme, a vasetti singoli per la crescita), trapiantare, spostare a seconda delle richieste(delle piante, che a modo loro parlano, si fanno capire): questa ha troppo sole, va più in ombra. Questa si è tutta piegata verso la luce… Seguirle,… per l’acqua, per la luce
Poi ci sono degli aspetti essenziali, tra cui – mai così sentito come obbligo impellente durante questa secchissima estate – quello dell’innaffiatura. Per chi si occupa di un giardino, di una ‘piantagione’ in genere, dare l’acqua alle piante ha degli aspetti per così dire ‘rituali’. Come lo stabilirsi e la conferma di un legame di vita, un’empatia.
Ho cercato di automatizzare questa funzione il più possibile (i kiwi hanno un innaffiamento automatico notturno, per settori); anche l’orto delle centraline per l’irrigazione… Ma le informazioni che vengono dallo sguardo del coltivatore che gira tra le sue piante è insostituibile.
Come la mettiamo con le perdite? La comare secca (non a caso l’opposto del “bagnato” che è vita) è sempre dietro ad ogni attività umana. Di tanto in tanto qualche pianta si perde, anche piante grandi… gli albicocchi hanno una vita breve; i fichi e i ciliegi possono lasciarti all’improvviso, per cause che qualche volte si capiscono (dopo), a volte no. Ma non c’è nulla come un giardino che ti tiene in contatto con i cicli della natura, la morte e la vita, degradazione e rigenerazione, l’avvicendarsi delle stagioni.
Qualche parola sui piccoli animali che ci fanno compagnia, in questo microcosmo: le formiche, le lucertole, gli uccelli e gli insetti (anche le zanzare, croce di ogni coltivatore); ci metto dentro anche le tartarughe e i cinghiali. Si impara a far attenzione anche a loro – o più attenzione, rispetto a un cittadino, per esempio.
Si dispone qualche (piccolo) recipiente per farli bere. Ma l’acqua è da cambiare spesso (ogni giorno) per non favorire la proliferazione delle zanzare e nei recipienti più grandi le formiche, ma anche api e vespe riescono a morire affogate. Poi le ranocchiette, che in qualche modo “sentono” la presenza dell’acqua e – da dove arrivano non si sa – da un giorno all’altro te le ritrovi compagne d’avventura. Infatti a chi mi chiede dove si possono trovare (da comprare), per uno stagno, dico con sicurezza che arrivano da sole.
Il che per associazione mi porta a concludere con un haïku che spesso ricordo: gli orientali hanno un sentimento speciale per la natura e per le piccole cose.
Le foto sono stare prese così il giorno che mi è venuta l’idea di scriverne; senza preparazione alcuna. Non come nel film Il giardino indiano (del 1985, dove una altolocata signora inglese -Deborah Kerr nella sua ultima interpretazione – ripristina un giardino indiano, ossessione del defunto marito, per farlo fotografare e farlo presentare su una prestigiosa rivista di giardini. Ma questa per il cinema è un’altra ossessione… leggi qui
Non c’è nessuna soluzione di continuo tra orto e giardino, che si mescolano e si sovrappongono l’uno con l’altro
Il casino del tavolo da lavoro, nella foto si un giorno qualunque, in un momento qualunque (sotto particolare)
Nascosto dalla vegetazione tra gli asparagi e le mente, c’è un grosso mastello nero (da vinicoltura con delle piante acquatiche (Iris d’acqua). Sullo sfondo il trattorino per i piccoli lavori del campo di kiwi
Un addensamento di piante varie: c’è una Yucca elephantipes (Asparagaceae) e i fiori arancio di una piccola bulbosa Crocosmia (della famiglia delle Iridaceae)
Un particolare del piantinaio, in varie fasi di coltura e con recipienti di fortuna
La zona delicata ai trapianti. Il contenitore blu contiene la terra usata per rinvasare le piante: miscela fatta in casa di terra del campo con aggiunta di substrato torboso e sabbia di fiume)
Alcune delle piante trapiantate (da vari mesi, ormai)
‘Bananeto comunale’, cosiddetto per distinguerlo dal ‘roseto comunale’ e dallo ‘stagno del gommone’, altre sezioni del giardino rustico (del Russo)
Dopo la morte (per inedia e annegamento!) di un ranocchietto che non è riuscito a saltare oltre il bordo della bacinella, lascio sempre una via di fuga per i piccoli animali che possono rimanere imprigionati
Pino Moroni
7 Agosto 2022 at 16:04
Caro Sandro,
si parla tanto di natura, oggi più che mai, ma nessuno ha mai parlato di piante ed animali con tanto amore come lo hai fatto tu con il tuo pezzo. Immagino (e condivido) il tuo occhio preoccupato, quando vedi la possibilità che si spenga qualche forma di vita. Ho trovato commovente la storia della ranocchietta e la tua ultima fotografia.
Sono molto interessato al discorso sul finis vitae.
Un abbraccio.
Pino