di Sandro Vitiello
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Oggi sono trent’anni dalla strage di Capaci.
Oggi sono trent’anni che ci hanno portato via Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Vito Montinari. Una bomba enorme messa lì, dai criminali di Cosa Nostra, pochi metri prima dello svincolo di Capaci, tolse la vita all’uomo che per primo aveva costruito le condizioni per scardinare il sistema mafioso siciliano.
Lui che insieme a Paolo Borsellino, ucciso con lo stesso metodo in via D’Amelio meno di due mesi dopo, aveva istruito il maxi processo e che aveva capito che questo non sarebbe bastato.
Giovanni Falcone era temuto dai vertici mafiosi, era temuto da tanti suoi colleghi, era temuto da una certa politica che amava intrallazzare con la criminalità.
Giovanni Falcone era un uomo con la schiena dritta, conosceva il territorio e il modo di pensare dei siciliani; era nato in Sicilia, a Palermo, nel ’39.
Era allievo di Rocco Chinnici, magistrato che capì prima di tutti che la mafia la si combatteva seriamente affrontandola tutta come un cancro da combattere, non rincorrendo i singoli fatti criminali.
Insieme ad Antonino Caponnetto, a Paolo Borsellino ed altri validi magistrati mise insieme il pool antimafia che diede una svolta nel metodo e nella sostanza alla lotta alle bande criminali.
La mafia non era e non è un corpo estraneo al mondo siciliano prima e nazionale poi.
La mafia dialogava con i partiti, con i magistrati, con il mondo degli affari e con la gente comune.
Se non scendevi a patti diventavi un nemico. E in tanti, troppi, hanno abbassato la testa.
Falcone pur avendo portato decine di boss mafiosi alla sbarra, anche grazie alle dichiarazioni dei primi importanti pentiti, e pur avendo visto comminare pesantissime condanne, non si fidava. E quando è stato mandato via da Palermo, perché tanti suoi colleghi gli avevano reso tutto difficile, da Roma, dove era diventato responsabile nazionale della lotta alla mafia, si adoperò affinché il passaggio del maxi processo in cassazione non andasse a finire nelle mani di quei magistrati “ammazza-sentenze” che troppi criminali avevano mandato assolti per vizio di forma o cose simili.
Dopo la definitiva condanna dei vertici mafiosi anche in Cassazione iniziò la stagione delle stragi.
La furia omicida del partito mafioso non si fermò davanti a nulla.
Salvo Lima prima e Ignazio Salvo dopo – esponenti di primo piano della DC siciliana – vennero uccisi perché, come disse Totò Riina, Andreotti non aveva fatto la sua parte per salvare i mafiosi nel processo di Cassazione.
Falcone e Borsellino vennero uccisi perché erano i nemici della mafia.
Le bombe messe in giro per l’Italia, nei pressi dei monumenti o di luoghi pubblici erano il chiaro messaggio per far capire chi comandava davvero.
Ma quelle morti, quelle stragi non rappresentavano solo la risposta rabbiosa di una bestia ferita – la mafia siciliana – ad una forte condanna. C’era molto di più e lo si sarebbe capito nei mesi e negli anni successivi.
Da subito si parlò di una “mente raffinatissima” che aveva diretto l’attacco contro lo Stato.
Le caratteristiche delle bombe usate negli attentati a Falcone e Borsellino fecero pensare a personaggi che non appartenevano al mondo mafioso. Erano troppo sofisticate; là c’era la mano di professionisti.
Uomini sicuramente legati a pezzi delle istituzioni che volevano cambiare il corso della storia.
Uomini che avevano capito che in Italia poteva cambiare tutto.
In altre parti del paese la magistratura diede l’avvio a quella fase chiamata “stagione di mani pulite” dove tutto il sistema dei partiti che sopravviveva dal dopoguerra, venne investito da un’onda che lo avrebbe travolto.
In Sicilia alcuni uomini, presenti anche nelle istituzioni, anche nella magistratura, si diedero da fare per nascondere la verità intorno alla morte dei due magistrati.
E così venne inventato il pentito Gaspare Spatuzza che portò le indagini in una direzione sbagliata.
Perché si doveva nascondere, perché non si sapessero le vere ragioni della morte di Falcone e Borsellino.
Quei due grandi magistrati, quei due grandi uomini non sono morti solamente perché volevano vedere sconfitta la mafia. Falcone e Borsellino sono stati uccisi perché non si sono limitati a colpire i criminali; loro volevano capire e portare alla sbarra quella cattiva politica che aveva sempre viaggiato a braccetto con la mafia.
Ancora oggi tante, troppe domande non hanno trovato risposte, ma se pensiamo a quei giorni di trenta anni fa dobbiamo ricordare la fortissima tensione ideale che attraversò il paese, la rabbia di quanti non sopportavano l’idea che gli uomini simbolo del riscatto siciliano erano stati massacrati in maniera indegna.
In quei giorni alcuni tra i migliori magistrati d’Italia scelsero volontariamente di essere trasferiti in Sicilia per andare a dare manforte ai colleghi. Due fra tutti. Giancarlo Caselli e Ilda Bocassini.
Ricordo la manifestazione di simpatia a Milano nei confronti di Antonino Caponnetto – il capo del pool antimafia – circondato da decine di persone che volevano solo fargli sentire il loro affetto e la loro stima.
E oggi cosa rimane di quegli uomini, di quella stagione?
Rimane la speranza, rimane la voglia di fare, rimane l’impegno di tanti giovani che nei luoghi più diversi raccontano l’importanza della legalità. Rimane l’esempio di associazioni come “Libera” di don Luigi Ciotti che contrastano con grande efficacia la criminalità andando a gestire i terreni e le attività sottratte ai criminali e sottoposte a sequestro.
Non basta, si può fare di più, molto di più.
Ma oggi, a trent’anni di distanza, possiamo dire con forza che il messaggio e l’insegnamento di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Rocco Chinnici, di Peppino Impastato, di Libero Grassi, di Pio La Torre e di tanti altri ancora, non sono andati smarriti.