Proposto da Luigi Narducci
Riceviamo in Redazione da Luigi Narducci e volentieri pubblichiamo una sua nota allegata allo scritto di Marco Revelli.
Sta saltando tutto il sistema di regole definito nella stagione costituzionale dell’immediato secondo dopoguerra e come afferma Marco Revelli viviamo “nel pieno di un travolgente processo di de-costruzione di tutti i dispositivi di intermediazione e di garanzia contro i rischi di una perdita di controllo dei conflitti pazientemente costruiti nei decenni della guerra fredda, per impedire che essa diventasse “calda”. Canali sottili, telefoni rossi, “zone cuscinetto”, accordi macro-regionali di dosaggio degli armamenti, fasce di neutralità, a cominciare da quei paesi simbolo come la Svezia e la Finlandia. Attenta elaborazione diplomatico-istituzionale di un’architettura complessa a supporto della sopravvivenza del pianeta, per neutralizzare la terrificante potenza distruttiva delle armi (atomiche) e le ricorrenti folate di pazzia degli uomini”.
L. N.
Il commento della settimana
di Marco Revelli – Da Il Manifesto – Da: Lunedì Rosso del 16 maggio 2022
Finalmente alcune verità da qualcuno di noi ripetute fin dall’inizio di questa maledetta guerra ma a lungo segregate dietro il muro di propaganda bellica, iniziano faticosamente a filtrare persino nei Palazzi della politica. E cioè che la pace (non più parola proibita) è desiderabile hic et nunc e da perseguire come obiettivo prioritario sul terreno della diplomazia. Che la guerra, tanto più se si trasforma in “guerra d’attrito” come sta avvenendo, fa male a entrambe i contendenti e andrebbe fermata quanto prima.
Che fa male anche, e in misura crescente, all’Europa, la quale non ha gli stessi interessi degli Stati Uniti, che quella guerra vorrebbero prolungarla, ma al contrario ne paga pesantemente il prezzo, in termini economici, politici e geopolitici, come ha fatto capire esplicitamente Macron e più timidamente (molto più timidamente) Draghi.
E poi quello che sanno tutti fin dall’inizio ma non si poteva neppure accennare, e cioè che la tragedia ucraina potrebbe – anzi dovrebbe – essere fermata attraverso un colloquio diretto tra Biden e Putin (la fatidica telefonata evocata o invocata da Draghi) perché si tratta in realtà, dietro la velleità neo-coloniale della Russia, di un confronto “di potenza”, o “tra potenze” che va oltre l’Ucraina. E che è tanto più pericoloso in quanto si tratta di potenze deboli, in declino (una già declinata, la Russia, l’altra declinante, gli Usa), atterrite dal rischio dell’impotenza e per questo incapaci di cedere qualcosa (quel di più di concessione all’altro per permettergli una via d’uscita nel compromesso).
Sono verità sfigurate dall’ambiguità. Segnate dall’ambivalenza, come accade in tempi di decadenza. A cominciare da quelle tre parole, pronunciate dal segretario alla Difesa americano Lloyd Austin al termine del colloquio di un’ora col suo pari-grado russo Sergey Shoigu, e oggi unico piolo a cui appendere le residue speranze di tregua nel massacro: “Cessate il fuoco”. Che in italiano suona insieme come sostantivo (uno stato di fatto auspicato) e come voce verbale, un imperativo presente, indirizzato a chi? All’interlocutore diretto russo, Shoigu e dietro a lui Putin, che suonerebbe come minaccia da Signore a subalterno? All’alleato ucraino Zelensky, come intimazione a rispettare un limite che la comunità internazionale non è disposta a lasciar spostare all’infinito, fino al bordo dell’abisso? A entrambi, sapendo tuttavia che nessuno dei due è nella condizione di cedere neppure un millimetro all’altro, pena la proclamazione di una sconfitta senza rimedio: non Putin, che dopo il prezzo imposto al proprio paese con la guerra, ovvero lanciando il sasso e provocando il bagno di sangue che abbiamo sotto gli occhi, non può ritirare la mano (magari restituendo anche la Crimea).
Ma nemmeno Zelensky, che dopo le montagne di retorica nazionalista con cui è stato alimentato dall’intero Occidente a reti unificate, rischierebbe di essere travolto da quella stessa ondata se solo si arrischiasse a negoziare una “vittoria mutilata”, probabilmente da parte di quelle stesse milizie armate fino ai denti delle nostre armi. Così quella voce che viene dal cuore dell’amministrazione americana resta doppia, lingua biforcuta, contraddetta d’altra parte dai fatti, che parlano di altri 40 miliardi di dollari in aiuti e soprattutto in armi a chi dovrebbe cessare il fuoco, affermando una compattezza tra le due sponde dell’Atlantico che non c’è.
Così come lingua biforcuta appare quella del Presidente del Consiglio italiano, che da una parte afferma che “le persone pensano che cosa possiamo fare per portare la pace“ (e a ognuno viene in mente, finalmente, la diplomazia) ma poi, dall’altra, emana un ennesimo decreto per spedire sul campo di battaglia nuove “armi pesanti” (sic!). E ci chiede di credergli sulla parola quando dice che nel colloquio col leader massimo del nostro Occidente ha perorato la causa urgente della trattativa ed è stato ascoltato, ma lo dice da solo, nella conferenza stampa all’ambasciata italiana (nemmeno un briefing congiunto gli è stato concesso) mentre nel comunicato finale di tutto ciò non vi è traccia, e si parla solo di come il “nostro” abbia contribuito a unire Europa e Stati Uniti all’ombra della Nato in un tripudio di amorosi sensi. Abbiamo così la misura di quanto utile alla causa della nostra democrazia, anzi necessario, sarebbe stato un passaggio parlamentare che affidasse al nostro capo del governo un messaggio chiaro, non equivoco, autorevole per la fonte di provenienza, da consegnare all’alleato reticente.
Tutto questo avviene nel pieno di un travolgente processo di decostruzione di tutti i dispositivi di intermediazione e di garanzia contro i rischi di una perdita di controllo dei conflitti pazientemente costruiti nei decenni della guerra fredda, per impedire che essa diventasse “calda”. Canali sottili, telefoni rossi, “zone cuscinetto”, accordi macro-regionali di dosaggio degli armamenti, fasce di neutralità, a cominciare da quei paesi simbolo come la Svezia e la Finlandia. Attenta elaborazione diplomatico-istituzionale di un’architettura complessa a supporto della sopravvivenza del pianeta, per neutralizzare la terrificante potenza distruttiva delle armi (atomiche) e le ricorrenti folate di pazzia degli uomini.
Tutto questo in pochi anni, poi in pochi mesi, infine in poche settimane è stato lacerato, con una furia impressionante e un cupio dissolvi incomprensibile, fino a oggi, a quest’ultimo passaggio con la corsa degli ultimi due paesi neutrali sotto l’ombrello dell’Alleanza atlantica. Autogol di Putin, certo, che ha lavorato alla propria peggior condizione. Ma pessima notizia per chiunque trepidi per la sorte del pianeta, con la possibile ri-nuclearizzazione di quel residuo braccio di mar Baltico rimasto fino ad oggi “neutrale”. Svedesi e finlandesi si sentiranno più sicuri. Ma il mondo lo sarà sempre di meno.
Immagine di copertina. Macerie, da https://francoinpolitica.com/
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La vignetta di Bucchi da la Repubblica del 17 maggio
Appendice del 17 maggio (cfr. Commento di Enzo Di Fazio)
L’articolo di Bernard Guetta su la Repubblica di oggi (in formato .pdf): Quei cinque no per Putin
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Enzo Di Fazio
17 Maggio 2022 at 21:35
Interessante questo articolo di Marco Revelli per la capacità di fornire una visione d’insieme dell’attuale momento in cui pare che qualcosa si muova per dare spazio al “cessate il fuoco” e al confronto diplomatico di tutte le parti in causa che ne dovrebbe conseguire. Interessante perchè Revelli, tenendosi abbastanza distante dalle posizioni faziose cui stiamo da tempo assistendo, dà l’impressione di invitare tutti ad assumere un ruolo di responsabilità ponendo un limite alle proprie pretese, Zelensky compreso.
Revelli tocca anche la decisione della Svezia e della Finlandia di abbandonare la neutralità per entrare a far parte della Nato vedendola come un’ulteriore brutta notizia pur riconoscendo che a spingere i due paesi nordici verso questa scelta è solo l’atteggiamento aggressivo di Putin.
In merito a questo specifico punto, allo scopo di fornire una visione più ampia della questione che si dibatte in questo momento, propongo la lettura di un articolo pubblicato oggi su Repubblica a firma di Bernard Guetta, giornalista e politico francese.
Guetta smonta il principio della provocazione facendo alcune considerazioni. Ecco qualche passaggio. Innanzitutto Svezia e Finlandia non stanno chiedendo di entrare a far parte della Nato perché pressati dagli Americani ma per fronteggiare l’aggressività di Mosca e poi va sfatato il “complesso dell’accerchiamento”. La Russia, da paese più grande del mondo qual è, se “accerchiata” ad Occidente dall’Europa lo è a Levante dalla Cina, suo principale alleato, e altrove dalla Bielorussia che ricade sotto il suo controllo, dal Caucaso e dall’Asia centrale dove esercita una forte influenza e, naturalmente, dall’Ucraina, dove oggi sta cercando di delineare una zona cuscinetto che vorrebbe annettere. Altra considerazione: l’Ucraina ma anche nessun Paese dell’Alleanza atlantica hanno mai annesso un solo centimetro quadrato di territorio russo e non si sognerebbero mai di farlo, mentre la Russia ha annesso la Crimea e si è legata alla Transnistria, l’Abcasia, l’Ossezia del Sud e un’ampia parte del Donbass.
Per una completa lettura dello scritto di Guetta rimando allo stesso riportato in formato pdf in calce all’articolo di base
Silverio Tomeo
18 Maggio 2022 at 08:26
L’aggressione della Federazione russa all’Ucraina non ha alcuna ragionevole giustificazione. Più di qualche spiegazione senz’altro ce l’ha ed è del tutto lecito ragionarvi su, sempre avendo attenzione alla circostanza che stiamo parlando di eventi tragici in corso e, possibilmente, senza sparare sciocchezze complottiste. Non siamo di fronte a un war game. Dopo di che va chiarito che i pacifisti non sono filo-Putin, mentre i filo-Putin (che pure esistono) non possono considerarsi in alcun modo pacifisti. In ogni caso né bellicisti né rossobruni nei movimenti no war. L’idea, che va prevalendo dopo più di due mesi di conflitto, che Putin possa essere sconfitto solo militarmente e sino in fondo, fa parte di una corsa all’escalation dagli esiti probabilmente catastrofici. Non è una guerra per procura né tantomeno un’azione bellica preventiva, questa è un’aggressione con già migliaia di morti e milioni di profughi e con Bucha come punto di non ritorno.
Il nuovo e difficile movimento per la pace, nato all’indomani del 24 febbraio, punta a una de-escalation del conflitto, a un ruolo autonomo dell’Europa, a una trattativa garantita dagli istituti internazionali, all’assistenza ai profughi, agli aiuti umanitari e non all’invio di armamenti pesanti ed offensivi. Il diritto di resistenza del popolo ucraino è comunque sacrosanto. Che nell’Ucraina vi siano componenti nazionaliste è un fatto così come che nella Russia di Putin vi siano elementi preponderanti di ultranazionalismo. Ma non è un affare regionale, è una guerra in Europa, contro l’Europa, quindi già globale nel nuovo disordine mondiale. Dopo poche settimane dall’invasione aggressiva e sanguinaria, con crimini di guerra già ben documentati, con il fallimento di trattative vere o fasulle, il gioco è passato alle grandi potenze: USA e Nato, con la Cina prudente ma in gioco, un ruolo fiacco della UE, la corsa agli armamenti, l’economia di guerra ormai già in corso.
Nel Donbass vi sono milizie neonaziste? Certo, così come più numerosi e meglio pagati sono i neonazisti tra i mercenari del gruppo Wagner di Putin. I foreign fighters della destra radicale neofascista italiana, ad esempio, sono divisi sui due fronti, intanto imparano l’uso delle armi da guerra e ad uccidere con noncuranza. Si suppone che alcuni torneranno poi in Italia, con questo triste bagaglio di esperienze.
La resistenza legittima degli ucraini non va paragonata alla Resistenza europea che, con la sconfitta del nazifascismo, fu costituente di un nuovo ordine di pace democratico e della stessa Europa dopo il lungo ciclo di trent’anni di conflitti, dalla prima alla seconda guerra mondiale. La distorsione della storia e del suo uso pubblico in merito a questo conflitto riguarda un po’ tutti, dalla retorica di Putin alla parata del giorno della Vittoria a quelle in uso corrente nel campo atlantista.
Già se per miracolo finisse e si fermasse tutto adesso, come d’incanto, questo conflitto, in aggiunta ai due anni di pandemia, produrrà ugualmente per anni e anni conseguenze nefaste in termini di crisi sociale ed economica, oltre a quelle già in corso sulla psiche sociale, sulla guerra guerreggiata delle polemiche pubbliche (da pòlemos, che in greco antico sta per guerra).
La necessaria transizione ecologica, dopo il parziale fallimento del summit di Glasgow, viene ormai messa in mora a causa della crisi energetica.
L’emergenza per la pandemia ed ora per la guerra favorisce la crisi già in atto della democrazia nei Paesi dove comunque esiste una dialettica democratica e delle istituzioni a impronta costituzionale. Come ha affermato un filosofo napoletano stiamo passando dal tempo delle crisi a quello delle catastrofi.
Cosa ci sia nella testa di Putin è già diventato un genere letterario, per mole di pubblicazioni. Siamo di fronte a un apparato ideologico reazionario, tradizionalista, esoterico, neo-imperiale, ed è ridicolo sottovalutarlo. Si va dal nazional-bolscevismo di Alexander Dugin, che si ispira a Julius Evola, quasi il corrispettivo russo di Steve Bannon con cui pure ha colloquiato durante la presidenza Trump, ai pensatori mistici e tradizionalisti precedenti la rivoluzione leninista. Si va da una immaginaria contro-storia parallela all’esaltazione della missione imperiale grande-russa. Soltanto dei nevrotizzati dalla Guerra fredda (finita da trent’anni) possono credere che Putin sia l’esito della mortificazione e dell’implosione dell’URSS per colpa di un cattivo Occidente. Il ’68 libertario, la Nuova sinistra e la maggior parte della sinistra socialcomunista non furono mai né filo-sovietici né filo-atlantici, semmai al fianco dei Paesi non allineati. La russofobia e l’antiamericanismo ideologico, già ben presenti da decenni, escono ora eccitati e rafforzati da questo conflitto. Il pacifismo può avere varie accentuazioni, essere culturalmente plurale, mai essere a senso unico. Un pacifismo attivo, informato, mobilitante, è quello che occorre mettere in atto.
“Il mondo di ieri”, così chiamava Stefan Zweig, in uno struggente memoir, il mondo che precedeva le due Guerre mondiali, quel ciclo rovinoso che assunse poi i caratteri di una guerra civile europea dei trent’anni. Ora la rottura del continuum storico-temporale dall’era pre-pandemica e pre-guerra nel cuore d’Europa alla realtà in atto odierna deve essere ben chiara, senza ricadute regressive.
Silverio Tomeo
Presidente provinciale A.N.P.I. di Lecce
sul “Quotidiano di Puglia” del 17 maggio 2022