di Mazzella Giuseppe di Rurillo
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La mia generazione – quella che nel 1968 aveva più o meno 20 anni – è stata protagonista di una “rivoluzione culturale” nella scuola, nella università, nella fabbrica, che ha avuto effetti positivi nella politica a tutti i livelli, cioè locale e nazionale.
La “rivoluzione” ha avuto consistenza nell’abbattimento dei secolari tabù in materia di amore e rapporto fra i sessi, nel modo di vestire, nel cambiamento dei rapporti in famiglia tra padre e figlio, nel metodo di studio, e – buon ultimo – nella acquisizione del diritto al dissenso rispetto alle convenzioni dominanti in materia religiosa e politica.
Fino al 1968 gli studenti delle scuole superiori e delle università non avevano diritto alle “assemblee”. La politica non poteva entrare nella scuola. I giornali studenteschi prima della distribuzione dovevano avere l’imprimatur del preside.
La chiesa cattolica esercitava una rigorosa educazione dei giovani con l’Azione Cattolica nelle parrocchie che puntava alla formazione di “cattolici democratici” che entravano nella DC mentre alla università c’era la Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana) che univa i futuri uomini e donne della classe politica nella DC.
La contestazione giovanile del ’68 – che dura almeno 5 anni – pone in discussione tutto questo clima sociale e politico o questo “ordine costituito” in una giovane democrazia repubblicana in cui si vota a 21 anni per la Camera e gli enti locali ma a 25 per il Senato.
Nelle famiglie del sud la maggior parte non sente la Repubblica ed è rimasta attaccata alla Monarchia. Il ’68 segna una generazione che “contesta” i padri e le secolari convenzioni sociali.
La “minigonna” per le ragazze è un segno di rivolta come la musica degli “scarafaggi” di Liverpool.
Nelle università nasce l'”assemblea” con il diritto al discorso in pubblico. Gli studenti dicono apertamente la loro contro i “baroni”. Al termine di queste infuocate assemblee per chiedere un’apertura del mondo accademico ad una gioventù che comincia a parlare di politica per un nuovo modello di sviluppo più giusto e umano, la pace nel mondo contro i nuovi imperialismi, un potere repubblicano esteso agli enti locali, il diritto ad un posto di lavoro decente, si approvava il “documento” con le richieste. Non solo. Si manifestavano le idee della gioventù.
Le “assemblee” decidevano l'”occupazione della facoltà”, nominavano la “delegazione” per le trattative con il Rettore o col consiglio di facoltà. Il “documento” era redatto da una “Commissione” ed era al massimo di due cartelle. Veniva ciclostilato e distribuito al maggior numero di studenti ed affisso in tutte le aule.
Ho imparato a fare politica in quel tempo e con quel metodo. Non l’ho più abbandonato. Una “assemblea” o un “convegno” o una “riunione” si dovevano concludere con un “documento”.
La generazione del ’68 aveva molte speranze, grandi utopie, ma aveva adottato un metodo ed aveva le idee chiare. Molto fu conquistato con il “movimento del ’68” ma con amarezza 50 anni dopo rilevo che molto o quasi tutto è andato perduto con un tragico “ricorso storico” che il nostro Giambattista Vico cento e più anni prima aveva lucidamente previsto nel moto disordinato e folle della storia umana.