di Francesco De Luca
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“Regina de lu cielo, putentissima Maistà, chesta grazzia ca te chiedo, fammella pe pietà, fammella o Maria, me la faie pe carità, pe chillu dono ca receviste dalla Santissima Trinità” – rimugina la preghiera la donna mentre, alzatasi dalla sedia accanto a me, si porta alla credenza.
Io guardo con attenzione pur se con un occhio solo perché l’altro mi duole e lacrima. Per questa ragione sono andato da Marietta ’a gaitana.
Papà mi ha indirizzato da lei, dopo che da due giorni non riesco a trovare pace con un occhio che, dapprima ha cominciato a darmi fastidio e poi, nonostante gli accorgimenti adottati, mi lacrima in continuazione e, nell’asciugarlo, mi fa male.
“Vai da Marietta a gaitana – è il suggerimento di papà – so che toglie questi malanni”.
Conoscevo quella donna da piccolo. In chiesa aveva la sua postazione fissa a lato del confessionale, sulla sinistra guardando l’altare.
L’avevo notata perché lei era immancabile nelle cerimonie liturgiche, specie quelle poco frequentate, come i tridui ai Santi o l’Ora Santa. Lei, sempre presente, e anche io, che facevo da chierichetto. Anzi, lo facevo con inappuntabilità perché, lo confesso, ero in competizione con un compagno, altrettanto puntiglioso, Silverio. E dunque, pur se la cerimonia religiosa era monotona e senza le espressioni colorate dai canti e dall’incenso, noi eravamo lì, ad eseguire le direttive del parroco.
Bigotta? Beh sì, era una donna molto legata alle disposizioni religiose, ma sostanziava la sua religiosità con la bontà. Marietta era incline alla bontà nei gesti, nelle parole, nei rapporti. La sua espressione più usuale che teneva nei confronti di me, piccolo chierichetto, era: figliu mio .
Quando entro in casa con l’occhio dolente, sono abbastanza cresciuto. Un giovane, pronto alla vita. Eppure, non appena mi invita a sedere: Assettete cca, figliu mio… perdo la spavalderia e mi ritrovo bambino.
Al comò prende l’ovatta. Sempre biascicando preghiere come una tiritera, mi si avvicina, mi tiene la palpebra aperta e: a nomme ’i Ddio, con l’ovatta mi pulisce l’occhio.
Ho un sobbalzo e serro gli occhi. “Tienilo chiuso col fazzoletto” – mi esorta. Lei si alza e va nella zona cucina a rimestare nel tegame. “Stai un po’ qui ” – dice.
Marietta, la chiamano, nonostante sia una donnona, alta e con la parte bassa del corpo molto pronunciata.
Ha casa giù alla Banchina Di Fazio, a pochi metri dal mare, dove il marito tiene ormeggiata la sua barchetta a remi.
Scassascoglie ( rompiscogli ) viene chiamato il marito per via che pesca preferibilmente col tridente (’u lanzaturo) e a causa di ciò va rasentando la costa e gli scogli affioranti (i chiane) in cerca di polpetti, qualche scorfano, seppie, sogliole, insomma pesci che pascolano intorno agli scogli. Contro i quali è quasi inevitabile non intruppare.
La casa è di una sobrietà eccessiva. Un grande ambiente con luce sul davanti, tramite la porta d’ingresso, e una finestra dietro, a ridosso della montagna. La zona letto è delimitata da un sipario di stoffa, con letto, comodini, comò e armadio. In mezzo allo stanzone tavolo e sedie. La zona cucina è aperta, sopra un marmo fornelli a gas, a fianco una credenza. Qualche quadro alle pareti e su un tavolino, come un altarino, le immagini dei defunti, del Sacro Cuore e, sotto una cupolina di vetro, l’Addolorata.
Fotografo tutto, nonostante sia guercio, forse proprio per questo.
Mi si avvicina, mi carezza il capo e: “Adesso apri l’occhio”. Lo faccio. Non sento alcun fastidio. “Era un granello di sabbia che s’era aggrappato alla pupilla. Stai attento”.
La ringrazio, saluto e vado via. Ero entrato con l’esuberanza della gioventù ed esco con la timidezza dell’infanzia.
A casa mamma mi consiglia di comprare pasta, caffè, scatole di pomodori, e di portarglieli per ringraziamento. Lei non accetta denaro.
Eseguo il compito ma sento di dovermi preparare all’incontro. Sono laureando, pronto alla professione. Ho rigettato scientemente i padroni del pensiero e i signori del credo e indago la realtà per cercarne il nesso, eppure quando entro in casa di Marietta perdo ogni baldanza.
Rimango confuso da quell’ambiente scarno e completo di sé, dalla schiettezza di Marietta nella sua povertà e serenità.
“Statte accorto, figliu mio” – mi saluta. E io esco, disorientato.
Come si combina, il mondo essenziale e devoto di Marietta, col mondo che rutila di fronzoli e slogan, che si ingozza di bugie e spreca lussi?
Esco, e la moltitudine dei turisti mi ingloba, mi toglie l’identità.
Dovrò lottare se vorrò conciliare la bellezza di una vita vera nella sua essenzialità con la bugiarda verità di quanto mi circonda.