Zoologia

Delfini e balene, esseri straordinari e misteriosi (1)

proposto da Sandro Russo

 .

Questo è l’effetto che mi ha fatto riprendere in mano il libro e i temi di Horcynus Orca. Che sono ricaduto nella antica fascinazione per i delfini e le balene, di cui disquisisce dottamente nel romanzo il signor Cama, il Delegato di Spiaggia. Fonte di tutte le conoscenze ittiologiche di ’Ndria e di tutti i pellisquadre dello Scill’e Cariddi.  

Qui – come introduzione alla bella messa a punto di Marco Belpoliti su Delfini e Balene – si raccontano dall’Horcynus gli eventi del 17 agosto del ’43, prima del ritorno a casa di ’Ndrìa, e si parla del grande esodo di fere, mai visto prima d’allora, da Malta verso i duemari (il mare dello Stretto), visto-con-gli-occhi da Caitanello e raccontato al figlio. Adunata che preannuncia la resa dei conti con l’Orca… Ma le digressioni e gli andirivieni temporali sono abituali in D’Arrigo.

Proprio il signor Cama, che “per trent’anni aveva fatto solo imbarchi oceanici” e “tutti i suoi anni di imbarco li aveva passati oceanoceano”. (…) “Il signor Cama e il suo famoso libro colorato (scritto in inglese – ndr), dove tutte le fere erano fotografate e pittate tra le pagine, e di là non potevano scappare…”

“Difatti, era naturale che un libro di quel genere gli smuovesse la fantasia più ai muccusi che ai pellisquadre: un libro tutt’a scene colorate di bianco come bianco di latte, del bianco di quell’eterno mistero che ai loro occhi e alla loro mente erano neve e ghiacci e ghiacciai per cui tante volte nemmeno si aveva idea dell’oceano, e tutt’a figure di giganti marini, giganti chi di mole, chi di ferocia e chi d’intelligenza, animali tutti fenomenali, e la loro impressionante fenomenalità cominciava dal fatto che respiravano mezzo a pesce e mezzo a  uomo, e come in conseguenza del fatto che avevano il sangue caldo non facevano che assaltare, sbranare, lottare e mangiarsi anche fra di loro, in certe scene che a prima vista si tratteneva il fiato per lo spavento e veniva d’istinto di fare un passo indietro, muccusi e muccuselli, giudicando dal libro del signor Cama, erano persuasi che nell’oceano non vivessero pesci cristiani, pescicelli dello stampo di quelli che vivevano sullo scill’e cariddi: ope, triglie, saraghi, cernie, sgombri, tanto per dire, ma pensavano che ci vivessero solo gli animaloni che vedevano all’opera fra le pagine del libro, come draghi d’acqua, draghi e persino liocorni, perché tale e quale a un liocorno dell’opera dei Pupi gli appariva un certo narvalo, impressionantissimo col suo dente fuoruscito e prolungato in avanti come una lancia appuntita, lunga perlomeno un metro e mezzo. Per questo forse la fotografia più guardata del libro era quella dove si vedeva un muccusello esquimese molto bellicchio, coi capelli sulla fronte, a frangetta, che impugnava il dentone del narvalo conficcato per terra, che era più alto di lui di almeno due teste. L’esquimesello sorrideva con l’aria di sapere con quanta invidia e ammirazione lo guardavano i muccuselli della lontana Cariddi, invidia per la fortuna che gli era toccata a toccare con mano il magico dentelancia del narvalo, e ammirazione per il coraggio, anzi noncuranza, con cui lo toccava.

Col signor Cama che s’era fatto l’occhio all’epoca giovanile, ma non l’aiutava più la vista, fecero così: Caitanello o un altro con uguali occhi di falcone, scandagliava per lui le fere, là in fondo allo scill’e cariddi, manmano che ognuno di quei branchi, scuole e colonie, ingrediava da Malta verso la linea dei due mari, e il signor Cama allora dall’inchiavatura e dal variopintume della loro pelle, quasi fossero divise e insegne soldatesche, scudi scolpiti e piumaggi di elmi, ne smorfiava la razza, connotati, provenienza, e le appellava per quelle che erano.
Caitanello con la mano a parocchio scrutava sullo scill’e cariddi fra gli schieramenti che s’avanzavano da Malta, scrutava e scrutando, riferiva al Delegato di Spiaggia:
«Oh grandiddio, grandiddio…» esclamò subito impallidendo per l’emozione. «oh grandiddio, che dovevano vedere gli occhi miei prima di chiudersi, oh grandiddio, che spopolo di fere, che spavento di cristiani, che barbara meraviglia a vedersi…» «Ma che vedete? Si può sapere che vedete?» gli fece il signor Cama, che era l’unico a non arrivarci con la vista, mentre gli altri pellisquadre intorno a lui, chi più chi meno, vedevano quello che vedeva Caitanello Cambrìa e si spiegavano la sua agitazione. «Uno spopolo di fere, questo vedo, signor Cama, glielo dissi a vossia. Vedo una marea lunga lunga di quelle malanova che volieggiano per qua variopintamente. Potentiddio, tante e tali razze di fere esistevano al mondo? Ma da dove scasarono? Ma quante razze saranno?» [1].

Nello spirito di quell’arcamelecca di librone del signor Cama riporto – necessariamente in più puntate, ma non più di tre – una dotta e interessante messa a punto (insieme scientifica, letteraria e mitologica) di Marco Belpoliti [2], pubblicato su la Repubblica di qualche anno fa e nella eccellente rivista on-line www.doppiozero.com su cui, a firma di Belpoliti, si trovano anche altre monografie su animali.

Perché dei delfini non ne sapremo mai abbastanza
di Marco Belpoliti – la Repubblica del 28 gennaio 2021

Non solo nuotano liberi negli oceani, ma da sempre abitano i nostri miti e costituiscono un’immagine positiva di prudenza, saggezza e agilità. Apparsi milioni di anni fa, questi mammiferi molto studiati dagli scienziati nascondono ancora tanti misteri. Eppure di cose curiose su di loro ne sappiamo già: hanno una vita sociale, addormentano metà cervello alla volta per riposarsi e riescono persino a cambiare forma degli occhi per vederci meglio. Il fatto di non poterli osservare nel loro habitat, però, rimane un ostacolo ancora da superare

A vederlo non ci si crede. Uno dei primi antenati del delfino è un mammifero con il muso simile a un topo, quattro gambe e una lunga coda, e le unghie come un cervo. Si chiama Indohyus. Prove molecolari ci dicono che sarebbe il precursore dei cetacei, e perciò anche delle balene. Apparteneva alla famiglia degli artiodattili, animali con un numero di dita pari, nota come Raoellidae. Quando veniva minacciato si gettava in acqua sulle coste della Tetide, l’oceano che esisteva a quel tempo, di cui restano secondo alcuni tracce in corrispondenza dell’Oceano Indiano risalenti a 48 milioni di anni fa. Allora un comune gruppo di antenati terrestri viveva in zone paludose con canali fluviali, prima di passare definitivamente al mare.

Indohyus

Se vogliamo andare più indietro, a 53 milioni di anni fa, nell’Eocene, ci sono i pakicetidi. Tutte le particolarità di questi animali si ritrovano oggi nei delfini: nuotatori provetti, narici a fessura, struttura delle ossa dell’orecchio e i denti triangolari e seghettati. Qualche anno fa in Pakistan sono stati ritrovati dei resti fossili di un mammifero che è un incrocio con un coccodrillo: Ambulocetus.
Insomma i nostri delfini attuali sono gli eredi di animali remotissimi di cui conservano alcune caratteristiche peculiari. Gli zoologi, poi, sostengono che l’animale terrestre maggiormente imparentato con loro è l’ippopotamo, che trascorre molto tempo in acqua e che si è adattato a una situazione che ha finito per plasmare i delfini e le balene così come oggi ci appaiono.

Circa 35 milioni di anni fa gli animali che chiamiamo oggi delfini abbandonarono la terraferma per diventare creature marine.
Come scrive Alan Rauch, studioso di biologia e oggi insegnante di inglese nella università della North Carolina in un bel libro, Il delfino (traduzione italiana di Fiorenza Conte, Nottetempo, 281 pagine) [3], sembra una mossa evolutiva con pochissime possibilità di riuscita. Invece no. Ha funzionato. Del resto noi veniamo da lì, dal mare, e per diventare quello che siamo diventati ci siamo ancorati saldamente alla terra, al suolo asciutto. I delfini e le balene hanno fatto il contrario e ci sono riusciti. Dieci milioni di anni dopo sono diventati le creature eleganti, leggere e saettanti nel mare e nei fiumi del Pianeta che amiamo. E sono, nonostante la caccia che gli abbiamo dato per millenni, sulla cresta dell’onda, non solo in senso figurato. Se poi si pensa che i nostri antenati diretti cominciano a emergere dal magma del passato solo due milioni di anni fa per diventare l’Homo sapiens iniziale, si capisce quanto siamo distanti anche temporalmente da questi nostri cugini cetacei.

Lo scheletro di un pakicetide

I delfini e le loro famiglie allargate
Eppure, scrive Rauch, per quanto uomini e delfini si siano evoluti nell’ambito di due diverse solitudini, i delfini sono tra gli animali più amati nel corso della storia dell’umanità. Forse non come i cani e i gatti, ma poco ci manca; e solo perché non siamo noi stessi animali acquatici, anzi spesso temiamo l’acqua; questo ce li rende misteriosi, oltre che dei beniamini, soprattutto per i bambini.

A quale ordine appartengono i Delfini? Sono Cetacei, ovvero dei mammiferi marini, che si dividono in due grandi specie: Misticeti e Odontoceti. Senza inoltrarci troppo in queste tassonomie, che hanno un loro indubbio fascino e che sono anche in grande movimento (le tradizionali classificazioni sono state messe in discussione dalla tassonomia cladistica e dalle tecniche molecolari), gli Odontoceti, cui appartengono i delfini, sono mammiferi d’acqua provvisti di denti e di un unico sfiatatoio e privi di fanoni come invece i Misticeti (si veda Hasoram Shirihai e Brett Jarret, Balene, delfini e foche, traduzione di Melani Traini, Ricca editore).
Ci sono dieci famiglie e i Delfini Oceanici e gli Zifidi sono le più grandi per numero di specie; il capodoglio, anche lui un Odontoceto, costituisce una famiglia a sé. Poi ci sono le famiglie dei Delfini di fiume: Beluga e Narvalo (due specie), Focene (sei specie) e Delfini (più di 36 specie e 17 generi, e ogni anno se ne scoprono di nuove).

La storia dell’evoluzione dei mammiferi è affascinante e sorprendente, come sa chi è appassionato di questi temi. I primi mammiferi si sono evoluti da un gruppo di rettili chiamati sinapsidi circa 125 milioni di anni fa (anche qui i cambiamenti di definizioni e le scoperte di fossili sono continue).
I mammiferi hanno cinque principali caratteristiche: respirano aria; hanno una peluria sul corpo, che serve anche come elemento tattile (le vibrisse, ad esempio); hanno un cuore a quattro camere, che mantiene una temperatura costante in tutto il corpo; si riproducono attraverso una struttura placentare invece che usare l’uovo esterno, per cui partoriscono i piccoli vivi e completamente formati; allattano la prole con il latte prodotto dalle femmine attraverso le ghiandole mammarie. Per molti secoli i delfini sono stati considerati alternativamente pesci o mammiferi. Anche qui, senza entrare nei dettagli anatomici, sia le balene che i delfini sembrano senza peli, totalmente glabri, invece visti da vicino hanno follicoli piliferi e alcune specie persino dei baffi.

Beluga

L’anatomia e intelligenza dei delfini
Entrando a vivere nell’acqua hanno trasformato nel corso di milioni di anni la loro forma per fare meno attrito possibile. Sotto la pelle hanno un tegumento, che è uno strato di grasso che contiene dei lipidi e collagene: una vera tuta isolante, così le ghiandole mammarie sono nascoste sui lati mentre il pene è dentro il corpo ed esce durante l’accoppiamento attraverso una fessura.

Se leggerete il libro di Rauch, scoprirete come fanno ad allattare i piccoli, come respirano e dove hanno l’ombelico. Tutte cose stupefacenti. Gli occhi poi sono un capolavoro. Come fanno a vedere nell’acqua salata dato che non sono pesci? Sono anche in grado di mutarne la forma normalmente piatta in sferica, così da avere una visione stereoscopica in avanti e di lato, facendo sporgere leggermente gli occhi dalle orbite quando escono dall’acqua.

Mentre tutti i mammiferi normalmente dormono chiudendo tutti gli occhi, i delfini hanno un occhio aperto nel sonno, e hanno la capacità di mettere in uno stato di riposo metà cervello alla volta, poiché a differenza degli altri mammiferi non respirano in modo automatico (in noi è il sistema nervoso detto vago a farci respirare in automatico mentre riposiamo addormentati). Insomma, sono pieni di sorprese per chi li ha studiati a lungo.


Note

[1] – Da Horcynus Orca, di Stefano D’Arrigo. Brani estratti dalla prima edizione (Mondadori, 1975); pagg. 500 e segg

[2] – Marco Belpoliti. 1954; scrittore, critico letterario e professore universitario italiano. Sul sito l’abbiamo ospitato più volte… per un articolo sulle farfalle e come uno dei critici più acuti, informati e empatici di Primo Levi. i suoi interessi sono molteplici: anche sul sito un suo articolo sul Linguaggio dei gesti. Addirittura sulla poesia dei bambini.

[3] – Il libro Il delfino di Alan Rauch (Nottetempo ed.; 2018) – Alan Rauch insegna Inglese a Charlotte, presso l’Università della North Carolina. Studioso dei delfini e dei cetacei, nelle sue ricerche indaga il rapporto tra scienza, tecnologia e letteratura.
“Con le sue acrobazie acquatiche, la sua figura elegante e sinuosa, la natura socievole, le raffinate strategie di comunicazione che lo caratterizzano, il delfino ha da sempre affascinato l’uomo ed è penetrato durevolmente nella sua vita e nel suo immaginario. Questo libro ci immerge nella storia biologica e naturale dell’animale e, al contempo, nei molteplici aspetti della sua penetrazione nel mondo mitologico, artistico e culturale, cercando di approfondire le ragioni dell’attrazione millenaria che ci lega a queste straordinarie creature, dall’iconografia del mondo mediterraneo alla dea fluviale del Gange, dai bestiari alle storie naturali illustrate, dalla letteratura alle arti e alla cultura di massa” (dalla presentazione del libro, a cura della casa editrice).
Con 91 illustrazioni, 75 a colori – Traduzione di Fiorenza Conte

[Delfini e Balene (1) – Continua qui]

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