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L’avevo promesso – qui e qui – e do seguito al mio proposito
Si parlava di Napoli nella Storia raccontata dai film. Le Quattro giornate di Napoli di Nanni Loy (1962) (1) è il film più centrato sui fatti di Napoli del ’43.
Collateralmente possiamo avere un’idea della Storia raccontata dalla letteratura. E le pagine che propongo per avere uno squarcio sulla stessa vicenda sono tratte da Horcynus Orca (2), di Stefano D’Arrigo, un gran romanzo, capolavoro misconosciuto della letteratura italiana; non lo dico io, lo dice George Steiner, in due articoli, nel secondo dei quali abbiamo anche raccolto tutti i precedenti approfondimenti del romanzo sul sito (qui) , curati da Tea Ranno e da me stesso.
Per entrare in argomento sono 14 pagine suddivise in due parti, raccolte in un .pdf complessivo finale (3).
Bisogna premettere che tutta la vicenda, com’è racconta nel libro, prende le mosse da un ricordo di ’Ndria nel dormiveglia che segue ad un lungo colloquio col padre Caitanello. Quest’ultimo, stremato dalle emozioni per i fatti che ha raccontato al figlio, si addormenta con la mano nella sua. È appunto la mano, com’è messa, che risveglia in ’Nndria il ricordo dei fatti cui ha assistito qualche giorno prima a Napoli.
Ecco il testo.
S’addormentarono così: stretti per mano, suo padre al suo solito lato di marito, e lui al suo solito posto dalla parte del muro, nel lato che era stato dell’Acitana. Ecco che siamo tutti e due al punto di prima, pensò per ultimo: anzi, tutti e tre.
Ma il tedesco, il tedesco che aveva avuto davanti agli occhi sino a quel momento, dove lo metteva? Anche se suo padre, poteva figurarselo padre, poteva figurarsi l’incazzatoria che si sarebbe pigliato casomai se ne fosse scandaliato, non poteva fare a meno di dire di quel tedesco che gli era tornato davanti agli occhi, lui e la sua mano allungata in avanti, lui e la sua pazza, scellerata pretesa di dare e di ricevere una stretta di mano, lui, come un qualsiasi altro cristiano: doveva dire di quel tedesco che gli era tornato davanti agli occhi, e c’era rimasto per tutto il tempo che Caitanello era andato tormentandosi con la sua mano destra, di quel tedesco riportatogli indietro dallo stesso Caitanello, dallo stesso suo modo di porgere la destra, nello stesso attimo in cui, a conclusione di tutto quello sproloquio sulla stretta di mano, si faceva avanti a mano tesa: lo stesso preciso identico modo di dare la mano che aveva quel tedesco, non a palma rovesciata ma di taglio, puntata come una pistola, con quattro dita strette insieme per canna e il pollice alzato a grilletto in posizione di sparo.
Caitanello si faceva avanti e lui lo fissava sconcertato, prima lui e poi la sua mano, sempre più e solo la sua mano, il suo modo di dare la mano. Guardava imbambolato quella mano impistolata che suo padre gli puntava contro mentre s’avanzava sparandogli in faccia a freddo, quella proposta sconclusionata di stretta di mano. Subito, si creava in lui come uno sbalordimento causato dal ricordo di quell’altra mano impistolata che in quel momento gli passava davanti agli occhi della mente ed era come se si accavallasse a questa che vedeva con gli occhi della testa, sinché le due mani, macchiate tutte e due di sangue, quella di suo padre del sangue della fera, quella del tedesco del sangue suo proprio, non combaciavano tanto perfettamente e tanto enimmaticamente, da sembrare una sola.
La mano tesa del tedesco di Napoli, la mano lorda, bruciacchiata e sanguinante, del tedesco biondo che sbucava dalla bocca fumigante del suo carrarmato come dalla bocca dell’inferno: dalla torretta girava intorno per un attimo gli occhi di belva stanata, che non sa più dove scappare, e poi il pazzo scellerato scopriva i denti bianchissimi e puntuti in una infame, agghiacciante smorfia di sorriso, saltava giù dal Tigre, con le braccia incrociate si sbatteva la divisa per soffocare le fiammelle che si sprigionavano qui e là, dalle macchie d’olio e di grasso, e fatto questo, sempre col suo svergognato sorriso sulle labbra, il pazzo scellerato veniva avanti a offrire in giro la sua maledetta mano, come se gli scugnizzi che lo accerchiavano armati di. mitra, moschetti e bombe a mano, fossero tutta una cerchia di amici suoi.
E quelli invece si vedeva che seguivano già i suoi ultimi movimenti di vita, seguivano gli ultimi istanti di quello che a quell’ora, quel giorno, era forse l’ultimo tedesco ancora vivo per Napoli. Lo seguivano con una fitta dura diamantina tenera feroce vellutata bramosa malinconia di sguardi. Lo seguivano come fosse già morto, con la sola curiosità di vedere come moriva, vedere come moriva uno che aveva come per vizio l’abitudine di vedere morire sempre gli altri; vederlo tra qui e un minuto, tra qui e quando moriva, solo questo, perché, quanto a vederlo morto, per gli scugnizzi era come fosse già morto, come gli avessero già dato la morte che stavano per dargli. Lo seguivano così e non avevano fretta: che fretta c’è quando tutto è morto e non può più rivivere o quando tutto è vivo e non può più morire?
Doveva essere il ventinove di settembre, perché quella notte, verso l’alba, i tedeschi del Vomero pigliarono a cannoneggiare alla traditora sulla città e subito si capì che c’era del vendicativo in quelle cannonate, e poi si seppe difatti che il famoso colonnello Sciò e sarebbe a dire Scholl, quello insomma che si vedeva scritto sotto i manifesti per il lavoro obbligatorio, si era tirato il paro e disparo e in cambio della vita sua e dei soldati che gli restavano, aveva rilasciato gli ostaggi che teneva al Campo Sportivo, e così avevano potuto uscire dalla città; però lo stesso, resa o non resa, gli scugnizzi gli imposero di alzare bandiera bianca, mentre se ne andavano con la coda fra le gambe. E doveva essere il ventinove, perché il giorno che seguì, non ci furono più i tedeschi e non ci furono ancora gli americani e quel giorno passò quasi interamente pieno della vita delle donne che arrancavano, la più parte per il Vomero, per il Campo Sportivo, con gli occhi di fuori, le mani tra i denti, scapigliate, correndo dove veniva segnalato un ferito o scoperto un morto: con le mani nei capelli, correvano a vedere se conoscevano quello, se riconoscevano questo, e intanto che correvano, madrifigliesorellemogliamantizite, lo piangevano tutte insieme come fosse figliopadrefratellomaritamantezito a tutte. Comparivano e scomparivano fra i palazzi crollati e i montarozzi di macerie, nere e scarmigliate, grasse e magre, vecchie e giovani, come le inseguisse o inseguissero qualcuno. Esse sole ormai, quelle madrifigliesorellemogliamantizite, avevano fretta, esse sole ormai correvano per Napoli, anche se chi le inseguiva o chi esse inseguivano, era la Morte, e che fretta c’era con la Morte?
Ma quelle erano madrifigliesorellemogliamantizite e quelle nemmeno con la Morte sentono ragione e la Morte, o la inseguono col coltello fra i denti o si fanno inseguire col coltello ficcato nel cuore.
E poi, il giorno dopo che era il primo d’ottobre, finalmente arrivarono da Torre del Greco le prime camionette inglesi e americane e sopra le camionette, sul davanti, con mitra moschetti e tricolore c’erano, e giustamente, scugnizzi e guaglioni, fra i quali lui riconobbe qualcuno di questi qua che ora facevano cerchio attorno al carrista tedesco, facevano questo cerchio furentemente, disastrosamente silenzioso.
Sì, era il ventinove di settembre ed era finita ormai, quasi finita: erano finiti i tedeschi vivi per Napoli, se si eccettuavano quelli che tenevano gli ostaggi al Campo Sportivo, e se sí eccettuava questo qui, che per mododidire si poteva dirlo ancora vivo. Questo qui, col suo Tigre, faceva parte d’un’ultima colonna di carri e blindo, che qualche ora prima avevano attraversato la città per salire al Vomero e di là uscire a nord; questo qui però, forse per qualche guasto, aveva perso il contatto con la colonna ed era rimasto, per disgrazia sua, isolato; isolato, ma non solo, perché la compagnia gli venne subito.
Gli scugnizzi difatti, gli dettero la prima grossa intronata a Tigre e tigrotti, mentre il carrarmato faceva ancora la grande e deserta via Roma, venendo ad andatura sostenuta tra le macerie e gli scheletri dei palazzi bombardati, come per riguadagnare il tempo perso e ricongiungersi alla colonna che saliva per il Vomero. Ma quando lui, ‘Ndrja, arrivò là, attirato dal giocofoco che facevano gli scugnizzi con le bombe a mano, il Tigre si muoveva a zigzag come uno scarafaggione e il Vomero ormai se lo poteva scordare, perché ormai scendeva a mare invece di salire a monte, scendeva e scendeva a gettasangue, tutto strambato, con la torretta che ancora mandava fumo. Gli scugnizzi svolazzavano come passeri sempre alla sua altezza, rasente alle macerie dei palazzi, entrando e uscendo dai ripari, e ogni volta che se lo facevano abbordabile, bersagliavano l’animalone carrarmato allora faceva veramente come uno scarafaggione impazzito di paura. A ogni manciata di bombe che gli tiravano, traballava tutto e poi si sbragava per terra come fosse immobilizzato per sempre, ma non si faceva in tempo a pensarlo che quello risuscitava: girava a folle, scappava in avanti, rinculava e poi sbandando, ripigliava la marcia con grande sconquasso. Però, doveva essere proprio questo che volevano gli scugnizzi, e si vide difatti che era questo, si vide che volevano portarselo in parte appartata, portarselo qua dove l’avevano portato: sennò che ci mettevano a posargli due bombe fra i cingoli? Il coraggio lo avevano, ne avevano tanto, che il meglio di loro, marinai sbarcati e soldati sbandati, che gli stavano alle spalle e li vedevano all’opera, si sentiva un vigliacco. Né si poteva dire che gli mancasse la capacità perché, fra l’altro, era spettacoloso come si giostravano con le bombe a mano quei muccusi, si giostravano con tale naturalezza, freddezza e maneggevolezza, che quelle terribilio nelle loro mani sembravano addirittura pietrebambine, e quest’impressione non la davano solo quando le tiravano, ma anche quando se le portavano alla bocca per strappare coi denti la spoletta e questo, almeno a lui, gli ricordava l’alliffatina con la lingua che davano alle pietrebambine, persuasi che così slittassero meglio e più a lungo alla superficie del mare.
Insomma, sapevano loro dove e quando metterlo fuori combattimento, intanto la direzione per dove andava, gliela imponevano loro a colpi di bombe a mano, come fa a forza di schioccare la frusta il cocchiere col cavallo che vorrebbe scartare ora a destra ora a sinistra. Così lo straviavano dalle strade battute dalle colonne, lo straviavano dai piedi del Vomero, lo ronzavano in avanti, sempre avanti per via Roma, tanto che pareva addirittura che gli scugnizzi mirassero a ronzarlo sino a là in fondo dove si vedeva azzurro d’acqua sotto nuvole bianche, mirassero cioè a precipitarlo in fondo in fondo a quell’azzurro che era il mare: come mirassero, in altre parole, a fargli fare precisamente la fine che si fa fare agli scarafaggioni quando si vuole essere sicuri che non fanno finta di morire, ma muoiono veramente. Gli scugnizzi però, sapevano benissimo che nella pancia corazzata dello scarafaggione c’era un tigre e agli agnelluzzi non gli pareva vero di avere una belva ancora viva o almeno più viva che morta, in loro balìa: era un evento raro, se ne rendevano conto, e per questo avevano deciso di onorarlo, per questo avevano pensato, il tigre, di portarlo in un posto che conoscevano loro, scognito, fuorimano, dove se la potevano godere con agio, la belva scambiata di posto con loro, potevano strappargli il cuore al tigre e mangiarselo ancora caldo, fumante di sangue, e poi sbranarlo tutto, pezzettino a pezzettino, dente per dente, senza pericolo di essere assaliti dalle altre belve ancora sciolte.
C’era però un Sottocapo di Vietri persuasissimo che gli scugnizzi ci tentavano, eccome, s’accanivano anzi, cercando di metterlo fuori combattimento, ma il fatto era, secondo lui, che il carrarmato aveva gli spiriti. Tiene gli spiriti, diceva. Non ci sta niente a fare, tiene gli spiriti. E non lo diceva tanto per dire, ma intendeva dire di fatto che laddèntro non poteva esserci vivo più nessuno dell’equipaggio, dopo la bomba che uno degli scugnizzi gli aveva ammollato dentro la torretta. Eccolo là, diceva il Sottocapo, eccolo là, quello, quel guaglione là fece quella grandezza di cosa, quello, quello là che fischia all’amico dall’altra parte della strada e ride tutto sdentato.
Lo vedete? Ride sempre, rideva pure in quel momento… Ma chi? Quello con la stampella? Quello, quello… Vi credete forse che la stampella gli fa d’impedimento? E vi pare che i suoi compagni gli affidavano a lui un’impresa del genere se sapevano che la stampella gli era di qualche impedimento? Quello pare che ci nascette con la stampella. Eppoi, la bomba, su di un piede andò a gettargliela, la stampella la lasciò là, in quella buca dove s’era ficcato lungo disteso aspettando il carrarmato. Sapete che fece quando il carrarmato gli passò accanto pelo pelo? Saltò all’impiede, all’impiede, mi seguite? e sopra quel solo piede fece due, tre saltelli di corsa dietro al carrarmato con una tale naturalezza, da sembrare quasi che andava su di un piede solo per non fare rumore, e dopo tre saltelli gl’imbucò la bomba giusta giusta nella torretta e sdirupò a faccia a terra, poi girò la testa e rideva, come ride ora, lo vedete?
E intanto c’era stato uno scoppio che aveva fatto traballare tremendamente il carrarmato, insieme a una gran fiammata e poi a una fumata nera nera. Quel guaglione là, proprio quello là, gli aveva dato lo stop al Tigrone: al Tigrone e di conseguenza ai tigrotti che gli stavano nel ventre d’acciaio e sino a quel momento lo manovrarono e ora, c’era da pensare, non potevano più. Invece, passano secondi, gli scugnizzi si vanno avvicinando e tutt’all’improvviso pare che al carrarmato gli pigliano le convulsioni, gira, rigira, va avanti, rincula e finalmente parte di carriera. E chi lo manovrava se non erano gli spiriti? Qualcuno dei tedeschi ancora vivo, per caso? Ma allora non doveva trattarsi d’un tedesco solo, bensì d’un tedesco e mezzo, e figurarsi che ne veniva fuori, un diavolo perlomeno. E difatti eccolo qui il diavolo. Però, aveva ragione lo stesso il Sottocapo di Vietri a dire che il carrarmato teneva gli spiriti, anche se c’era qualcuno ancora vivo laddèntro, qualcuno che non doveva essere il pilota, ma che s’era messo al posto del pilota e pilotava, anche se pilotava talmente all’orbisca che certi momenti faceva pensare che il Tigre non aveva nemmeno bisogno degli spiriti per essere manovrato, perché certe volte dava come l’impressione di manovrarsi da solo, quasi andasse avanti a corda con la carica che gli avevano dato i tedeschi, incantandosi e disincantandosi ogni volta che le bombe gli davano un’intronata. Ma anche con questo qui ancora vivo, aveva ragione lo stesso il Sottocapo a dire che il Tigre teneva gli spiriti, aveva più ragione così, che se dentro al carrarmato fossero stati effettivamente tutti morti: perché erano veramente gli spiriti che manovravano il carrarmato, solo che erano gli spiriti di questo qui, i suoi settespiriti di gatto selvaggio incorporati in quel macchinone di morte e distruzione. Gli spiriti, il diavolo, sia pure, ma gli spiriti del diavolo durarono sinché gli scugnizzi non lo straviarono sino in pizzo al mare, dalle parti della famosa Santa Lucia: qui, in questo spiazzale subissato di macerie, isolato e come nascosto fra le carcasse vuote dei palazzi intorno. E qui glielo misero veramente lo stop: anzi, se n’incaricò uno solo, quello, sempre quello, quello con la stampella, quello che rideva tutto sdentato. Lo videro all’opera. Mentre il carrarmato si scarrozzava facendo saliscendi fra i montarozzi di pietre mattoni e calcinacci, lo scugnizzo corse in avanti, facendo equilibrismi fra le macerie, andò scendendo in una specie di fossa fra i montarozzi di macerie e si fermò in un punto dove gli vedevano il busto che aveva stretto come una tavola, come se spalle e petto fossero tuttuno: il guaglione, un muccusello che poteva avere una tredicina d’anni, armeggiò con le mani e si capì che faceva la pipì.
Potenza divina, per quello s’era appartato? Per quello era andato avanti di corsa per non restare indietro mentre faceva la pipì? Rideva, girando la testa all’indietro, i suoi compagni alloccavano verso di lui, perché il Tigre andava dalla sua parte e lui pareva che non se ne fosse minimamente scandaliato, pareva però: quello aveva gli occhi che ci vedevano pure di dietro, e la mente, la mente l’aveva di Napoleone. Difatti, quando il carrarmato arrivò sul montarozzo e fu preciso preciso in bilico, lo scugnizzo si rigirò che aveva già la bomba in mano, se la portò alla bocca strappandole la spoletta e poi gliela scaraventò sotto la pancia all’animalone.
Con quello m’arruolerei a occhi chiusi, disse in quel momento qualcuno del fu Esercito o della fu Marina italiana. Il Tigre si sconquassò per il montarozzo, franando poi in una specie di fossa fra le macerie, mentre qui e là cominciavano a lingueggiare delle fiammelle come fosse sul punto di incendiarsi.
L’amico allora saltò fuori e come pigliato alla sprovvista, come se dal carrarmato non avesse potuto spiare nemmeno una volta di fuori, né dalla feritoia del pilota né dal periscopio, alla vista degli scugnizzi che subito l’avevano accerchiato, si lasciò sfuggire quell’occhiata sopraccigliata, tutta parlante della sua meraviglia. Questi pezzenti guagliò, parlava, si parlava occhiando intorno da dentro la sua meraviglia, questi muccusi con la bocca che gli puzzava ancora di latte, questi miserabili scugnizzi con le ossa fuori della pelle, chi mutilato d’un piede, chi d’un braccio, mezzi nudi, vestiti quasi soltanto delle armi che portavano addosso, con mitra, moschetti e tascappani con le bombe a mano, da bandoliere e cartucciere a spalla o ad armacollo, oppure dalle bende che ai più fasciavano delle ferite in questa o quella parte del corpo, questi, questi miserabili, da soli, ci misero fuori combattimento, a noi e al nostro grande Tigre? Questi bambocci da lazzaretto? E a questi, a questi ora, mi devo arrendere io? Ma la situazione quella era, non si scappava: un altro ne avrebbe pigliato atto alzando le mani e dicendosi: ecco qua, lo scaltro muore sempre per mano del fesso. Ma d’altra parte, un tedesco non avrebbe mai potuto conoscere questo mododidire, un tedesco non avrebbe mai potuto ammettere di morire per mano di un fesso e forse nemmeno semplicemente di morire. Difatti, si stampò a vista sulle labbra quel sorriso pazzo scellerato e saltando giù a terra, invece di alzare le braccia, tirò fuori dalla manica quella carta strabiliante, svergognata della stretta di mano, allungando la destra in avanti.
Ma la stessa mano lo tradiva: perché, come se nervi e ossa avessero pigliato la forma della cosa che la mano stringeva d’abitudine, la destra che offriva, non la teneva bella rovesciata a palma aperta, ma senza minimamente scandaliarsene, la teneva di taglio come una pistola puntata in avanti, col mignolo anulare medio e indice stretti insieme per lungo, che facevano la canna, e il pollice per alto, a grilletto, in posizione dí sparo. Ma poteva tentare, poteva provare, senza fretta, lì nessuno aveva fretta, non c’era più nessunissima fretta. Poteva tentare, provare, dentro quel cerchio poteva tentare, provare qualsiasi trucco spediente e strattagemma che gli veniva in mente, qualsiasi , astuzia e bassezza: tanto, da quel cerchio non sarebbe uscito vivo. Poteva tentare, provare, nessuno glielo impediva, anzi per questo l’avevano voluto pigliare vivo, non l’aveva capito? Per questo avevano voluto portarselo ancora vivo in questo fosso, fra le macerie, pelo pelo al famoso mare di Santa Lucia, in completa solitudine: per questo, per vedere che faceva, destinato da qui a qualche momento a morire, per guardarlo e ricordarlo, un tedesco che sentiva l’aria intorno fetergli di morte e usciva al naturale, usciva a pusillanime e si gettava sotto le bandiere napoletane, sotto quei brandelli di bandiere. Per questo, per guardarlo e ricordarlo vivo che sapeva di morire fra pochi momenti. Morto, l’avevano visto in quei giorni, ma da morto persino un tedesco è solo un morto, e da morto già morto non gli serviva per ricordarselo, ricordarselo tedesco, tedesco e morto. Gli serviva così, un poco prima che fosse morto, ancora vivo, vivo da divorarselo con gli occhi, mentre da potente diventava niente, un vile miserabile niente, divorato dagli occhi con lentezza, con rabbiosa malinconica lentezza, inghiottito e mandato a mente, stampato a eterno ricordo: perché poi a ricordarlo così, vile e miserabile, sarebbe stato ogni volta come risentire il calore delle armi arroventate che s’andavano raffreddando nelle loro mani. Si capiva che questo solo tedesco vivo potesse valere per gli scugnizzi più di tutti i tedeschi ammazzati nelle sparatorie, e questo momento più di tutti i combattimenti di quei giorni, bastava guardarli per capirlo, guardarli mentre guardavano il carrista tedesco che si girava e rigirava e col sorriso rilucente di gelo, con la mano tesa, minacciosa, come gliela puntasse al petto, dato che per la maggior parte gli scugnizzi gli arrivavano appena sopra la cintola, tentava la fortuna ora con questo, ora con quello: ormai avrebbe dovuto già essersi dette le preghiere e a guardarlo invece, sembrava che l’idea della sua morte, prossima o lontana, non lo sfiorava nemmeno. Doveva fidare sopra la sua stretta di mano, la stretta di mano di un tedesco, come sopra un potere magico, doveva fidare che almeno uno degli scugnizzi, prima o poi, ne sarebbe rimasto soggiogato, e allora il cerchio, l’accerchiamento si sarebbe spezzato, si sarebbe aperta una falla fra gli scugnizzi, giusto perché lui ne uscisse. Intanto però, lui credeva dí porgere la mano e puntava una pistola, quattro dita di canna, un pollice di grilletto: e dalla sua faccia non si capiva quanto fosse ignaro, quanto provocatore, quanto illuso, quanto pazzo scellerato.
Per questo forse gli scugnizzi non la perdevano di vista un solo istante, la mano che spuntava fuori dalla manica strappata, lorda di grasso e di sangue, per questo sembravano esserne attirati come dell’unica parte ancora viva e tedesca del tedesco che già vedevano morto. Lo guardavano in un modo così disarmante, gli scugnizzi, che tutto quello che pensavano, era come gli uscisse dagli occhi, e quello che pensavano, era come e quanto si sentissero premiati di trovarsi là, in quella eventualità ricca, rara, fortunata, e come e quanto si sentissero privilegiati di avere scorazzato al vivo un tedesco e di averlo lì; solo, caduto di scena, senz’armi né camerati, nudo come un verme, mentre la morte gli pigliava le misure. Non dovevano onorarlo un tale privilegio? Non meritava che lo usassero senza alcunissima fretta?
Anzi, meritava persino che si fumassero una sigaretta, meritava addirittura che se la facessero a mano, la sigaretta, tanto per dire come volevano onorarlo quel privilegio, come volevano andarci con agio, con ogni e qualsiasi agio.
[…continua con altre sei pagine (del libro) con la conclusione dell’episodio]
(1) – Le 4 giornate di Napoli – (Nanni Loy; 1962). Il film, ispirato al libro di Aldo De Jaco La città insorge: le quattro giornate di Napoli (del 1956), descrive la rivolta popolare scoppiata a Napoli spontaneamente a seguito della fucilazione di alcuni marinai italiani il 28 settembre del 1943, che in quattro giorni sconfisse e mise in fuga le truppe tedesche dalla città prima dell’arrivo degli Alleati.
(2) – Horcynus Orca è un romanzo dello scrittore italiano Stefano D’Arrigo pubblicato nel 1975, che narra il ritorno a casa del protagonista, ‘Ndrja Cambrìa, ossia Andrea Cambria, un marinaio della Regia Marina Italiana che percorre a piedi le devastate coste calabre durante l’autunno del 1943, quando l’Italia finì investita dalla guerra, invasa dagli eserciti Alleati e della Germania nazista. L’odissea del giovane siciliano, reduce dalla partecipazione alla guerra mondiale, che deve affrontare un viaggio da Napoli a Cariddi, attraverso il Mare dello Stretto, per rivedere la propria isola è irta di difficoltà e sofferenza. Quel tempo e quel mondo devastato, reso irriconoscibile dalla guerra, si rivela un’occasione per la sua maturazione alla vita, ma anche un’iniziazione alla morte: agli avvenimenti e alla lotta per sopravvivere di ‘Ndrja si accompagnano visioni e sogni, dominati dalla presenza delle fere, famelici delfini, e dall’apparizione dell’Orcaferone – l’Horcynus orca del titolo – creatura mostruosa e, assieme, visione simbolica dell’immensa rovina (da Wikipedia).
«Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.»
(Stefano D’Arrigo, incipit di Horcynus Orca)
(3) – Il testo è tratto dalla prima edizione originale edizione del gennaio 1975 (Mondadori), di complessive 1357 pagine
Sandro Russo
5 Febbraio 2022 at 13:19
Io non lo so come e perché, ma (ri)leggere le pagine di Horcynus Orca mi coinvolge e mi commuove. Le ho dovute ripassare più volte, per eliminare gli errori da traslazione, dal libro al testo Word, e ogni volta ricadevo dentro la storia. Non è un italiano classico, non è scorrevolissimo… A molti termini ricorrenti si fa l’abitudine leggendo; altri li ricordo dal dialetto napoletano-ponzese che è la mia lingua madre. Gesti dimenticati che mi vengono riportati alla memoria.
Quando scrive del carrarmato, il Tigre, che gli scugnizzi lo straviavano, lo ronzavano dove volevano loro… (in dialetto ponzese per dire spingere malamente qualcuno, non diciamo arrunzà’?
Lo scugnizzo senza denti, con una gamba sola e la stampella, che ride mentre fa la pipì, col carrarmato che quasi gli sta addosso, mentre i suoi compagni “alloccavano verso di lui” (noi avremmo detto alluccavano).
Quando ’Ndria vede lo scugnizzo strappare con i denti la sicura della bomba a mano ricorda le pietrebambine, le pietre piatte che si tirano per farle volare sul pelo dell’acqua (chi faceva più saltelli vinceva).
Anche noi da bambini gli davamo un’alliccatina (nel testo c’è scritto “alliffatina”) con la lingua, per farle volare meglio, per scaramanzia, o perché lo vedevamo fare agli altri…
E la meraviglia del tedesco, a vedere chi l’aveva sconfitto e ora lo teneva in pugno… e la descrizione degli scugnizzi (vedo precise le immagini, come se vedessi un film):
“(…) si lasciò sfuggire quell’occhiata sopraccigliata, tutta parlante della sua meraviglia. Questi pezzenti guagliò, parlava, si parlava occhìando intorno da dentro la sua meraviglia, questi muccusi con la bocca che gli puzzava ancora di latte, questi miserabili scugnizzi con le ossa fuori della pelle, chi mutilato d’un piede, chi d’un braccio, mezzi nudi, vestiti quasi soltanto delle armi che portavano addosso, con mitra, moschetti e tascappani con le bombe a mano, da bandoliere e cartucciere a spalla o ad armacollo, oppure dalle bende che ai più fasciavano delle ferite in questa o quella parte del corpo, questi, questi miserabili, da soli, ci misero fuori combattimento, a noi e al nostro grande Tigre? Questi bambocci da lazzaretto? E a questi, a questi ora, mi devo arrendere io?”