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In occasione della morte di David Sassoli e di altri personaggi illustri del mondo della cultura riprendiamo da la Repubblica di oggi (14 gennaio 2022) un bellissimo scritto di Giacomo Papi (*), di cui per l’occasione facciamo la conoscenza sul Sito.
Quando la fine racconta il senso delle nostre vite
di Giacomo Papi
Per capire le persone bisogna immaginarle morte. A me capita di farlo con gli amici e le amiche, quando muoiono, ma a volte anche da vivi. Ho bisogno di allontanarle per vederle davvero, per capire che cos’avevano di speciale, in sé o forse solo per me. In che modo possono essere raccontati. E così vedo la ragazza con cui non ero d’accordo quasi mai perché ne vedevo la rabbia, ma a cui volevo bene proprio perché quella rabbia con cui non ero d’accordo era la fonte della sua intelligenza e dei suoi errori. O quell’altro immenso, che per nascondersi occupava tutto lo spazio, un altro che trasformava ogni gesto in un rito e il grande Gatsby, che per scappare alla morte viveva con così tanta smania da inseguirla.
Ogni volta che muore una persona per cui ho provato affetto sento il bisogno di scriverne per descriverla a me stesso. L’obituary costringe a mettere a distanza, per fare rivivere qualcuno attraverso i dettagli. I necrologi a pagamento all’opposto – “death notices”, in inglese– sono sempre di circostanza e non mostrano mai niente se non il ruolo sociale, le relazioni e il potere del morto. E infatti nei corsi di scrittura scrivere obituary è utile: raccontare una persona amata a chi non l’ha mai conosciuta obbliga a vedere i particolari rivelatori e a condividerli. Insegna a costruire i personaggi.
E però ogni volta mi chiedo che cosa ci sia nei morti di vero e che cosa insegnino ai vivi. È la fine a dare un senso, cioè una direzione, all’inizio. È la fine a raccontare tutto quello che è accaduto prima.
Quando è arrivata la notizia di David Sassoli o, pochi giorni prima, per Joan Didion e Gianni Celati, o quando Vitaliano Trevisan si è ucciso, la mia bolla si è accesa.
Nelle prime ore tutti hanno postato foto o frasi, o più spesso un ricordo di sé. Una specie di gara del lutto. È andato in scena, cioè, lo stesso rituale sincero e osceno che accompagna i morti famosi – Prince e Kobe Bryant, Filippo e Lina Wertmüller – le esequie laiche e digitali che servono a suggerire una prossimità che spesso non c’è mai stata e un’appartenenza che nessuno ci aveva chiesto di dichiarare. È un rito innocente, che non merita scherno, per quanto spudorato sia. Fa tenerezza chi piange il suicidio, che so, di Robin Williams perché da piccolo vedeva “Mork & Mindy”. È fastidiosa, invece, la corsa ad accaparrarsi un pezzettino del morto per raccontare di sé e specchiarsi in lui. Ma è un istinto che rivela molto sul potere dei morti di creare nazioni, tradizioni, bolle e tribù, cioè di fare sentire ai vivi di appartenere a qualcosa. Le vite dei santi e degli eroi sono sempre servite a questo, in fondo. Oggi la stessa funzione è svolta dai famosi, Fabrizio Frizzi, Raffaella Carrà, Gianni Celati, Joan Didion. Ci si riscalda un po’ le ossa infreddolite stringendosi intorno alla pira dei grandi defunti, sentendoci individui e insieme comunità.
La morte è il misuratore universale, da sempre. È l’ultimo istante a partire dal quale le nostre esistenze prendono forma e senso, e diventano narrabili. Chi si lamenta del tramonto del sacro e dell’espulsione della morte dall’orizzonte dei vivi non vede che oggi i morti sfilano ora per ora e che tutti, ogni giorno, contribuiamo a un processo di beatificazione istantanea e di massa. I famosi si accavallano ai lutti privati, gli anniversari ai doodle di Google, in un assembramento nuovo perché in passato il dovere dei vivi era concedere ai morti, per quanto umili fossero – Eleanor Rigby, Father McKenzie, il suonatore Jones di Spoon River –, almeno per un istante, il privilegio dell’unicità. Oggi una folla di fantasmi famosi si assembra intorno alla vita. Ne “Il ramo d’oro” James G. Frazer racconta che gli antichi ruteni ricavassero flauti dalle tibie dei cadaveri per addormentare i bambini suonando, ma anche per sentire i morti vicini, sospesi nell’aria, intorno alla vita.
Non so se sia per via di questo contagio infinito, anche se finirà, che sento la folla dei morti ingrandirsi ogni giorno in un misto di grottesco e tragedia, e circondare tutto quello che c’è. Alla fine del primo capitolo di “Dombey and son” (forse il più bel primo capitolo della letteratura) Dickens evoca “il mare buio e ignoto che avvolge tutto il mondo”. Mi pare di tutti i colori, per quanto sbiaditi. Ma esiste, perché intorno a ognuno di noi, che siamo vivi oggi sulla Terra, ci sono quasi venti persone, gli oltre cento miliardi di umani venuti al mondo e morti dall’inizio dell’uomo. Il mondo in cui abitiamo è fatto da loro: le strade, le case, i libri, la musica, perfino la lingua, le parole che ci giriamo in bocca e con cui cerchiamo di comunicare qualcosa di noi agli altri, sono state inventate dall’infinita schiera dei morti senza nome, ed è quindi come se tutto quello che diciamo sia in fondo detto anche da loro, dai morti, un coro in cui nessuno è mai uno solo, per quanto sia solo.
L’intimità con i morti dice che, forse, abbiamo un senso anche noi. E che ormai i social sono le nostre piramidi. Però, mettiamo di essere Joan Didion, Gianni Celati, Vitaliano Trevisan o David Sassoli, una scrittrice elegantissima diventata famosa scrivendo del suo lutto per il marito e la figlia, un maestro raffinato e geniale, uno scrittore emarginato capace di trasformare il suo curriculum vitae in un romanzo magnifico (“Works”) o un politico appassionato, luminoso, gentile.
Be’, forse all’inizio, ci si gonfierebbe d’orgoglio, ma al decimo post capiremmo che troppo spesso parlare dei morti è un modo per parlare di sé, per vantarsi di avere letto Joan Didion prima degli altri (che se fosse vero, avrebbe venduto più di John Grisham), di essere stato l’unico adepto (o adepta) di Trevisan per quanto difficile fosse come uomo e di averglielo anche detto una volta senza purtroppo incidere sui suoi insani propositi o di avere stretto la mano a Sassoli in tempi non sospetti.
La commemorazione e l’encomio sono arti antiche e gloriose, umane da sempre. Forse, addirittura, sono l’istinto che ci ha resi uomini. Lo schema con cui oggi commemoriamo gli umani, però, assomiglia alla nostalgia con cui salutiamo le cose, al rimpianto con cui avremmo parlato di Polaroid e Subbuteo, il giorno in cui uscirono di produzione.
A Milano Il libro delle condoglianze per David Sassoli nei chiostri dell’Umanitaria
(1) – Giacomo Papi (Milano, 1968)
Si è laureato in filosofia all’Università Statale di Milano, dove vive e lavora.
Già editor per Einaudi Stile Libero e fondatore di scuole di scrittura.
Ha pubblicato i romanzi I primi tornarono a nuoto (2012), I fratelli Kristmas (2015), La compagnia dell’acqua (2017) per Einaudi Stile Libero, Il censimento dei radical chic (2019) e Happydemia (2020) per Feltrinelli. Tra gli altri suoi libri: Papà (2002) e Accusare (2004).
(2) – La cerimonia degli addii (1981) è l’ultimo grande lavoro letterario di Simone de Beauvoir (Parigi, 1908 – 1986)
Simone de Beauvoir nel 1980, all’addio a Sartre
Immagine di copertina. Banksy, Street Art. Balloon girl; Londra
Patrizia Maccotta
17 Gennaio 2022 at 19:31
Ho letto la tripletta sull’invecchiamento:
– Invecchiare con arte
– I viecchie e ‘u ceppone
– La cerimonia degli addii
L’ultimo tratto della nostra vita.
Veri, verissimi tutti e tre gli scritti proposti e anche i commenti: come fanno a esistere in quel che chiamiamo ‘io’, corpi così diversi? Dopo un lungo periodo in cui il corpo si modifica poco, all’improvviso, ci tradisce e non corrisponde più a quel che sentiamo di essere. Figli, nipoti, aiutano certo, ma aiutano soprattutto l’interesse per gli altri, la curiosità, le passioni (montagna, mare, scrivere, viaggiare: “il faut être toujours ivre” osservava Baudelaire).
Per il detto ponzese – portare i vecchi a ’u ceppone – ricordo che presso alcune tribù nomadi del Maghreb si portano gli anziani in cima ad una palma; si scuote la palma. Se l’anziano cade… si sopprime. E ricordo pure un racconto di fantascienza degli anni settanta: si assiste allo studio ansioso di una persona che prepara un esame che si ripete ogni anno. È terrorizzata. Si pensa, durante alla lettura, ad un giovane studente preoccupato per il futuro. Alla fine, si scopre che è un anziano e che i risultati delle prove di esame determineranno la sua sopravvivenza.
Interessante il tema proposto da Ponzaracconta, soprattutto ora, nelle nostre società occidentali, dove siamo fonte di sostegno per le generazioni più giovani, ma pure un peso economico per le spese sanitarie e pensionistiche.
Argomento coinvolgente e che ci tocca molto… è vero!