di Ciarnella Amelia
Il mio paese negli anni quaranta del novecento era un piccolo mondo a sé. Mancava soltanto il recinto di protezione in pietra, come nei periodi in cui le città erano circondate da muri alti, per proteggersi dagli assalti nemici. Ogni attività si svolgeva nel suo interno, dove gli abitanti potevano trovare tutto ciò che gli occorreva, senza bisogno di uscire fuori, perché vi erano forni, sarti, barbieri, calzolai, bar, generi alimentari e altro. A nessuno saltava in testa di uscire dal proprio paese per comprare qualcosa o visitare altri posti, per diporto, come si usa oggi. Il turismo non esisteva. Esisteva soltanto la campagna, dove andavamo anche per distrarci, magari per cercare gli asparagi o le lumache. In quel modo ci rilassavamo e ci divertivamo, molto più che in un viaggio turistico ed eravamo anche più soddisfatti e felici.
Inoltre eravamo gelosi del nostro territorio e di tutto quello che conteneva. Amavamo perfino questa nostra clausura, ne eravamo fieri e non volevamo intrusi, tanto che quando arrivava un forestiero, i pochi sfaccendati che erano in piazza si avvicinavano subito per chiedergli da dove veniva, chi cercava, cosa voleva e cosa era venuto a fare. E in pochi minuti avevamo saputo vita, morte e miracoli di quella persona. Anche perché il nuovo venuto rispondeva con naturalezza e sincerità, senza scandalizzarsi di nulla, poiché erano “leggi” comuni anche in ogni altro paese di allora.
E ancora, i genitori in quei tempi non permettevano mai ai propri figli di sposare giovani sconosciuti. Dovevano scegliere la moglie o il marito soltanto tra i giovani del posto. Questo perché in paese ci si conosceva tutti da sette generazioni e sapevi se in famiglia, fra gli antenati, vi erano stati casi come pazzi, ladri o prostitute. Questa era la “regola” durata fin dopo la seconda guerra mondiale. Poi, finita la guerra, si sono aperte le frontiere, sono iniziate le migrazioni e i giovani hanno lasciato il paese e hanno sposato chi hanno voluto.
Capitava di frequente anche che gli stessi genitori, all’insaputa dei figli, combinassero i matrimoni. In genere succedeva quando c’erano di mezzo molte proprietà, convinti di sistemare al meglio i propri figli. Spesso però, questi matrimoni combinati risultavano essere molto più “scombinati” e infelici degli altri! Si ricordano due/tre casi di questi infelici che di tanto in tanto, quando la loro sofferenza diventava troppo insopportabile, andavano ad ubriacarsi all’osteria e, tornando a casa, ognuno si sfogava alla sua maniera. Uno di questi che molti ricordano bene, quando tornava a casa, immaginando che sua moglie fosse già a letto a dormire, con tutta quella rabbia repressa che aveva nel cuore, cominciava a menare colpi sul letto con qualunque corpo contundente gli capitava sottomano. Però, mentre picchiava, piangeva disperato. La moglie dal canto suo che non aveva affatto un carattere dolce e remissivo, visto che non c‘era nessun rimedio – perché ai tempi di allora il divorzio non esisteva, almeno per i poveri – aguzzava il cervello e, solo per il momento, sistemava un materasso sotto il letto, che allora erano abbastanza alti, e si metteva a dormire tranquilla là programmando di vendicarsi appena possibile in altri modi.
Però all’infuori di queste scene avvilenti c’erano anche cose belle. E io ricordo con molta nostalgia le feste periodiche che si svolgevano in paese come il Natale, la Pasqua, il Carnevale e soprattutto quella del Corpus Domini, che si festeggiava nella primavera inoltrata, quando fioriscono le ginestre, gialle e profumate molto più di quelle di oggi. Almeno è quello che la mia memoria mi fa ricordare. Tutte le ragazze andavano a raccoglierle nei boschi per lanciarle dai balconi o dalle finestre durante la processione che attraversava l’intero paese e lasciavano sulla strada un tappeto giallo e profumato. Così morbido e piacevole quando ci si passava sopra. E quel profumo ti entrava nel cuore e nel cervello da ricordarlo per tutta la vita. Erano proprio altri tempi che rimangono impressi dentro chi li ha vissuti.
Ma la festa annuale più importante di tutte era sempre quella patronale di S. Leonardo al quale tutti erano devoti e alla cui processione partecipava l’intero paese, compresi i “cattivi” che in genere disertavano le varie funzioni religiose. Questo perché tutti erano al corrente degli infiniti miracoli compiuti dal Santo nel corso dei tempi, ma in particolare per aver fermato il colera alle porte del paese, nel momento in cui mieteva centinaia di vittime in tutta la zona. Ricordo che per evitare ulteriori spaventi alla gente non si facevano suonare più nemmeno le campane. Comunque al tempo del colera nel mio paese ci furono soltanto due casi, sopravvissuti entrambi. Uno dei due era proprio mio nonno che si contagiò toccando un morto di colera.
Mio nonno aveva un servizio “taxi” che esercitava con la carrozzella e due cavalli. In più aveva un carro funebre per trasportare i morti al cimitero. Si contagiò perché andò a prendere un morto in un paese vicino e durante il trasporto, in una salita, forse perché non aveva chiuso bene la porta del carro, questa si aprì facendo rotolare sulla strada la cassa insieme al morto. Naturalmente la cassa cadendo si scoperchiò e il cadavere uscì fuori. In quel tempo nessun parente né amico seguiva il morto con le macchine come oggi. Per cui mio nonno dovette cavarsela da solo. Prese quindi con fatica il morto da terra, lo rimise nella cassa e lo portò al cimitero. Ovviamente si contagiò. Fu messo in quarantena e isolato in casa con la guardia davanti la porta, assistito soltanto da mia nonna che aveva avuto da poco il suo primo figlio (mio padre) al quale dava il latte.
Ebbene, né mia nonna, né suo figlio, si contagiarono e fu soltanto per un ulteriore miracolo del nostro Santo Patrono.
[L’angolo di Lianella/15,. Tufo di Minturno, quel mio piccolo mondo antico (prima parte) – continua]