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Seguo da tempo le foto di Steve McCurry: Il caleidoscopio di Steve McCurry è del gennaio 2012.
Così come quelle di Sebastião Salgado – leggi qui e qui.
Non che ci siano paragoni da fare tra loro, ma come è per altri grandi fotografi, li accomuna il fatto che ogni foto racconta una storia. Ciascuno a suo modo, unico e geniale.
Così scrivevo nel reportage di una mostra romana di Steve McCurry (2012) e già allora mi avevano colpito il numero di foto che ritraevano bambini (molte foto nell’articolo citato):
“Nella prima cupola ci accolgono gli occhi, soprattutto di bambini, e sono immagini indimenticabili; ma molte altre ci stupiranno nel prosieguo della mostra: un caleidoscopio di volti e di situazioni, ad alcuni dei quali potremmo dare un contesto e una storia; altri rimangono sospesi e inesplicabili… Sempre vi si ritrova una profondità e un’emozione che non passano per la mente, ma per un’altra via più diretta”.
Ancora i bambini sono i protagonisti di quest’altra raccolta di foto di Steve McCurry. Michele Smargiassi ha intervistato il grande fotografo per un progetto editoriale sui bambini: “Molti dei bambini che ho fotografato mi guardano e si coglie la loro curiosità. Per esperienza, credo che i bambini cerchino di trarre il meglio da ogni situazione, anche la peggiore, che vogliano essere positivi. Ho visto bambini giocare in contesti disperati: una resistenza dell’infanzia che forse il mondo potrà piegare, ma che ho sentito il dovere di rappresentare”.
Riportiamo qui di seguito l’articolo di Smargiassi su la Repubblica di ieri 24 ottobre e speriamo di poterne seguire la presentazione a Roma.
Fotografia. Steve McCurry: “Tutti i bambini sono uguali”
di Michele Smargiassi da la Repubblica del 23 ottobre 2021
– I bambini sono un’utopia. Sono l’umanità prima che la storia se ne impossessi, e ne faccia disastri. Per oltre quarant’anni uno dei più celebrati fotografi viventi, Steve McCurry, ha fotografato bambini senza un particolare motivo. Quale fosse il motivo, lo ha capito dopo, raccogliendo tutti quei ritratti in un libro solo, Bambini del mondo (Mondadori editore) che sta presentando ora in Italia.
Ho visto una sua fotografia da bambino, con cinturone e pistole da cowboy… Che genere di bambino è stato lei, Steve?
«Chi non ha mai giocato a cowboy e indiani… Avevo cinque anni. Ero molto attivo, correvo dappertutto e facevo guai, mi chiamavano Steve Steamroller, Steve Rullocompressore, molto fisico, gran voglia di muovermi, direi che non ho mai smesso di muovermi, per tutta la vita, ho solo ampliato il raggio».
Quando ha cominciato a fotografare bambini?
«Al college. Era un esercizio del corso di fotografia, i bambini erano soggetti facili, e assieme affascinanti e divertenti e imprevedibili».
Ma da fotoreporter di guerra non erano i bambini la sua mission. Quando e come si è accorto di averne in realtà ritratti così tanti?
«No, non era il mio scopo, ma quasi senza pensarci lo facevo. Qualche anno fa mi sono reso conto di avere una raccolta di ritratti di bambini e ho provato a vedere cosa accadeva a metterli assieme. I primi sono del 1975, quasi cinquant’anni fa, attraversano tutto il mio lavoro».
Inevitabilmente, un bambino rappresenta l’innocenza. È questo il senso del libro? I bambini sono simboli di qualcosa?
«Puoi fotografare solo bambini reali. Ciascuno ha una storia reale. Eppure, non riesco a non pensare che ovunque tu sia nato, nella ricchezza o nella povertà, in paesi tranquilli o disperati, se sei un bambino ti affacci al mondo ovunque nello stesso modo, innocente, senza preconcetti, ancora non plasmato dalla cultura. Poi arrivano lingue diverse, religioni diverse, e gli umani diventano diversi, spesso nemici. Ma c’è un momento in qui questi piccoli esseri hanno una sola preoccupazione: vivere, sopravvivere, e farlo nel modo più pieno e soddisfacente possibile. Io ho cercato di cogliere quel che resta in loro di questa spinta primordiale dell’uomo, prima che la storia la sovrasti e la deformi».
Un’utopia perduta dei liberi e degli eguali?
«Proprio così… Amano le stesse cose, quelle che amavo io alla loro età: correre, arrampicarsi, è qualcosa che viene prima della società e delle ideologie».
Ma qui vedo bambini in miniera, bambini con le armi. L’innocenza perduta. Violata.
«Questo è il punto… Per fortuna il caso dei bambini-soldato non è così frequente, ma nei paesi in cui ho scelto di viaggiare, soprattutto l’Asia, ho visto troppi bambini costretti a lavorare quando avrebbero dovuto giocare e andare a scuola. Quel tempo prezioso, il tempo dell’apprendimento, è rubato e non tornerà più, anche se lo sfruttamento in certi luoghi del mondo sembra durare da millenni: tener dietro al gregge, raccogliere gli ortaggi è l’aspetto più appariscente di una condanna al lavoro inclusa nella povertà e nella diseguaglianza. Ecco, penso che un ritratto di bambino possa stimolare alcune domande: quali altre opportunità hanno quelle popolazioni, quali alternative esistono?».
Nel libro, il padre di Malala, la bambina che voleva solo studiare, premio Nobel per la pace, scrive che la voce di sua figlia ha sovrastato quella delle armi che vollero impedirglielo. Una fotografia può dare voce?
«Serve una incredibile forza per superare le barriere di una condizione che sembra scritta nel destino, come ha fatto Malala. Non so se una fotografia possa fare la differenza, penso che non fotografare ne faccia ancora meno, penso che dovremmo tentare comunque di fare qualcosa più che niente. Nessuna fotografia ha mai fermato una guerra, ma qualcuna ha spostato piccoli gradi delle coscienze che hanno fermato una guerra».
Bambini giocano su un cannone. Beirut, Lebanon, 1982
Un ritratto è una relazione umana, ma tra un fotografo adulto e un bambino è diseguale. Come si comporta quando fotografa i bambini?
«Devi essere amichevole, non minaccioso, giocoso. Devi entrare in un clima, devi adeguarti alla loro velocità, alla loro imprevedibilità, non puoi chiedere a un bambino di posare, puoi però cogliere il momento in cui decide di offrirti qualcosa. Soprattutto non devi nascondere quello che fai, molti dei bambini che ho fotografato mi guardano e si coglie la loro curiosità. Per esperienza, credo che i bambini cerchino di trarre il meglio da ogni situazione, anche la peggiore, che vogliano essere positivi. Ho visto bambini giocare in contesti disperati: una resistenza dell’infanzia che forse il mondo potrà piegare, ma che ho sentito il dovere di rappresentare. C’è una fotografia nel libro: bambini di Beirut giocano a cavalcioni di un cannone semidistrutto… Sanno cosa è quell’oggetto, ma riescono a farne un giocattolo, a rovesciarne il senso senza neppure pensarci su, con la forza irresistibile del gioco, che è desiderio del meglio».
Poi i bambini crescono, diventano adulti, buoni o cattivi. Si è mai chiesto che adulti sono diventati i bambini che lei fotografò tanti anni fa?
«Sì, me lo sono chiesto mille volte. Qualche volta ho voluto saperlo. Tornai in Afghanistan per cercare quel bambino soldato, con quattro bandoliere di proiettili sul petto, che presidiava una strada, aveva quattordici anni nel 1993. Quattro anni fa sono stato capace di ritrovarlo, era stato in prigione, ora è un venditore di succhi di frutta nelle strade di Kabul. Era orgoglioso di quella fotografia: per lui era una specie di medaglia al valore, la mostrava per dimostrare a tutti che lui aveva difeso la sua comunità».
Giovane soldato afgano. Hazaras, Kabul, Afghanistan, 1993
Anche la sua icona più celebre, la “ragazzina afgana”, ha avuto un seguito…
«Sharbat Gula ha avuto una vita difficile. L’abbiamo aiutata, quando la ritrovammo, anni dopo, nel 2002. Per me, maschio, è difficile oggi avere contatti con lei, ma mia sorella Bonnie l’ha incontrata tre volte, da quando si era rifugiata in Pakistan. Ora vive in Afghanistan, abbiamo mantenuto i contatti, al riparo dai media, non è il caso di riportarla ancora sotto i riflettori, vive in una situazione a rischio».
Nel libro lei ha scelto di non pubblicare quella foto famosissima, ma un altro scatto, dove Sharbat si copre il volto con un lembo del velo. C’è un messaggio in questa scelta?
«No, ho solo cercato una immagine che non fosse quella che conoscono tutti, per mostrare un altro aspetto, un altro momento di quel nostro incontro. Se la fotografia famosa mostra la curiosità di Sharbat, e forse anche la sua ansia, questa mostra la sua ritrosia di bambina. Mi ricorda mia figlia, anche lei a volte è timida, si copre il viso…».
Si è un po’ stancato di quella icona ripetuta ovunque?
«Non sono particolarmente ossessionato da quella immagine… Sono grato a quella fotografia, orgoglioso di averla fatta perché tutti potessero vedere nello sguardo di una bambina che gli afghani sono un popolo dignitoso, forte ed orgoglioso. Ogni fotografia ha un contesto, e nel 1983 gli afghani erano in una situazione disperata, due milioni di rifugiati, villaggi devastati, comunità di contadini distrutte per sempre: incontravo persone che volevano che la loro storia fosse raccontata, gente comune che la cui sorte altrimenti nessuno avrebbe mai conosciuto».
Oggi è quasi impossibile, almeno nel mondo ricco, fotografare bambini per strada. Cosa pensa di questa ossessione per la cosiddetta privacy?
«Vero, oggi è molto più semplice fotografare bambini in paesi lontani che dietro casa tua, c’è questo sospetto di cattive intenzioni… Eppure in tutto il mondo le famiglie sono orgogliose dei loro figli, di mostrarli agli altri. I fotografi hanno aiutato il mondo a vedere il mondo, ora sono diventati sospetti, è una cosa che faccio fatica a capire. I fotografi conservano la memoria delle nostre culture, l’aspetto dei nostri corpi e delle nostre città. Sarebbe una perdita enorme se dovessero smettere di raccontare la nostra vita quotidiana. Non è così ovunque, per fortuna: sono stato in questi giorni a Napoli, in Sicilia, ho trovato persone che non hanno queste ansie, che capiscono il compito del fotografo».
Da quando ha una figlia, è cambiato il suo modo di vedere e fotografare il mondo?
«Lucia? Come tutti i padri l’ho fotografata tantissimo, a quattro anni non sono sicuro capisca bene cosa fa papà, per lei è un gioco, ma francamente essere suo padre non mi ha dato particolari privilegi come fotografo… La vera cosa che è cambiata è che ora, quando sento un bambino piangere per ore in aereo, non mi arrabbio più».
La presentazione Steve McCurry presenterà il libro Bambini del mondo (Mondadori Electa, pagg. 208, euro 49,90) a Roma il 26 ottobre alle 19 al cinema teatro Don Bosco, via Tuscolana 771.
La ragazza afgana Sharbat Gula ritratta nel 1984 nel campo profughi di Peshawar (Pakistan), diventata famosa a sua insaputa dalla copertina del National Geographic