De Luca Francesco (Franco)

Le cale raccontano (4). Dal mare… niente

di Francesco De Luca

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La notizia cominciò a circolare dal pomeriggio. Alcune persone andarono dai Carabinieri. Con Maurino, il meccanico amico di tutti e in rapporti stretti con i pescatori, si andò sul Comune. Da lì si scese sul molo e alcuni gozzi uscirono dal porto.

Qualcosa era successo: Carabinieri, Comune, gruppi di persone a parlottare: qualcosa di grave!

Giugno già s’era imposto sull’andamento meteo della giornata. Il cielo terso e sereno assicurava che l’estate stava iniziando a concedere i suoi favori. Il mare calmo invitava gli appassionati alla pesca, anche quella svolta scoglia scoglie, fra le coste della Ravia, oppure presso il Fortino, a scovare la presenza di qualche polpo.
Le scuole erano terminate e le spiaggette vedevano gruppi di giovani a giocare sulla sabbia. Specie a Chiaia di Luna, la più frequentata.

I Ponzesi stavano a quei tempi (anni ’60) scoprendo i vantaggi di poter disporre di una barchetta da affittare ai turisti. Dal 20 giugno sarebbe iniziata la tratta turistica Anzio-Ponza.

Barche rigorosamente a remi – lo sottolineo perché oggi è inconcepibile un natante che non disponga del fuoribordo –  possedute da pochi che se le potevano permettere.
C’erano poi i barchini di chi cercava di procurarsi il cibo per il giorno, rovistando ogni mattino, col tempo favorevole, le chiane a pesca ’i perchie, pintirré, ’na tracina, ’nu purpo, ’nu lacierto. Pesci di piccola taglia, che gironzolavano intorno agli scogli a fior d’acqua.

Tatillo abitava sulla Dragonara. Marinaio in pensione, si dilettava a passare il giorno andando a pesca. Proprietario di un grottino ai piedi della falesia di Chiaia di Luna, di buon’ora scendeva, tirava fuori ’a lanzetella col favore delle falanghe ben unte di sego, sino a mare. Alcuni giorni setacciava la costa verso il Fieno e fino al faraglione della Guardia, altri puntava verso capo Bianco. ’A purparella, ’a lenza a surece, ’a lenza a perchie, ’u cuoppo, quacche suarella, ’nu poco ’i paneffurmaggio: L’occorrente era questo.

Nessuno l’aspettava a casa perché la vita da marinaio gli aveva impedito di pensare al domani senza i genitori. La sua casa, la sua persona, il suo mondo. Niente altro, niente fuori.
Al ritorno dalle sortite a mare si tirava la barchetta nel grottino e basta.

La sapevano tutti. Anche Pinuccio, della famiglia dei Fichetinia, sei figli (cinque maschi e una femmina). Padre manovale al servizio di chi lo chiamava, la madre in casa a governare quella masnada di indisciplinati e disordinati. Poca voglia di lavorare, molta voracità.
Avevano casa anche loro sulla Dragonara, e talvolta Pinuccio accompagnava Tatillo a pesca.

Quel giorno a chi era andato in spiaggia a Chiaia di Luna era parso evidente che la barchetta di Tatillo non c’era nel grottino. Anzi, le falanghe stavano ancora lì, sulla rena, la porta del grottino spalancata.

Poiché i refoli sono padroni degli spazi isolani a Tatillo era giunto all’orecchio qualcosa ed era sceso, costatando che il suo barchino era stato preso.

Questo fatto si andava incrociando con un’altra notizia che la madre di Pinuccio spandeva per il paese e cioè che il figlio s’era allontanato da casa nelle ore mattutine perché doveva andare a pesca con Tatillo. Così le aveva riferito, e risultava chiaramente una fandonia perché Tatillo era lì e si chiedeva cosa fosse accaduto alla sua barca.
Le parole montano e attraverso la ripetizione il messaggio muta, si gonfia, tracima.

Forse ha preso il largo per pescare. Da solo, senza Tatillo, di cui conosceva la bontà e non s’aspettava rimproveri. Forse ha seguito il richiamo del mare.

Cosa significa? Qual è questo richiamo del mare? E da quando, Pinuccio era sensibile a questo cosiddetto “richiamo”?

Sono domande che appaiono superflue e quasi provocatorie. Pinuccio mostrava una sensibilità più acuta di quella dei fratelli. In famiglia si sentiva in gabbia. Poco inseriti, scostanti, i suoi famigliari non godevano di un buon rapporto coi compaesani. Era una famiglia inquieta. Che la piccola comunità ponzese non respingeva ma nemmeno favoriva. I paesi possono avere qualità terapeutiche talvolta, a causa della semplicità dei rapporti, della vicinanza, della commistione, e talvolta no. Possono lasciare che la distanza faccia solco, divenga ferita, si incancrenisca. Non era così… ancora, ma Pinuccio non si sentiva a suo agio. In quel piccolo cosmo sociale, che era Ponza, non viveva serenamente.

E quale desiderio nasce in un ragazzo che vive senza soddisfazione in un paese circondato dal mare, se non lasciarlo, andarsene via, per sempre?
No, per sempre no. E infatti i gozzi a motore dei pescatori coi carabinieri andarono lungo il periplo dell’isola, alla ricerca. Forse stava tranquillamente pescando. O chissà cosa!
Allora forse ha drizzato verso Palmarola. La sua sagoma invitante chiude l’orizzonte di chi s’affaccia da Chiaia di Luna!
Il mare era calmo e l’aria allietava col profumo delle ginestre, e più ci si avvicinava all’isola delle palme più l’afrore avvolgeva. Niente, nessuna barca.

Una giornata interminabile. I Carabinieri tornarono in porto.
– S’è fatto vivo?
– Macché… la mamma è disperata!
Maurino lanciò l’avvertimento: – Chi va a totani, stanotte, stia in guardia, se vede o sente qualcosa di strano.
Quella sera nessuno prese il mare a pesca di totani con l’acetilene a carburo. Non per timore, ma per rispetto. Si rimase in attesa.
I parlanti (le berte) intonarono come ogni sera il canto di riconoscimento.
Nessuno sciabordìo, nessun ansimo, nessun tonfo.

Dal mare niente. Nel mare niente, anche nei giorni successivi. Intorno la vita brulicava vasta e varia, ma di una vita… quella… nessun segnale.

***

Appendice (cfr. commento di Sandro Russo)

La raccolta da cui è tratto il racconto di Conrad

Da YouTube. la scena finale di Martin  Eden (di Pietro Marcello; 2019):

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1 Comment

1 Comments

  1. Sandro Russo

    27 Luglio 2021 at 10:38

    La storia che Franco racconta con qualche nome cambiato, accadde davvero e segnò la mia immaginazione di ragazzo. Tante volte, forse anche nei sogni, mi sono immaginato quel ragazzo che si allontanava dalla sicurezza (forse insopportabile) della terra – su una barchetta (o a nuoto, fa lo stesso) – verso l’ignoto.
    Tanto radicati l’evento e questa immagine nella mia memoria, che ho trasalito tutte le volte che l’ho incontrati in letteratura o al cinema.
    Finisce così, con un nuotare a grandi bracciate vigorose verso il largo, il romanzo Martin Eden (1909) di Jack London (non ha scritto solo Zanna Bianca!). E anche il bel film che ne ha tratto Pietro Marcello (2019, protagonista Luca Marinelli, ambientato a Napoli invece che San Francisco).

    Ma soprattutto è bellissimo, e vale la pena di riportare, il finale di un racconto poco conosciuto di Conrad – leggete Conrad, leggete Conrad! …voi gente di mare! -: Il piantatore di Malata (The Planter of Malata; del 1913. Incluso (pp. 61-125 in una mia raccolta di racconti: La locanda delle Streghe Editori Riuniti (1982).
    Il protagonista è un certo Renouard, avventuriero, esploratore di successo, solitario e misantropo che si ferma finalmente quando riceve da parte del Governo inglese la concessione di un’isola dalle parti dell’Australia (siamo al massino dell’espansione coloniale inglese), per impiantarvi una piantagione di “alberi della seta” (? – non gelsi, non ailanto: ricerche in corso).
    Il guaio accade quando, in un viaggio nella capitale dell’isola più grande, conosce e si innamora, totalmente non corrisposto, di una donna bellissima e altera che cerca la soluzione di un mistero. Riesce infine a portarla sulla sua isola, insieme al padre e alla zia, ma lei lo disdegna e lo offende tanto che per Renouard la vita non la più senso di essere vissuta. Sparisce, e non lo trovano più.

    Questo il finale di Conrad:
    “Spinti da quel mistero, il giornalista e l’equipaggio batterono tutta l’isola per parecchie ore, chiamando Renouard con tutta la forza di cui erano capaci i loro polmoni. Infine fu organizzata una battuta metodica nelle forre selvagge e nei burroni, per cercare il cadavere. Che cosa era accaduto? Era stato assassinato dai lavoratori o aveva, per capriccio, abbandonato la piantagione? Impossibile dirlo. Finalmente, verso in tramonto, il giornalista e il capitano scoprirono una traccia di sandali che attraversava una striscia di spiaggia sabbiosa, sulla costa settentrionale della baia.
    Seguirono trepidanti le impronte, girarono lo sperone del promontorio e sopra una grossa pietra trovarono i sandali, la giacca bianca di Renouard e il suo sarong in stoffa a quadratini che, come tutti sapevano a Malata, il piantatore era solito indossare quando si recava al bagno.
    Questi indumenti formavano un piccolo mucchio e, dopo averli esaminati in silenzio, il marinaio osservò: – Gli uccelli vi hanno volato sopra per molti e molti giorni.
    – È venuto a fare il bagno e s’è annegato – esclamò il giornalista con angoscia.
    – Ne dubito, signore. Se fosse annegato, dovunque nel raggio di un miglio dalla spiaggia, il corpo sarebbe stato riportato dall’acqua sulle scogliere; invece le nostre barche, fino a questo momento, non hanno trovato nulla.
    Nulla fu trovato mai, e la scomparsa di Renouard rimase, in realtà inesplicabile. Perché, chi mai avrebbe supposto che un uomo potesse attuare freddamente il progetto di nuotare oltre i confini della vita, a bracciate regolari, con gli occhi fissi a una stella!

    La sera seguente, dalla goletta che s’allontanava, il giornalista guardò per l’ultima volta verso l’isola deserta. Una nuvola nera pendeva immobile sopra l’alta rupe in vetta alla collina centrale; e sotto il silenzio misterioso di quell’ombra, Malata appariva cupa, con un aspetto angosciato nel tramonto selvaggio, quasi rammentasse il cuore che in esso s’era spezzato”.

    Nell’articolo di base, la copertina del libro di Conrad e la scena finale del film citato (Martin Eden)

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