di Lorenza Del Tosto
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Nel 2012 un gruppo di amici ventenni salva dalla demolizione il Cinema America di Trastevere, fonda l’associazione “Piccolo Cinema America”, oggi “Piccolo America”, e inizia a colorare Roma con grandi arene estive gratuite. Da San Cosimato fino a Ostia nasce così “Il Cinema in Piazza”.
L. D. T.
Piazza S. Cosimato, sera d’estate. Il cielo sfuma nel rosso, l’afa si spegne e i ragazzi del Cinema America veloci, nelle magliette amaranto, spostano cavi e microfoni, leggono la febbre e le prenotazioni del pubblico che scorre allegro: in mano cartoni della pizza e cuscini per sedersi a terra in questa zona franca che ogni notte affiora dal dedalo di strade attorno, dove il Covid sparge alcol e violenza.
Nell’attesa, i registi ospiti della serata: Carlos Reygadas, arrivato dal Messico per presentare il suo film Luz silenciosa – premio della giuria a Cannes del 2007 – e i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, parlano animatamente tra loro seduti al bar.
Valerio Carrocci, presidente del Piccolo America, principe della terra franca, ha riservato a Reygadas un saluto commosso.
– Benvenuto – lo ha accolto con la mano al petto – Grazie per aver accettato il nostro invito, nonostante gli ostacoli del Covid – E subito si è ritirato, con i suoi ragazzi, ad un tavolo discosto, pronti ad intervenire alla bisogna, ma lasciando che gli ospiti si godano in pace l’incontro, frutto di due anni di lavoro.
E così sono i fratelli D’Innocenzo, lo sguardo estatico e il romano gagliardo, a fare gli onori di casa. Alti, ancora più alti per quei ciuffi che aggiungono altezza, accanto a Carlos Reygadas, piccolo e minuto.
– È uno grandissimo, purtroppo da noi poco conosciuto.
È la prima volta che lo incontrano, anche se corrispondono con lui da tempo e lo considerano un po’ una loro scoperta, questo messicano ex avvocato che, da vent’anni, fa cinema a modo suo controverso, originalissimo, provocatorio: a Cannes, solo un esempio, nel 2005 ha esibito fellatio in primo piano ad aprire e chiudere il suo Battaglia nel cielo, e ora è qui a Roma a presentare un film sul dolore d’amore.
Pantaloni larghi al polpaccio, sandali, uno sguardo pieno di stupore e una certa ritrosia nei gesti, Reygadas è in compagnia di sua moglie, montatrice dei suoi film, fascinosa in lino bianco e dei loro bambini: principe e principessa educatissimi, occhi curiosi e divertiti spalancati sul mondo. Carlos Reygadas ha trasformato questo invito in un viaggio, a sue spese, con i figli, con tappe nei Paesi Baschi e in Francia per incontrare degli amici, perché “la famiglia è tempo fisico e interiore da trascorrere insieme” e ora è felice di ritrovarsi in compagnia di colleghi, di età e paesi diversi ma che, come lui, si oppongono a un cinema che è canto di sirene e ottunde le coscienze: i giovani D’Innocenzo e il più attempato Marco Bechis che ieri sera ha presentato in questa piazza Garage Olimpo e Figli e ora, seduto al tavolo con la sua barba bianca, parla e ride con loro.
Locandina di Garage Olimpo è un film del 1999 diretto da Marco Bechis
– Dopo tante mail è bello vedere che facce hanno – sussurra uno dei ragazzi seduti al tavolo discosto. Di questo mondo di personaggi, che loro mettono a confronto, fino a poco fa sapevano ben poco. Cercavano un posto abbandonato in centro dove fermarsi dopo la scuola e, per caso, hanno trovato il Cinema America. O il Cinema America ha trovato loro e, da allora, è stata una lunga strada con tante battaglie.
Valerio Carrocci, il presidente, il principe della terra franca, ride, ma ha nello sguardo stasera, dietro la solita ironica esuberanza, un fondo di malinconia. Il suo ruolo, l’autorità a cui tutti si rivolgono, è anche un bel peso, con tutti gli odi che gli attira, e poi i mesi con la scorta, l’apertura magnifica del cinema Troisi sono tutte ombre che scaccia stringendosi alla compagnia degli altri, di chi porta forse pesi più leggeri.
– Non dite Valerio Carrocci – ripete – dite i ragazzi del Cinema America.
Giulia Flor, Federico, Valerio, Elena, Cristina.
Se li tiene stretti attorno, anche a cena, dopo la breve presentazione in piazza, mentre un vecchio, nascosto chissà dove, interrompe i discorsi con colpi di trombetta, e prima dell’incontro con il pubblico, nel ristorante dove gli ospiti si rilassano, scherzano e si scambiano segreti. Allora all’altro capo del tavolo, tra i ragazzi, si insinuano altri discorsi: ispirati forse da Luz silenciosa si parla di amori. I ragazzi sorridono con gli occhi al cielo, sanno già dove il presidente andrà a parare: al grande amore che lo ha rifiutato.
– Dice che le trasmettevo incertezza – mormora incredulo con una stretta di spalle – ha preferito uno di Roma Nord con mocassino e risvoltino.
– Risvoltino – ripete senza capacitarsi, perché invece a lui questa ragazza trasmetteva una sensazione di pace, la stessa delle estati che passava con sua nonna a Castelluccio. Una felicità lontana, e perduta dopo il terremoto. Possedeva un tatto, lei, un’eleganza – Se avevo un incontro importante con qualcuno che mi preoccupava, lei per discrezione si allontanava e poi, alla fine, mi metteva una mano sul braccio e mi chiedeva: allora come è andata? Era bello… – dice con lo sguardo sognante.
– Altro che incertezza… a me è venuto lo spavento… – lo interrompe ridendo una ragazza che ha iniziato a lavorare da poco con loro e il primo mese non ha mai visto Valerio uscire dalla sua stanza: se ne stava chiuso in penombra, dopo un intervento agli occhi, a lavorare 24 ore al giorno. Acqua e cibo consumati in stanza. E c’è chi ricorda altri aneddoti con simpatia e affetto, di questo principe della terra franca lavoratore indefesso ed esplosivo; si capisce che si divertono da matti a lavorare insieme: si racconta del giorno, ad esempio, che il presidente aveva un colloquio su Skype e, per sbaglio, ha preso i sonniferi di prima mattina e non era in grado.
– Valerio non è in grado – era girato il tam tam, finché Giulia, la mitica Giulia Flor, interviene: – Valerio ora basta. Non va bene. Ci sono gli ospiti e non sta bene raccontare tutto.
Dura e amorevole, drastica e pragmatica, mentre tiene d’occhio il menù e le esigenze di tutti, Giulia Flor lo contiene. Aveva 15 anni ai tempi dell’occupazione del cinema America: andava a scuola in centro, viveva in periferia e aveva bisogno di uno spazio dove fermarsi a studiare. E ha scoperto il cinema. Non solo la sala.
– Lì dentro ho scoperto i film sul grande schermo, i miei genitori sono stati fantastici, hanno detto va bene purché tu vada a scuola ogni giorno. Pensavamo che avremmo resistito una settimana ma poi i registi sono venuti a cercarci.
E ora è lei che deve cercare gli ospiti e tirarli fuori dal ristorante, stanno bene ed è difficile farli alzare, ma dalla piazza hanno mandato il segnale, il film è finito e il pubblico non deve aspettare e allora Valerio Carrocci corre avanti a spandere la sua energia, dal palco, sul pubblico che fatica ad uscire dalla malia straniante di un film che trascorre lento, scandito dal ticchettio di un pendolo.
È già notte, ma le domande incalzano su questa storia ambientata nella comunità dei Mennoniti nel nord del Messico. Loro è la lingua originale del film: il Plautdietsch. E in questo mondo chiuso, fatto di regole, Reygadas narra di un uomo sposato e con figli che si innamora di un’altra donna, spezzando il cuore di sua moglie.
Denso e corposo il discorso di Reygadas, come materia incandescente nella notte.
I fratelli D’Innocenzo, accanto a lui sul palco, ascoltano ipnotizzati come il pubblico seduto a terra, dove si sono accomodati anche la moglie, i piccoli e Marco Bechis.Lorenza Del Tosto traduce dall’inglese e dallo spagnolo. Ha ripreso da poco a lavorare in presenza, dopo tanto Zoom (ndr)
– Il motore per me è sempre un sentimento – dice con il suo sguardo sorpreso, luminoso – All’epoca di questo film c’era un sentimento che mi tornava sempre in testa: il dolore che proviamo per amore, un dolore così grande che ci avvicina alla morte. In Luz silenciosa la scena che incarna questo sentimento è quella della donna che esce dalla macchina e muore. Una volta che ho chiara la scena centrale scrivo in uno stato di trance ipnotico e in quattro o cinque giorni finisco la sceneggiatura. Faccio anche dei disegni che mi aiutano a capire dove sono gli stacchi. Per me gli schizzi dello storyboard non sono un limite, come dice qualcuno, sono un plastico dove puoi spostare i pezzi a piacere e visualizzare tutta la storia in anticipo, solo così può esserci passività durante le riprese… È importante essere passivi mentre si gira.
Gli sguardi dei fratelli si fanno più attenti. Il pubblico aspetta di capire cosa è questa storia della passività. Anche il vecchio, nascosto in piazza, che, fino ad adesso, ha sbaragliato il discorso con i colpi della sua trombetta, all’improvviso sembra ammutolito.
– Si abusa del concetto del regista come creatore di immagini, io insisto sulla passività. La macchina da presa non serve a creare uno stile ma a vedere, a guardare. Solo se è quieta la macchina da presa riesce a catturare davvero qualcosa. L’idea che l’essenza del cinema sia il montaggio è una proiezione dell’affanno di controllo della cultura occidentale, L’essenza del cinema è l’inquadratura. La macchina da presa che guarda immobile e cattura il segreto.
È la sua macchina da presa, che resta passiva, a regalare allo spettatore le meravigliose immagini dei bambini nel film, le donne, gli uomini, le pietre, e non solo la realtà fisica, ma anche i sogni, i desideri, il desiderio di futuro. Solo la lentezza permette di vedere cosa batte nel fondo delle cose e assaporarne le emozioni. L’immagine è realtà più della realtà, eppure quasi più nessuno si ferma a guardare. Spiega Reygadas e racconta che un giorno, nel periodo in cui il sentimento di un dolore che ti fa morire dominava i suoi pensieri, si è ritrovato a passare nella zona nel nord del Messico dove vivono i Mennoniti e qualcosa è scattato, dentro di lui, in quel mondo senza classi sociali, retto da regole semplici, immerso in una campagna che per lui è sempre fonte di ispirazione. Si è fermato alcuni giorni e poi sono venuti cinque anni di ricerche per studiarne abitudini, costumi non è stato facile: alcuni di loro non accettavano neanche l’idea di farsi scattare una foto.
Poi una domanda inevitabile sul finale spiazzante. Sul miracolo inatteso.
– Il mio cinema è fatto della pasta dei sogni – spiega – non sappiamo come costruiamo i nostri sogni, sono nostri certo, ma non c’è un libretto di istruzioni che ci dica come fabbricarli. Il finale è nato da un desiderio di ritorno alla vita. Mi dispiaceva tanto per quella donna, per il grande dolore che l’aveva fatta morire. Anche questo è il bello del cinema: puoi far vivere i tuoi desideri, se corrispondono ad una logica del film, anche quando la vita te li nega. E comunque i desideri possono essere molto più forti della realtà.
Silenzio in piazza, una sospensione che prelude a nuove domande, ma è molto tardi, Valerio Carrocci esce dall’ombra e sussurra a Reygadas che forse si può chiudere, che forse lui è stanco. E Reygadas sorride: sì, forse lui è stanco. Però un’ultima cosa ancora vuole dirla con il suo sorriso sorpreso: – Reagite a ciò che non vi piace, bisogna opporsi ad un cinema che ci annienta, immagini noiose e senza sorprese che istupidiscono il mondo.
Il pubblico applaude e resta seduto, sembra che lo abbia preso subito in parola: a restare fermi e a guardare si riuscirà a cogliere il segreto e la magia di queste notti. Di questi incontri.
Poi lentamente la piazza si muove, si svuota. È stata una bella serata, è andato tutto bene. Valerio Carrocci sorride sollevato, anche per lui il desiderio risolverà il dolore d’amore che fa morire e magari anche tutte le altre grane che pesano sulle sue spalle. Sorridono i ragazzi ora che la terra franca della loro piazza si inabissa. Tanto domani riaffiora.
È sorta, anni fa, dal desiderio di un luogo dove, chi non vuole star solo, possa ritrovarsi e il desiderio è ancora lo stesso: fare cose insieme e insieme diventare ciò che si sogna. Perché il desiderio è gagliardo, Carlos Reygadas lo ha appena detto, è fatto di una pasta più resistente di ogni realtà.