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Una cassetta militare serrata da decenni, rinvenuta casualmente in soffitta dietro scaffali e casse fino alla dimenticanza completa. Protetta da un lucchetto a combinazione dimenticata senza remissione e che non si è aperto in nessuno dei tentativi, cedendo infine soltanto a robuste tronchesi. Dentro lettere di famiglia e documenti che credevo perduti per sempre. Alcuni diari e appunti di lezioni: di anatomia, di geometria, di letteratura e di linguistica. Ero iscritto a giurisprudenza, ma frequentavo medicina, lettere, a seconda dell’interesse del periodo o della persona che accompagnavo. Tutto in modo estemporaneo, le cui tracce sono rimaste nelle stive del mio animo e, parzialmente, negli appunti odoranti di muffa. Fra questi fogli il ricordo di una lezione sui dialetti, facoltà di lettere moderne, università di Catania, prima metà degli anni sessanta. Ho trascritto quasi integralmente le note ritrovate quando ho letto l’appello del follower sardo (leggi qui: l’articolo e i commenti). C’entrano poco o punto, forse, ma mi è parsa una buona occasione per festeggiare il ritrovamento e scrivere di un argomento assai fascinoso.
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Il dialetto (dal greco diálektos, κοινὴ διάλεκτος, cioè “lingua comune”) indica, per l’appunto, la parlata comune giornaliera, casalinga, volgare di un popolo, di una città, di un distretto, non usata come lingua letteraria, mentre, proprio nell’uso comune, si suol chiamare lingua propriamente detta quella che è diventata la lingua letteraria d’una nazione.
Secondo questa distinzione era uso, un bel po’ di decenni addietro, far riferimento alla lingua toscana: “…noi chiamiamo lingua il toscano, che non è che il dialetto della Toscana assunto al grado di lingua letteraria, mentre chiamiamo dialetti le parlate volgari di Milano, di Torino, di Parma, di Roma, di Napoli, di Sicilia”.
Così la lingua tedesca letteraria (colta, ufficiale, usata per la documentazione ufficiale pubblica e privata) non è che il dialetto sassone elevato a tal grado da Lutero.
Invece, secondo la scienza linguistica, non s’ha distinzione fra lingua e dialetto, anzi per dir meglio, lingua e dialetto sono due nomi di una stessa cosa. Infatti, se un corpo di espressioni basta ad una società grande o piccola, alta o infima, colta o incolta, per esprimere i propri pensieri secondo i bisogni della vita, non si vede perché quel dato corpo di espressioni non di debba chiamar lingua anche se non fu mai scritto e non ebbe momenti letterari. Di più ogni persona presa da se, ove parli, ha pur sempre una lingua sua, non un suo dialetto.
Non c’è dunque secondo la linguistica, differenza alcuna fra la più colta lingua letteraria e la più umile lingua d’una rozza tribù, perché l’una e l’altra servono e alla “società colta” e alla “rozza tribù” per esprimere i loro pensieri. Piuttosto, secondo la linguistica, si possono considerare come dialetti tutte le diverse variazioni d’una medesima favella. Prescindendo sempre dall’essere o non essere quella data variazione, una lingua letteraria.
Cosi, ad esempio, il latino, il greco, il germanico, il celtico, lo slavo, l’iranico, il sanscrito sono altrettanti dialetti della grande favella indo-europea, mentre il tedesco moderno, l’olandese, l’inglese, lo svedese, il norvegese, il danese sono altrettanti dialetti della favella germanica, mentre l’italiano, il francese, lo spagnolo, il rumeno, il provenzale sono i dialetti della favella neo-latina. L’antico greco si suddivideva in quattro dialetti principali: l’eolico, il dorico, il ionico, l’attico del quale il quarto, l’attico era una variazione.
Del resto, ritornando ad usare la parola “dialetto” nel senso più comune, è un errore il credere che i dialetti siano una corruzione della lingua letteraria. Una favella qualunque, poniamo l’italiana, è come una grande corrente suddivisa in tanti rami, ma questi rami sono paralleli e indipendenti, né uno deriva dall’altro, mentre ad uno soltanto è stato dato l’onore di diventare lingua letteraria.
Questi rami, quanto più sono vicini all’origine comune, tanto più si somigliano fra loro; progredendo, le differenze si fanno maggiori e le singole parlate si moltiplicano. Ciò avviene tanto meno quanto più forte è la lingua letteraria; ma quando le parlate sono libere, il frangersi e il rifrangersi dialettale è infinito.
Dice Plinio che i Romani dovettero mantenere più di cento interpreti per comunicare con quelli della Colchide (1), parlanti più di trecento dialetti diversi; e i missionari gesuiti, andando tra le tribù delle Americhe, vi trovarono un numero sterminato di dialetti parlati da tribù vicinissime fra loro. I dialetti poi sono spesso più ricchi, più energici ed efficaci della lingua scritta, che ha sempre un poco dell’artifiziato, mentre il dialetto, anche il più incolto, è la vera lingua allo stato naturale.
Nota
(1) – Nell’antica geografia, la Colchide era uno stato georgiano, situato nella parte occidentale della Georgia. La Colchide era nella mitologia greca il regno di Eete e la patria di sua figlia Medea nonché la destinazione degli Argonauti, essendo anche la possibile patria delle Amazzoni. I colchici si erano stabiliti nel Caucaso nella media età del bronzo.
Sandro Russo
10 Luglio 2021 at 11:04
Anch’io, stimolato dalla questione sul dialetto posta dal lettore di Siniscola (leggi qui) stavo raccogliendo materiale sul tema, indipendentemente dal casuale “ritrovamento” di Tano.
‘Ravanando’ sul web, ho trovato queste illuminanti asserzioni a sostegno della dignità del dialetto, nel senso appunto proposto dall’articolo pirroniano.
Non esistono criteri scientifici o universalmente accettati per discriminare casi in cui due varietà linguistiche debbano considerarsi due “lingue” diverse o due “dialetti” (nel senso di “varietà”) di una stessa lingua (Cysouw M. e Good J.; 2013). Lo stesso Leonard Bloomfield (un padre della linguistica) scrisse (nel 1933) che la distinzione è puramente relativa.
La soggettività e le difficoltà che si incontrano nello stabilire confini linguistici tra lingue e varietà è illustrata dal celebre aforisma “Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina”, usualmente attribuito al linguista lituano Max Weinreich. L’aforisma espone in maniera succinta il fatto che la distinzione fra lingua e dialetto è di natura politica, più che linguistica. Ancora è stato detto che una lingua è “un dialetto che ha fatto carriera” (Berruto G., in Gobber G.; 2006).