di Amelia Ciarnella
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Quando siamo rientrati in Italia da Addis Abeba abbiamo trovato il nostro paese un po’ in subbuglio poiché, sebbene la maggior parte degli abitanti fosse gente semplice non abituata ad ascoltare la radio, le notizie arrivavano lo stesso anche se distorte, e tutti avevano ormai capito che nell’aria c’era sentore di guerra. Per cui nessuno viveva più tranquillo.
E noi, che credevamo di ritrovare in paese la stessa atmosfera piacevole e distensiva che avevamo lasciato quando siamo partiti per l’Africa, non abbiamo potuto fare altro che constatare con immenso sconforto di essere caduti dalla padella nella brace!
Abbiamo avuto soltanto qualche mese di “pausa” per poterci rilassare e cercare di allontanare dalla nostra mente quel traumatico viaggio di ritorno che, con quella tremenda tempesta, per puro miracolo non ci aveva spedito nel profondo degli abissi. C’era stata, poi, l’altra grande preoccupazione, che ci aveva accompagnato costantemente fino allo sbarco a Napoli, di finire silurati da un momento all’altro! Ora eravamo nel nostro paese, almeno sulla terraferma, e avremmo desiderato di poter per lo meno dormire tranquilli! Cosa che non fu possibile.
Una notte, infatti, siamo stati svegliati dal rumore di un ricognitore che girava con insistenza sul nostro paese e dintorni lanciando razzi e illuminando a giorno l’intera zona, al fine di perlustrare bene ogni cosa e preparare i soliti piani di guerra!
Naturalmente, nel sentire tale rumore, tutti gli abitanti, noi compresi, ci siamo svegliati di soprassalto spaventati e, non conoscendo le intenzioni di quel ricognitore – poiché nessuno ci aveva avvertito di nulla – siamo usciti correndo dalle nostre case. Alcuni anche in pigiama o in camicia da notte riversandoci nelle campagne per poterci nascondere sotto gli alberi o dentro i fossi, rimanendo fermi e zitti nel timore di essere visti, sentiti e mitragliati!
Ricordo che, mentre eravamo sdraiati e quasi “appiattiti” dentro un fosso, evitando perfino di respirare per non muoverci ed essere visti, il ricognitore, che in quel momento si trovava proprio sulle nostre teste, lanciò un razzo che ci illuminò completamente a giorno, terrorizzandoci non sapendo cosa sarebbe successo! E quella luce così intensa, chiara e forte mi è rimasta impressa nella mente come tante altre cose che pure mi hanno impressionato parecchio!
Dopo questa ennesima brutta esperienza non abbiamo avuto il coraggio di tornare subito in paese e abbiamo seguito la scia degli altri abitanti, passando da un casolare di campagna all’altro, con la viva speranza di vedere arrivare presto gli americani che, essendo nostri alleati, ci avrebbero liberati da quell’angoscia dei tedeschi facendo ritornare in noi un po’ di serenità.
Eravamo verso la fine del 1943, quando già i tedeschi si erano trincerati dentro l’Abbazia di Montecassino e dall’alto di quella montagna potevano controllare l’intera zona fino al mare.
Il mio paese era ed è posto a circa trenta chilometri da Montecassino e a cinque dalla pianura del Garigliano, di conseguenza era esposto sia alle cannonate tedesche che a quelle americane. Inoltre gli americani erano in una posizione di svantaggio rispetto ai tedeschi, poiché accampati nella pianura del Garigliano, quindi in basso. Così non potevano né muoversi né iniziare nessuna operazione senza essere visti dai tedeschi. Pertanto dovevano semplicemente aspettare l’occasione favorevole per poter avanzare verso l’alto senza rischiare troppo. Cosa che avvenne, ma non certo in un paio di giorni, come tutti credevamo! Impiegarono infatti ben tre mesi… quando noi eravamo già sfollati a Roma!
Ricordo che in questo periodo di attesa tornammo nella nostra casa in paese, dove rimanemmo nascosti ventotto giorni, ignorando le cannonate che diventavano ogni giorno sempre più vicine e più fitte. Poi, il ventottesimo giorno, un tedesco sfasciò la nostra porta con un calcio e, da quel momento in poi, la nostra destinazione fu Roma, dove arrivammo dopo varie peripezie delle quali, però, non conservo il minimo ricordo.
Di tutto il periodo bellico che abbiamo vissuto, mi sono rimasti impressi nella mente soltanto gli episodi che mi hanno spaventato di più; per il resto, son tutti ricordi frammentari.
Forse dieci anni sono pochi per poter ricordare bene ogni situazione che si presentava nella vita di tutti i giorni; a me sembra di non averla proprio vissuta, in quel periodo, una vita normale! Oppure si è cancellata completamente dalla mia memoria!
Ricordo che a Roma i primi giorni siamo stati ospitati da un’amica di mia madre. In seguito ci sistemarono, insieme ad altre famiglie, in una casa cantoniera, in mezzo ai binari, che veniva bombardata a giorni alterni e dovevamo fuggire di continuo. In una di queste volte, io ed una mia coetanee eravamo a giocare sotto il portone e non abbiamo sentito suonare la sirena; abbiamo solo visto e sentito arrivare le bombe, una delle quali è esplosa a poca distanza da noi e una scheggia ha colpito e staccato quasi di netto la mano della bambina che mi stava accanto! Ho fatto solo in tempo a vedere Lenuccia che si guardava, incredula, la mano ancora attaccata al suo braccio da un sottile lembo di pelle! Poi è accorsa gente e Lenuccia non l’ho vista più. Io stessa mi sono ritrovata in un altro posto, in mezzo a tante signore che non conoscevo e lontano dai miei familiari. Ricordo che eravamo in un vasto salone al piano terra con ampie finestre bianche, da dove si vedeva anche la strada: sarà stato certamente un Pronto Soccorso di qualche Ospedale, dove poi è passata mia madre a prendermi.
Nei primi mesi del 1944, i bombardamenti a Roma erano molto frequenti e la vita continuava a scorrere, ma come capitava!
Un giorno mia madre mi portò a prendere la Befana che distribuivano a tutti i bambini sfollati a Roma e, mentre eravamo ad aspettare in un salone di un grande palazzo, insieme a tante altre mamme con bambini, è suonata la sirena che annunciava il solito bombardamento. La cosa che spaventò maggiormente fu che, invece di farci uscire e mandarci nei ricoveri, chiusero le porte e ci tennero tutti fermi là. Le mamme urlavano protestando e tutti i bambini piangevano. Intanto fuori si sentivano le bombe che cadevano, la gente che urlava e correva da ogni parte, per cercare di ripararsi in qualche modo, ed era tutto un completo caos! Poi l’allarme cessò, aprirono le porte e uscimmo tutti senza aspettare nessuna Befana! Ricordo che mentre eravamo sul tram per tornare indietro, ad una fermata salirono due donne, mezze sconvolte e ancora sporche di calcinacci, così come erano state tirate fuori dalle macerie della loro palazzina; si recavano in Ospedale perché stavano male e dovevano fare dei controlli. In questo periodo Roma subì molti bombardamenti che devastarono numerosi quartieri, fra cui quello di San Lorenzo, dove morirono tremila persone!
Arrivò, infine il periodo più nero della nostra permanenza a Roma. Si avvicinava infatti il mese di marzo durante il quale andavamo, come ogni giorno, a fare l’unico pasto della giornata in una trattoria dove l’oste ci forniva anche alcuni panini di contrabbando, uno a testa, con i quali facevamo la cena. Ma un giorno ci disse che il fornitore non glieli aveva portati e dovevamo tornare di pomeriggio per ritirarli.
Ecco, di pomeriggio, mio fratello andò, ma non lo vedemmo più tornare! Passammo il pomeriggio, la notte, il giorno dopo e altri due giorni, nella completa angoscia! Durante questi tre giorni, due fratelli di mia madre e mio nonno cercarono mio fratello in tutti gli ospedali di Roma, senza trovarlo. Poi denunciarono la sua scomparsa alla polizia e un Commissario consigliò di controllare prima alcuni cadaveri, depositati come sconosciuti nella camera mortuaria al cimitero del Verano, e dopo fare le ricerche fuori Roma. Mio nonno e i due fratelli di mia madre andarono e, dopo aver scoperchiato diverse casse, dove si vedevano solo individui maciullati e irriconoscibili, trovarono mio fratello nell’ultima cassa, ancora intatto, ma con la fronte spaccata da una scheggia! Aveva tutti i suoi documenti del collegio, perfettamente conservati in tasca.
E aveva solo sedici anni!
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