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Stimolato, pensiamo, dal recente caso della ragazza fatta bendare dall’insegnante durante una sessione di didattica a distanza, un intervento più complessivo di Bruno Santoro sul mestiere di educatore e sulla scuola.
La Redazione
Ci si interroga spesso sul difficile mestiere del genitore e sulle strategie di educazione dei nostri figli. Il luogo comune dice che si tratta di un ‘mestiere difficile’, che è compito di un adulto imparare il più presto possibile ma che in genere, come tutti riconoscono, è anche un ‘mestiere’ che ‘come fai sbagli’, in cui si fanno purtroppo molti errori e che solo col tempo, e non sempre in tutti i casi, si riesce a trovare una propria posizione di padre e di madre: magari imparando dai propri errori e… riparando con i figli successivi.
Lo stesso luogo comune recita infatti che i secondi figli, per non parlare dei terzi e oltre, beneficiano di questa esperienza e godono di trattamenti differenziati rispetto al primo o alla prima: dai quali il novizio genitore, di ambo i sessi, esige e pretende con la massima forza che carattere, disposizioni, comportamento e persino fattezze della progenie appena generata assomiglino esattamente alle proprie aspettative, senza eccezioni o scostamenti.
Col tempo qualcuno poi comprende che le aspettative e le pretese non erano giustificate da nulla se non dalla propria formazione, dai propri miti personali, dalla propria cultura, insomma dalle proprie proiezioni mentali ed affettive, persino dai propri sogni frustrati: lo testimoniano i papà che seguono i figli a scuola di calcio sognando neanche tanto nascostamente di allevare il campione ricco e famoso; quelli che mettono un bimbo neanche capace di camminare su una minimoto a motore a scoppio (nel corso principale del paese), le mamme premurose che accompagnano i figli prima a danza, poi in piscina, quindi a musica e Tai Chi: non trascurando di fare la ‘mamma moderna e amica’ nei rapidi spostamenti tra una palestra ed una pista di roller-skate.
Direte che non tutti siamo così, ed è certamente vero, e meno male: ma l’atteggiamento generale, quello di proiettare sui propri figli molte delle aspettative che abbiamo nutrito senza poterle realizzare nella nostra vita, quello no, è purtroppo molto diffuso, alimentato peraltro anche dai miti collettivi generati dalla pressione pubblicitaria oltre che da antichi retaggi della propria formazione.
Diciamo che una certa melma da fondale culturale di cui non ci rendiamo conto facilmente, nel momento in cui assumiamo un ruolo come quello genitoriale, riaffiora e ci spinge ad indossare un abito, cioè un modello comportamentale che magari neppure sapevamo di possedere; addirittura impariamo a conoscerlo come modus mentale, che in realtà covava paziente da qualche parte molto ben protetta dentro di noi, nel momento stesso in cui cominciamo ad indossarlo.
Capita così che giovinastri tattoo-muniti e pumitrozzole sgarrupate, una volta diventati genitori con tanto di passeggino e telo anti-pioggia al parchetto con altri consimili, rispolverino atteggiamenti, esibiscano con naturalezza convinzioni e si esibiscano in considerazioni che ora sembrano loro naturali ed adeguati alla luce della propria mutata condizione ma che poco tempo prima, da figli, avrebbero aborrito con indignazione.
Capita anche a molti insegnanti, che una volta in cattedra e dovendo assumere un abitus adeguato alla propria condizione e al proprio ruolo, spesso finiscono per riprodurre spontaneamente il modello comportamentale e persino gli schemi di giudizio che hanno imparato a conoscere, ed hanno subito, nei lunghi anni della loro scolarizzazione. In pratica senza rendersene conto – che è la cosa peggiore: si tratta di persone per bene, non di casi umani o di ignoranti senza arte né parte – finiscono per riproporre l’unico vero modello che conoscono, magari qua e là limato in qualche particolare e aggiornato ai tempi.
In fondo loro, gli insegnanti, sono i sopravvissuti di un sistema scolastico esclusivo e selettivo come il nostro che dietro le belle parole (anche la retorica delle buone intenzioni è di fatto uno dei nostri retaggi e avvelena il nostro fare) cela un diagramma teorico molto particolare.
La scuola italiana – uno strano miscuglio di idealismo retorico, di positivismo dialettico e di pedagogismo d’occasione (siamo tutti virologi, tutti allenatori di calcio e della nazionale, tutti politici ed economisti, tutti dannatamente chiacchieroni inveterati) – si impone una curva degli apprendimenti molto ripida se confrontata con quella di altri paesi, come quelli anglosassoni. Impostiamo gli apprendimenti come se un allievo debba, sin dai primi anni, affrontare le discipline con una progressione esponenziale e senza un reale criterio di rispetto dei tempi dell’apprendimento e delle differenze individuali: un sistema che premia le classi più veloci, gli insegnanti più rapidi nello svolgimento dei programmi, che stimola qualche punto molto sensibile della nostra vanità prestazionale quando gli allievi si dimostrano ‘all’altezza’ delle nostre aspettative e sviluppano capacità e competenze disciplinari. Un sistema però che si lascia indietro morti e dispersi oltre ad un disagio formativo che la maggior parte degli studenti, una volta lasciata (finalmente!) la scuola dell’obbligo o completato in qualche modo un percorso di secondaria, denunciano apertamente come folle, sperequativo, illogico e demotivante quando non anche ridicolo.
Prova ne è che la maggior parte degli ‘apprendimenti’ impartiti a suon di ‘giudizi’ vengono poi regolarmente dimenticati e non più alimentati, se non per riandare agli anni della propria giovinezza.
Tutti lamentano l’assenza di consapevolezza storica o di competenze logico-argomentative o di capacità logico-matematiche o di coscienza civica: pochi affrontano però il problema di come costruirle concretamente, di come farle diventare il programma di lavoro scolastico e formativo.
L’analfabetismo funzionale della società italiana è in gran parte il frutto di questo sistema: l’assenza di coscienza storica, la scarsa considerazione della scienza, l’uso di fonti di informazioni di bassissimo profilo e attendibilità, la facilità di diffusione di concezioni errate e pregiudizi, il palese deprezzamento della cultura (arte, musica e canto, teatro e letteratura) sono il frutto avvelenato di questo sistema: persino tra gli stessi docenti.
Non di rado mi è capitato di sentire proteste degli ‘specialisti’ che lamentavano con livore le continue ‘perdite di tempo’ nelle classi per iniziative ‘culturali’ o di ‘cittadinanza’, ovvero per occasionali spettacoli di musica e teatro, di incontro con autori e testimoni del nostro tempo.
Si dice che gli ‘abusati’, una volta sopravvissuti all’oltraggio subito, tendano poi a riprodurlo essi stessi come una sorta di risarcimento e ‘normalizzazione’ del disagio subito. Così avviene che in molti che hanno frequentato una scuola che hanno odiato, della quale non hanno visto l’ora e il momento di liberarsi per modalità e incombenze, della quale non ricordano quasi nulla di significativo se non le barzellette sugli insegnanti e i pettegolezzi sulle docenti, una volta genitori esigano dai docenti una ‘scuola seria e formativa’, inflessibile con la disciplina ancorché benevola nel giudizio conclusivo mentre docenti che hanno dimenticato il loro astio di allievi e la fatica fatta per far sopravvivere il piacere di imparare che la scuola sempre dovrebbe stimolare, si adeguano al ruolo di ‘giudici’ e ‘valutatori’ a tutto tondo. Come se invece che su uno scranno di ‘allenatori’ di capacità e costruttori di competenze fossero assisi su alti seggi di ‘maturità educativa’, acquisita peraltro non si sa bene né dove né come.
Non se la prendano i tanti onesti, bravi e infaticabili insegnanti che invece sostanziano la propria professionalità arricchendola con i nuovi saperi delle scienze dell’educazione, costruendo la propria attività didattica come costante ricerca e azione, arricchendo la consapevolezza della natura enattiva (*) del processo di insegnamento ed apprendimento: spesso irrisi apertamente o aggrediti come ‘buonisti’ e ‘pedagogisti’ nei consigli di classe, regolarmente messi in minoranza da boriosi e livorosi colleghi e ‘specialisti’ – …ma dde che? – per i quali una sonora bocciatura è l’unica cura per ‘allievi che disturbano’, per quelli ‘che non seguono’, per gli altri che ‘non capiscono anche se ripeto tre volte’, per ‘quelli che non studiano a casa’, che ‘non si impegnano’, ‘che sono demotivati e spesso distratti’.
Ossessionati dalla propria impotenza didattica si arroccano in un fortino dove autorevolezza corrisponde ad autorità, le conoscenze – …acquisite come? Boh! – generano competenze e dove la conoscenza è oggettivamente definita da un certo numero di risposte corrette a domande verbali e casuali.
A ben guardare, la benda sugli occhi la pretendono dai propri allievi nelle loro ‘verifiche’ – ma che è? Rischiatutto? – per pareggiare la propria, di condizione. Anche se non è detto che, a parti invertite, supererebbero la prova.
(*) – La conoscenza non è né rappresentazione mentale di una realtà esterna né tantomeno una costruzione soggettiva, bensì è “enazione”, estrapolazione di significati e di un mondo nel corso di un’interazione senso-motoria con l’ambiente e con gli altri.
L’Enattivismo ritiene che l’azione stessa, consapevole e intenzionale, sia conoscenza.
(da: https://didatticapersuasiva.com/didattica/didattica-enattiva )
(**) – Immagine di copertina: screenshot dal web
(***) – La serie di articoli sulla scuola a cura di Bruno Santoro si possono leggere utilizzando la funzione “Cerca nel sito” – digitare Scuola
Sandro Russo
19 Aprile 2021 at 19:24
Non se tutti possono vedere il video da Repubblica on line di oggi, ma la didascalia sottostante è altrettanto significativa. Eccola:
Palermo, il docente si benda per fare lezione in dad: “Voglio solo ascoltare le vostre voci”
di Giada Lo Porto
Siamo nel quartiere Brancaccio-Sperone, una delle periferie difficili di Palermo. In ragazzi in dad non si collegavano, chi per vergogna nei confronti del contesto in cui vive, chi per insicurezze esplose nel periodo della pandemia. Allora un docente palermitano ha deciso di fare un esperimento: si è bendato e ha chiesto ai ragazzi di accendere la webcam e parlare, tanto lui non vedeva il contesto in cui stavano o i loro volti, voleva solo ascoltare le loro parole, le loro inquietudini. Uno dietro l’altro ecco apparire i volti delle ragazze che frequentano il Cirs, corsi di obbligo per combattere la dispersione scolastica finanziati dal fondo sociale europeo.
Il contesto è difficilissimo.
“La cronaca ci racconta di allievi costretti a bendarsi per dimostrare di “aver appreso la lezione”, di aver ingurgitato il contenuto, di essersi riempiti come un contenitore – dice Francesco Carnevale, docente di italiano, storia e geografia – Ebbene, il mio gesto, si oppone a tale modello, il mio gesto vuole rappresentare un modello educativo dove quello che conta è l’esempio non la nozione, dove il docente, ponendosi all’ascolto dell’allievo impara e insegna, ascolta e viene ascoltato”.
Alla fine l’esperimento del docente palermitano è riuscito e i ragazzi sono rimasti con la cam accesa anche quando si è tolto la benda. Oggi la vittoria più grande: quando si sono collegati tutti si sono mostrati vincendo la paura. E la vergogna. Una piccola grande vittoria. Adesso si procede a piccoli passi.