di Amelia Ciarnella
Io sono nata in un periodo apparentemente pacifico: era il 1933, ma già da allora, in altre parti del mondo, c’era il sentore della seconda guerra mondiale: solo che pochissimi ne erano a conoscenza e non certo del mio paese. Il mio era un paesino agricolo, “candido” e tranquillo, che emanava serenità assoluta in ogni senso e dove ho vissuto i miei primi quattro anni, attorniata da gente semplice e buona, quasi tutti di famiglia, che avevano come unico pensiero e cura la campagna, con tutte quelle problematiche attinenti ad essa: come i tempi della semina, della mietitura, della vendemmia e di mille altre cose, che facevano giornalmente col massimo piacere e interesse, poiché la campagna era tutto il loro mondo e dalla quale traevano ogni sostentamento. Io ricordo poche cose di quel periodo, ma posso senz’altro affermare che sia stato il migliore e il più sereno della mia vita! Mia madre mi raccontava che da piccola avevo una lingua scioltissima ed ero molto disinvolta, oltre che vivace e allegra. Cosa questa che mi ha sempre meravigliato moltissimo sentirmelo dire; poiché ricordo di essere sempre stata tutto l’opposto: un po’ introversa, timida e di poche parole. Quale trauma avrà cambiato, in modo così radicale, il mio modo di essere?
Intorno al 1937, per motivi di lavoro di mio padre, la mia famiglia si trasferì in Africa, ad Addis Abeba e, forse, questo repentino cambiamento di ambiente, così totalmente diverso da quello del mio paese, avrà influito negativamente su di me, anche a causa della mia eccessiva sensibilità. Oppure sarò stata traumatizzata dal viaggio per salire verso Addis Abeba, posta come si sa, a 2355 metri di altezza! Ricordo che dopo lo sbarco, abbiamo dovuto viaggiare diversi giorni a bordo di una Balilla, su una strada non troppo larga, che costeggiava la montagna; ma dalla parte opposta a questa, era senza nessuna protezione e lasciava chiaramente vedere la spaventosa profondità del burrone e, di tanto in tanto, anche qualche carcassa di automobile che vi era precipitata giù a causa di incidente! Io, per tutta la durata di quel viaggio, ebbi la febbre.
Mi passò soltanto a viaggio concluso, dopo essere entrata in casa! La nostra permanenza in Africa, però, è stata molto serena e piena di benessere; peccato che, come tutte le cose belle, è durata molto poco! Infatti, dopo circa quattro anni, ci fu l’occupazione di Addis Abeba da parte degli inglesi e da quel momento cominciarono i guai per tutti gli italiani! I ribelli diedero inizio ad assalti feroci verso ville o case isolate di italiani, uccidendone gli occupanti; e nessuno più si sentiva tranquillo. Il Negus, da parte sua, difendeva gli italiani come meglio poteva, facendo arrestare e impiccare i colpevoli, esponendoli nelle pubbliche piazze, come esempio, affinché non si ripetessero più quei mostruosi misfatti. Ma ben presto i ribelli affluirono in città a migliaia, costringendo perfino il Negus a lasciare Addis Abeba, per non rischiare di essere catturato e ucciso! Intanto gli inglesi, in un primo momento, ci fecero spostare nelle zone di sicurezza, al fine di poterci proteggere: ma poi, per non avere ulteriori responsabilità e noie, decisero di “rispedirci” tutti in Italia: con l’obbligo di portare soltanto ventiquattro chili di bagaglio a persona; sistemando altre cose in un unico baule, con sopra scritto: nome e indirizzo del luogo dove volevamo che venisse spedito. (Il nostro baule arrivò completamente vuoto, dopo diversi mesi che già eravamo in Italia; con dentro soltanto un paio di mutandine da donna, che non erano neppure nostre!).
Ricordo che lasciammo Addis Abeba, insieme a tante altre famiglie, incolonnati in una lunga fila di camion, messi a nostra disposizione dagli inglesi, che ci avrebbero accompagnato fino all’imbarco. Io in quel periodo avevo quasi otto anni e, seduta accanto a mia madre, un po’ intimidita, da tutte quelle persone che viaggiavano con noi e non conoscevo; mi distraevo guardando fuori dal finestrino, lo splendido e vario territorio africano, che stavamo attraversando: con alberi altissimi dove centinaia di scimmie saltavano da un ramo all’altro, senza alcun timore. Poi folti boschi che si alternavano a fitte foreste, che subito dopo, si aprivano su grandi spazi con tanto sole, sotto un cielo azzurrissimo! Intanto la colonna di camion correva veloce, lasciandosi dietro quel fantastico panorama africano che, forse, nessuno di noi avrebbe più rivisto, così da vicino!
Prima di sera, arrivammo in una specie di ospedale da campo, allestito con tende e uffici vari, apposta per noi, dove ci fecero pernottare. Purtroppo in questo campo, a causa del latte avariato, morirono numerosi bambini: specialmente neonati. Non ricordo quanti giorni rimanemmo in questo campo, dopo questa grave disgrazia; nemmeno ricordo chi ci portò sul luogo dell’imbarco. Ricordo soltanto che ci ritrovammo tutti nel porto di Berbera e vedemmo le due navi ferme ad aspettarci al largo; poiché troppo grandi e non avevano potuto attraccare in porto.
Ci portarono con un barcone, a gruppi di venti o trenta persone per volta. Poi salimmo sulla nave per mezzo di una scaletta mobile, fissata per l’occasione sulla fiancata esterna della nave. Salivamo una persona alla volta e quando sono salita io ho avuto tanta paura perché la scala si muoveva a causa del vento e vedevo sotto di me l’azzurro profondo del mare e temevo di caderci dentro da un momento all’altro!
Poi, appena arrivati tutti a bordo, siamo stati accolti dalle crocerossine, che ci hanno offerto ogni tipo di bibite fresche. E dopo esserci ripresi e tranquillizzati ci siamo rilassati ammirando, dall’alto della nave, il magnifico panorama del mare di Berbera! Il viaggio durò oltre un mese, fra soste e motivi vari. Ma, pericoli a parte, su quella nave siamo stati benissimo, perché oltre a mangiare molto bene, c’era ogni tipo di divertimento, sia per grandi che per piccoli. Non mancava proprio nulla: molto meglio di una nave da crociera! Solo che già si era in guerra, anche se nessuno ancora ce lo aveva detto!
Ben presto però, ci venne il sospetto di qualche pericolo imminente. Infatti, sebbene le due navi gemelle, sia la Vulcania che la Saturnia, fossero due navi ospedaliere, contrassegnate da una grande croce rossa, messa bene in evidenza sull’albero maestro, ad indicare ai bombardieri che su quelle due navi vi erano soltanto vecchi, donne e bambini, ci fermarono lo stesso di notte, facendoci entrare in un porto, dove ci ordinarono di andare tutti nei dormitori, di spegnere le luci e rimanere in silenzio, fino a nuovo ordine!
Fuori era notte inoltrata; si sentivano le bombe che cadevano e facevano oscillare o sussultare la nave, secondo la distanza dell’esplosione delle bombe. Eravamo tutti molto spaventati, alcune donne avevano accennato una preghiera ad alta voce, ma erano state subito azzittite. Però i bambini piangevano tutti, perché avevano paura del buio: compresa me, che, da quel momento, ho sempre sofferto di claustrofobia che non mi è più passata, anzi si è aggravata sempre di più!
Insomma, una nottata di terrore!
Dopo questo increscioso e inaspettato evento, lasciammo il porto, ma sulla nave si respirava ormai un’aria di profonda inquietudine e incertezza. Si diceva che l’Italia era entrata in guerra e che vi era stata una battaglia navale nel Mediterraneo; però nessuno aveva la certezza di nulla. La cosa poi, che destò maggiore preoccupazione fu quando vedemmo calare a fior d’acqua tutte le scialuppe di salvataggio di cui era fornita la nave. Inoltre, ci diedero anche un salvagente a testa, raccomandandoci di esercitarci ad indossarlo e, ogni giorno, quando sentivamo suonare una sirena, dovevamo recarci, con calma, sul ponte della nave, dove avremmo trovato il Comandante che ci avrebbe dato consigli e ogni tipo di istruzione: in conclusione ci stavano preparando ad affrontare un eventuale affondamento della nave che, per fortuna, non ci fu!
Ci fu invece una furiosa tempesta, nella quale ci imbattemmo e che, per puro miracolo, non ci spedì tutti nel profondo degli abissi! Senza bisogno di essere né silurati e né bombardati!
Tutto cominciò improvvisamente con un forte vento di burrasca che ben presto si trasformò in un vero e proprio uragano! Onde gigantesche si abbattevano sul ponte della nave, inondando tutto e spazzando via ogni cosa. La nave, malgrado la sua enorme mole, sembrava impazzita: si alzava prima di prua, poi di poppa, dondolava, oscillava e scricchiolava paurosamente, come fosse stata completamente in balia delle forze della natura! Eravamo tutti terrorizzati! C’era chi pregava e chi piangeva ma la maggior parte cercava di tenere ferma la testa sul cuscino, per cercare di non vomitare, per il forte mal di mare! Poi, fortunatamente il vento cessò, la pioggia diminuì, il mare si calmò… e finalmente tutto finì bene, senza alcun danno.
Il quinto giorno, la vita di bordo tornò ad essere normale e i marinai ripresero a verniciare le pareti esterne della nave per farle apparire come nuove al nostro rientro in Italia.
Approdammo nel porto di Napoli, in una bellissima giornata della primavera del 1942, con un sole splendido e un cielo azzurrissimo… perché tutto italiano!
Poi, mentre la macchina ci portava in paese, vidi, fra l’erbetta verde di un prato, un magnifico papavero rosso! Era il primo che vedevo, e mi sembrò talmente bello, che di uguali non ne ho più visti!
Rosanna Conte
17 Aprile 2021 at 17:44
Questo racconto è la testimonianza di come la memoria sia “partigiana”, cioè scelga cosa ricordare e cosa no e sarebbe utile discuterne all’interno di un discorso sulle fonti orali.
Nessuno nega che il ricordo dell’autrice sia proprio quello, ma guardando la vicenda dall’esterno ci si chiede come mai siano considerati invasori gli inglesi e non gli italiani che avevano occupato quel territorio con una guerra sanguinosa tra il 1935 e il 1936, prima che Lianella vi si recasse con la famiglia. Era piccola e non poteva sapere cosa avevano fatto gli italiani alle popolazioni dell’Etiopia per riuscire a farci arrivare famiglie italiane come la sua.
Se nel viaggio di ritorno gestito dagli inglesi ha fra i ricordi terribili quello del campo in cui per latte avariato morirono dei bambini, non sa, come non sapeva, che nei numerosi campi di concentramento creati negli anni precedenti dagli italiani, villaggi interi vi furono sterminati per fame e malattie, dopo essere scampati ad altri massacri perpetrati con armi tradizionali e con armi chimiche.
Della vicenda fa una ricostruzione ampia e particolareggiata lo storico Paolo Borruso in “Debre Libanos” pubblicato lo scorso anno. Leggendolo si può misurare il divario fra la percezione filtrata dalla memoria e le ricostruzione documentata dei fatti.
vincenzo
18 Aprile 2021 at 10:02
Il padre si trasferì per lavoro. Lei era bambina. Il viaggio fu scomodo, la strada era pericolosa. Una volta arrivata… viveva bene, quasi felice ma vennero gli inglesi e poi le rivolte e la pace fini.
Ma poi sulla nave, probabilmente inglese, la bambina è stata bene, sembrava una crociera. Poi la tempesta ecc.
Il ricordo risale così come è: non è un trattato di storia sulle violenze di occupazione militare fascista e neanche è descritta la violenza dell’occupazione inglese.
Comunque penso che Rosanna ci teneva a ricordarci che “la guerra è guerra e che anche gli italiani si sono distinti, in quel periodo, come i tedeschi, gli americani, gli inglesi, i russi, in massacri senza pietà”.
Amelia Ciarnella (alias Lianella)
18 Aprile 2021 at 19:05
Ringrazio per i commenti. Di qualunque tenore essi siano. Però non volevo affatto risalire né ricordare i misfatti compiuti dagli italiani per conquistare l’Africa; né da altri popoli che, dai tempi di Nerone, si sono sempre verificati e adoperati per conquistare territori altrui, per il proprio tornaconto. E’ sempre successo nella storia. Cosa che, personalmente, non ho mai approvato.
Ho voluto, mi ripeto, soltanto ricordare, specialmente ai giovani, cos’è la guerra.
Ho saputo tempo fa che in Italia ci sono alcuni luoghi dove molti giovani, desiderosi di guerreggiare per sport, si recano per fare la guerra finta, divertendosi.
Ecco, se avessero visto quella vera, che ho visto e sperimentato io – e che non augurerei mai a nessuno – se ne guarderebbero bene dal fare quella finta!
Tanti cari saluti a tutti coloro che mi leggono e grazie per la loro attenzione.
Rosanna Conte
18 Aprile 2021 at 22:15
Che le guerre spianino la strada a massacri non significa che dobbiamo accettarli come una fatale conseguenza. Appiattire le situazioni generalizzando, è un po’ come dire che nel buio tutti i gatti sono neri. Invece le responsabilità vanno individuate, a qualsiasi paese appartengano i mandanti e gli esecutori di stragi. Le guerre sono deprecabili e disumane sempre, ma i massacri di adulti inermi e bambini sono inspiegabili senza pensare al disprezzo dell’umanità. E questo riguarda tutti.
Luisa Guarino
24 Aprile 2021 at 18:17
Sul settimanale La Lettura del Corriere della Sera di domenica 18 aprile lo scrittore Carlo Lucarelli firma una recensione di “Il Re Ombra”, il nuovo romanzo dell’americana Maaza Mengiste, nata ad Addis Abeba, che “scava con sensibilità nel passato dell’Europa. Un tempo doloroso dove i bianchi – i bianchi maschi, specie gli italiani – fanno una pessima figura”. Titolo dell’articolo “Cuori di tenebra al sole dell’Africa”. Il libro è pubblicato da Einaudi con la traduzione di Anna Nadotti. Maaza Mengiste (Addis Abeba, 1974) è Fulbrigth Scholar e insegna scrittura al Queens College di New York. Questa sua opera ha vinto il premio The Bridge 2019 per la narrativa e lo scorso anno è stata finalista al Booker Prize.